Secondo me, il far conoscere la Bibbia ai bambini ha a che fare con
la questione della tradizione della fede, della trasmissione di generazione di
generazione, del come trasmettere la fede dai padri ai figli.
-di
Enzo Bianchi
Ora,
secondo me, all’interno di questa trasmissione – che certamente comprende tutto
un insieme di parole, scritti, atteggiamenti, insomma è fondata su tutta la
vita della famiglia – ci sono tre mezzi privilegiati che hanno una particolare
forza, una particolare efficacia di “passaggio” della fede. Certo, la fede è
dono di Dio, virtù teologale, ma per l’assenso-accoglienza da parte del
battezzato questi tre mezzi sono necessari e se uno viene a mancare la fede che
si trasmette è particolarmente debole, o depauperata, e nell’età adulta si
potrebbero manifestare patologie, persino nel cristiano adulto e maturo, che ha
accolto la fede e si dice cristiano.
Sono
tre i mezzi eccellenti per la trasmissione: la Bibbia, la liturgia e il
catechismo.
Innanzitutto,
la Bibbia, che è il mezzo per far entrare il bambino in una storia, storia di
famiglia, storia di popolo e di chiesa, una “storia interpretata” in grado di
accompagnare il credente in tutte le età della vita.
Poi
la liturgia, con la quale il bambino accede allo spazio vitale della sua
famiglia, della sua chiesa-popolo. Certamente cammino mistagogico, ma per il
bambino è accedere allo spazio simbolico per eccellenza, nel quale impara a
credere, a discernere la presenza del Dio invisibile/assente, e a dialogare con
lui, l’Altro, uscendo da se stesso.
Infine,
il catechismo, anch’esso necessario in quanto comporta un’operazione di
sintesi, riordino, memorizzazione e gerarchizzazione delle verità. Certo
l’operazione della catechesi è delicata, ma le altre non lo sono di meno.
Vorrei
che risultasse chiaro in quale flusso della trasmissione della fede si colloca
il rapporto Bibbia-bambino. Eviterei di dire “la Bibbia e i bambini” (come non
mi piacerebbe dire “la Bibbia e la donna”). Piuttosto è meglio dire “la Bibbia
e un certo bambino”, perché il singolo bambino esiste, è un essere in cammino,
in evoluzione, in crescita, lungo una linea di maturazione che deve portarlo a
essere un uomo, una donna, totalmente differente dagli altri.
Allora
ecco qualche suggerimento a partire dalle osservazioni che si fanno normalmente
quando si legge la Bibbia a un bambino.
La
Bibbia può sembrare al bambino un libro di favole
In alcune famiglie protestanti all’inizio del
secolo scorso si evitava di leggere la Bibbia ai bambini perché non la
confondessero con i libri di favole. Ora, effettivamente i bambini dai sei agli
otto anni pongono sovente la domanda: “Ma questo è vero?”. A scuola ormai si
incomincia ad accumulare il sapere scientifico così che risultano
inaccettabili, se intese alla lettera, diverse affermazioni della Bibbia, e poi
effettivamente molte delle sue pagine presentano forti somiglianze con le
favole. Queste sono difficoltà effettive e non vanno sottovalutate, ma in
realtà possono condurre a un approccio positivo alla Bibbia.
Per
un bambino di 6-8 anni quella è certamente l’età di un mondo di immagini, di
sogni, di favole, ma è anche l’età in cui può cominciare a dire: “Raccontami
una storia vera!”. La Bibbia offre immagini, leggende, miti, racconti epici, e
secondo Bruno Bettelheim il racconto fiabesco, folcloristico è necessario ai
bambini perché risponde alle loro angosce più profonde. Sotto forma simbolica
un bambino riceve suggestioni per affrontare i problemi esistenziali di ogni
essere umano che il bambino già intuisce, e quindi evolvere verso la maturità.
Si
tratta allora di usare i racconti biblici con intelligenza, offrirli ai bambini
senza farne una lettura naif, una lettura incentrata sul magico, ma passando
dal racconto fiabesco, dal piano “magico” al piano “logico”. Il bambino ha
bisogno di credere a manifestazioni esteriori di Dio, ma non ci si deve
arrestare al livello magico facendo di Dio il “mago supremo”. Bisogna riuscire
a indirizzare il bambino verso le manifestazioni di Dio all’interno del suo
cuore.
Ancora:
il bambino si identifica facilmente con personaggi reali o immaginari. Si
identifica con i grandi: il papà, lo zio, il maestro, chi gli suscita
ammirazione… e si indentifica con i cowboys, con Zorro, con gli indiani…
Leggendo la Bibbia può identificarsi con Sansone, con Mosè. È un male che
questo avvenga? Ciò che è importante, a mio parere, è far notare e indirizzare
il bambino a vedere le differenze tra le favole e i racconti biblici, tra Zorro
e Mosè.
Le favole si nutrono di tutta la complessità
della vita umana rappresentando il bene da una parte e il male dall’altra,
attraverso l’interazione del buono e del cattivo, del bello e del brutto. I
personaggi delle favole non sono mai ambivalenti.
Nella
Bibbia invece, come nella realtà, non esistono divisioni nette. Ci sono
racconti e personaggi pieni di ambiguità, molto complessi, in una vita
quotidiana nella quale intervengono dimensioni naturali, umane e la volontà di
Dio. Questo aiuta il bambino a crescere e a porsi nel suo ambiente vitale con
un’adesione alla realtà.
La
Bibbia è troppo complicata per i bambini?
Il
bambino dai sei anni in poi normalmente ha una capacità sviluppata di
utilizzazione dei simboli, soprattutto di creazione di simboli, e certo la
Bibbia è un mondo simbolico, eppure il bambino incontra difficoltà a entrarci
da solo. Occorre infatti che il simbolo per essere capito sia prima
interiorizzato. Ad esempio, dire “macchia” per parlare del peccato ed essere
capiti dal bambino presuppone che egli sappia rappresentarsi la macchia come
qualcosa di brutto, di sporco, allora “macchia” assumerà il valore di un
simbolo.
E
qui interviene l’aiuto che l’adulto può offrire al bambino: il bambino ne ha
bisogno per penetrare in simboli che lui non ha inventato e creato (come fa
invece quando gioca, e un pezzo di legno diventa una pistola). Perché il bambino
comprenda che Dio è fuoco occorre certamente spiegargli di cosa il fuoco è
segno, ma al fuoco in quanto simbolo è lui che deve accedere con la sua
intelligenza, la sua sensibilità, la sua esperienza. Non si tratta di spiegare
al bambino (leggendogli Esodo 3, l’episodio del roveto ardente) il rapporto tra
simbolo e realtà, tra significante e significato, dicendogli che Dio è forza,
luce, amore, ma piuttosto di far entrare il bambino, con tutto il suo essere,
nel significante, il simbolo. Attraverso il simbolo del fuoco il bambino avrà
allora la possibilità di percepire qualcosa della realtà di Dio.
L’universo
della Bibbia è simbolico e vi si fa un uso abbondante di linguaggio simbolico.
Proprio per questo non è un testo morto: è invece un testo che richiede che si
entri in dialogo, che la parola diventi parola condivisa. Entrare nell’universo
della Bibbia è accedere a un mondo di comunicazione: il bambino vi si proietta
interamente con il suo io, le sue fantasie, il suo immaginario, e riceve dalla
Bibbia una parola che non viene da lui, che è differente, altra.
Per
un bambino entrare nel mondo della Bibbia non è più difficile che entrare nel
mondo degli adulti: deve uscire da sé, dal suo immaginario, dal suo narcisismo
per incontrare gli altri e l’Altro per eccellenza, Dio. È il movimento della
crescita umana: amare e comunicare e prendere e accogliere la parola. Un
bambino, anche se non conosce la grammatica della Bibbia – date, storia,
simboli –, può entrare nel linguaggio simbolico che è comunicazione.
Alcune
condizioni
Il
bambino deve poter proiettare il suo immaginario nel testo biblico, altrimenti
il testo sarà un testo morto per lui. Ad esempio: il racconto di Caino e Abele,
in Genesi 4, presenta una rivalità tra fratelli. Il bambino deve potervi
leggere un’evocazione della rivalità che lui stesso vive.
La
Bibbia è una parola “altra” rispetto al bambino, esteriore a lui. Dio è la
madre o il padre su cui il bambino proietta i suoi desideri di potenza e di
rifugio, ma è anche l’Altro, del quale il bambino non può fare ciò che vuole!
Dio arriva anche a punire! È grazie a questa parola esteriore che il bambino
può uscire dal suo narcisismo e comunicare. Qui la presenza dell’adulto è
indispensabile, per un dialogo a tre:
-
il bambino interpreta il testo proiettandosi in esso
-
l’adulto dice la sua fede spiegando il testo
-
e il testo diventa parola eloquente che interroga, stupisce, evoca.
Il bambino deve accettare l’altro come
differente, deve esprimersi, accedere alla parola, uscire dal suo narcisismo,
che ricrea il mondo unicamente in riferimento a sé. Attraverso la Bibbia entra
in comunicazione con la fede dell’altro, degli altri, della “sua famiglia”.
Per
questo nella misura del possibile dovrebbero essere i genitori a introdurre il
bambino alla lettura della Bibbia: come lo risvegliano alla vita lo devono
risvegliare alla fede, offrendo al bambino il segno di una testimonianza di
vita, dei testimoni.
Ma
si ricordi che l’adulto può offrire al bambino il suo amore, non le sue idee.
Non è bene che i bambini diventino come lui, perché la loro vita è progetto,
apertura al futuro, non ritorno al passato!
Alzogliocchiversoilcielo
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