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venerdì 30 giugno 2023

SETTIMANA SOCIALE 2024


È disponibile online, sul sito 
www.settimanesociali.it, il Documento preparatorio della 50ª Settimana Sociale dei Cattolici in Italia, in programma a Trieste dal 3 al 7 luglio 2024.


Partecipazione e pace, lavoro e diritti, migrazioni, ecologia integrale, economia che metta al centro l’uomo e la natura sono i temi “Al cuore della democrazia” che faranno da filo rosso al tradizionale appuntamento promosso dalla CEI.
Pensata come un processo più che come un evento, la Settimana Sociale entra nel vivo con la pubblicazione del Documento preparatorio che aiuterà a riflettere e a individuare idee da realizzare per “partecipare tra storia e futuro”. “Il futuro del Paese – sottolinea il Documento – richiede persone capaci di mettersi in gioco e di collaborare tra loro per rigenerare gli spazi di vita, anche i più marginali e affaticati, rinforzando la capacità di scegliere democraticamente e di vivere il potere come un servizio da condividere. È una sfida che riguarda tutti i cittadini: tutte le voci di una comunità devono trovare parola, ascolto e sostegno, per elaborare pensiero e avviare percorsi di partecipazione, per trasformare il presente e liberare più bellezza nel futuro”.
In vista di una Settimana Sociale che vuole essere “un crocevia di persone e progetti diversi, un luogo per condividere il presente e immaginare insieme il futuro, ricercando sempre nuove vie per costruire il bene comune”, Diocesi e territori, aggregazioni laicali e famiglie religiose, cittadini e fedeli sono chiamati a confrontarsi sul tema della democrazia, a partire da alcune domande presenti nel Documento. Così da dare un contributo significativo al Cammino sinodale – di cui la Settimana Sociale è parte integrante – e allo sviluppo del Paese.
In quest’ottica, la scelta della sede non è casuale: Trieste è città di confine, proiettata verso l’Europa e aperta verso Est, con una presenza storica di tante Confessioni cristiane e religioni diverse; una terra segnata da divisioni politiche che ne hanno attraversato la storia, con luoghi che ricordano dove porta la negazione della democrazia, dalla Risiera di San Saba alle Foibe. “Vogliamo capire – spiega il Documento – qualcosa di più di questi confini che uniscono e dividono, di questa Europa e del suo sogno di pace tante volte tradito, del mondo che vi arriva a piedi – piedi feriti dal cammino e provati dalla fatica – dopo aver percorso le strade della guerra e della disperazione”.

L’importanza dell’apertura alla multiculturalità e al pluralismo così come del dialogo sono richiamati in modo plastico dal logo, che raffigura dei baloon che si intrecciano: l’intersezione delle forme e dei colori crea una croce, simbolo delle radici e dei valori che sono alla base dell’appuntamento.

La comunità – fattore chiave del cambiamento proposto – è invece rappresentata dall’immagine scelta per la 50ª edizione che, riecheggiando le grafiche degli anni ‘60, in particolare dell’optical art, utilizza elementi geometrici semplici per generare, grazie alla loro ripetizione, un grande cuore fatto di persone.




COMPETENZE O EDUCAZIONE ?





I professori bocciati

Sembra destinata ad essere presto dimenticata la sorpresa suscitata nell’opinione pubblica dalla vicenda del 9 in condotta, attribuito dal consiglio di classe di una scuola di Rovigo, a uno studente che insieme ad altri aveva sparato con una pistola a pallini di gomma in faccia a una insegnante, filmando la scena e divulgandola poi sui social. Ora tutto sembra sia stato rimesso a posto: dopo l’intervento del ministro Valditara, il consiglio di classe si è riunito nuovamente e ha, dopo una opportuna «riflessione», trasformato il 9 in un 7 e gli 8 dati ad altri tre studenti, coinvolti nella stessa impresa, in altrettanti 6. Giustizia è fatta. Si può passare al prossimo fatto di cronaca messo all’ordine del giorno dai mezzi di informazione.

Eppure, forse varrebbe la pena di fermarsi ancora un momento su quello che è accaduto e sul suo significato. Se non altro perché la scuola è una realtà in cui a vario titolo siamo tutti coinvolti, come docenti, genitori, studenti, impiegati, o semplicemente cittadini che si rendono conto del peso che il sistema d’istruzione ha nel presente e nel futuro del nostro paese.

Una prima riflessione riguarda i professori che hanno messo quel 9 (e gli 8) e poi, incalzati dagli ispettori del ministro, se li sono rimangiati. C’è da chiedersi cosa avrebbero dovuto fare quegli studenti per meritare, ai loro occhi, valutazioni meno lusinghiere. In particolare, il 9 in condotta.

In passato si esitava a dare quel voto per non esporre lo studente alle prese in giro dei compagni. Vederlo assegnato a un ragazzo che ha sparato alla sua professoressa, per poi vantarsene ed esporla all’irrisione pubblica su internet, sembrerebbe addirittura un premio. Sarcasticamente qualcuno ha commentato: «Non gli hanno dato 10 perché in fondo è rimasta viva».

Già, è rimasta viva. Ma, a prescindere dal suo ruolo di docente – che per la scuola dovrebbe pur sempre contare qualcosa – è stata umiliata già semplicemente come persona. Se poi si tiene conto che dovrà in futuro affrontare delle classi ed esigerne il rispetto, si capisce che il danno arrecato da questa vicenda alla sua autorevolezza è stato irreparabile. Così come quello subìto dalla scuola, che contava su di lei per lo svolgimento di un servizio educativo qualificato. E a questo danno ha molto contribuito la mancata solidarietà da parte dei suoi colleghi, che hanno ritenuto irrilevante il massacro morale a cui è stata sottoposta dai suoi alunni.

Ma ad uscirne massacrata è stata soprattutto la nostra scuola, che ha visto legittimato da suoi legittimi rappresentanti questo far west. Né sembra aver migliorato la situazione complessiva la marcia indietro del consiglio di classe. Alla debolezza delle ragioni che lo avevano portato a sottovalutare la gravità della mancanza disciplinare dei loro alunni si è aggiunta quella della subitanea resa al volere del ministro. Riesce difficile immaginare il valore educativo di entrambi questi comportamenti. Sarà molto difficile a questi professori parlare ai propri alunni di responsabilità e di coerenza.

Il rapporto tra competenze e condotta nella scuola

Ma c’è una domanda che quasi nessuno sembra essersi fatta: che cosa è cambiato con la nuova valutazione? La risosta è semplice: nulla. I ragazzi sono stati e restano promossi all’anno successivo, perché solo un voto di condotta inferiore al 6 avrebbe potuto compromettere l’esito del loro anno scolastico.

Fino al 1995 anche il 7 in condotta era causa di un automatico rinvio a settembre dello studente in tutte le discipline. Poi, col nuovo Statuto degli studenti e delle studentesse, voluto dal ministro Berlinguer, la correlazione tra profitto e condotta era stata cancellata e la promozione era stata resa indipendente dal comportamento. L’aveva ristabilita la Gelmini, portando però a 6 il voto minimo di condotta. E questo voto è dunque sufficiente agli studenti di Rovigo per non avere alcun inconveniente nella loro carriere scolastica.

Al di là del caso di cronaca, è in gioco il senso che noi attribuiamo alla scuola. È chiaro che sganciare l’andamento scolastico di un ragazzo dai suoi comportamenti, come a suo tempo ha fatto Berlinguer, significa separare il problema dell’istruzione da quello educativo. Si può essere studenti modello sul piano della competenza nelle diverse discipline ed avere atteggiamenti problematici, se non addirittura violenti, sul piano dei rapporti umani con i compagni e verso gli stessi professori.

Se il sistema scolastico deve occuparsi solo del primo aspetto, affinando le conoscenze degli alunni e la loro capacità di utilizzarle nel modo più appropriato per far fonte ai problemi – questo sono le competenze – l’eventuale divaricazione non costituisce un problema. Ma allora essa deve chiaramente riconoscere di non avere più come obiettivo la formazione di personalità mature e responsabili.

E allora non ci sono più armi – soprattutto argomenti – per contrastare le diverse forme di bullismo che oggi imperversano nelle nostre scuole e di cui anche internet è diventato uno strumento particolarmente efficace. Ma, più profondamente, si rinunzia all’idea di una cultura che sia anche “coltivazione” della persona, e innanzi tutto della sua anima, per ripiegare sul modello di una conoscenza fondamentalmente strumentale, buona per tutti gli usi, in base a scelte individuali e insindacabili. La scuola diventa il luogo dove si imparano le lingue – che oggi sono essenziali per entrare nel mercato del lavoro – , si affina la capacità di ragionare, – molti giù riducono a questo l’insegnamento della filosofia –, ci si addestra a fronteggiare le diverse esperienze, alternando scuola e lavoro o facendo scambi culturali – ma non si apre l’orizzonte di fini condivisi o almeno condivisibili a cui questi mezzi dovrebbero essere indirizzati.

Di fatto, è questo che è accaduto, per una deriva culturale ed etica della nostra società che va al di là delle scelte dei singoli ministri. Berlinguer non ha fatto che trarne le conclusioni. E la Gelmini, andando in senso opposto, non ha potuto cambiare la tendenza in atto. La ragione di questa crisi educativa è semplice: non si sa più quali valori additare.

Un tempo la scuola era la rigida tutrice di una scala di verità e di valori che rispecchiavano una società in sostanza monolitica. C’erano i contrasti ideologici, ma sul piano etico – come dimostrano gli scontri tra don Camillo e Peppone – esisteva ancora una forte consonanza. Oggi, per reazione a quella omogeneità, che spesso era anche escludente e intollerante, si intende la libertà come autonomia assoluta dei singoli di fissare la scala delle loro preferenze.

I mezzi e i fini

Questo ha cambiato il volto del nostro sistema scolastico. Mentre sul piano dei mezzi si sono fatti enormi progressi – si pensi all’uso dei computer, alla pagella elettronica, etc. – , di fini condivisi ne sono rimasti ben pochi. Da questo punto di vista la situazione di questa agenzia educativa è peggiore di quella della famiglia, dove è molto più facile che ci sia una convergenza su alcuni principi etici. Nelle nostre aule ormai è difficile dire qualcosa che non possa esser contraddetto, in nome della libertà di pensiero, da qualunque altro docente o dagli stessi alunni. Tutte le idee sono legittime ma, proprio per questo, nessuna può essere assunta come punto di riferimento comunitario.

Da qui anche la difficoltà di considerare in base a una regola comune i diversi comportamenti. In nome dei diritti la nostra società ha da tempo messo in secondo piano i doveri. Come potrebbe la scuola seguire una strada diversa? Tanto più che di essa, in senso lato, fanno parte i genitori, che in questi ultimi anni hanno rotto il tradizionale patto di alleanza con gli insegnanti e scendono in campo ad ogni occasione a difesa dei loro figli, arrivando perfino all’aggressione fisica nei confronti dei docenti.

C’è da dubitare che, in questo contesto, la recente introduzione di una materia che sostituisce l’antica “educazione civica” e che dovrebbe ripresentare almeno i valori su cui poggia la nostra Carta costituzionale possa cambiare radicalmente la situazione. La stessa Costituzione, ormai, più che terreno dove ritrovare l’unità, si è trasformata nel campo di battaglia delle interpretazioni, sempre in nome di diritti. Difficile che da questo insegnamento derivi una svolta decisiva.

Se letto in questa luce, l’episodio di Rovigo non è appare più soltanto un esempio di disattenzione e di superficialità da parte di un singolo consiglio di classe, ma il sintomo allarmante di una crisi di cui gli stessi docenti sono vittime e che li ha espropriati – a volte con il loro più o meno consapevole consenso – del ruolo di educatori. Ora la vicenda sarà presto dimenticata. Ma è chiaro che i problemi che pone non possono essere elusi e meritano una presa di coscienza collettiva che vada al di là del singolo episodio. Di cui forse vale la pena di continuare a parlare. Se non altro per chiederci se ci sono ancora dei fini che possiamo sperare che la scuola proponga ai nostri figli.

* Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, Scrittore ed Editorialista.

www.tuttavia.eu 

 

 

                                                                                                                                                                                         

LASCIARSI DISTURBARE

Via dalla zona confort 

per lasciarsi disturbare 

dal prossimo

La Lev ha pubblicato il primo libro in italiano dell’intellettuale cattolico francese “Chi crede non è un borghese”, una riflessione sull’essere credente: “Occorre abbandonare la zona di confort per lasciarsi disturbare dal prossimo”

- di Eugenio Bonanata

Ci vuole coraggio per annunciare il Vangelo, per andare verso le periferie geografiche ed esistenziali, per ascoltare la gente che soffre e che vive nel bisogno. Papa Francesco ripete spesso che questo è il cuore dell’essere cristiani. E anche Jean de Saint-Cheron, intellettuale cattolico francese, arriva alla stessa conclusione riflettendo sull’argomento nell’ambito del suo libro appena tradotto in italiano grazie alla Libreria Editrice Vaticana. S’intitola Chi crede non è un borghese. Perché la santità è alla portata di tutti e offre un percorso molto ricco di spunti e di citazioni per argomentare la tesi di fondo. “In realtà questo volume è il frutto di una lunga preghiera”, afferma l’autore a Telepace. Una preghiera che ha preso le mosse da una constatazione personale, quella di “Essere un cristiano imperfetto all’interno Chiesa", dice confidando di aver meditato sul Vangelo e sulla distanza che c’è tra ciò che viviamo e ciò che ci è richiesto in quanto credenti.

Nel mondo scristianizzato è l'ora della coerenza

Ma qual è la via d’uscita? “Bisogna lasciarsi disturbare dal prossimo”, risponde Jean de Saint-Cheron, che ha individuato in questo aspetto una delle ragioni per cui non è facile percorrere la strada della santità. “Abbiamo paura di essere disturbati nel nostro piccolo confort”, spiega paragonando lo spirito borghese al peccato originale di Adamo ed Eva: in comune con i progenitori - secondo l’intellettuale - c’è la tendenza a seguire le proprie attese senza tener conto dell’insegnamento di Dio. “Il Signore - prosegue - si manifesta spesso attraverso il volto degli altri, di quelli che ci circondano. Pensiamo ad esempio a San Francesco d’Assisi e Madre Teresa di Calcutta che si sono lasciati disturbare dai poveri e dai lebbrosi”. Anche Papa Francesco ci chiede in continuazione di fare altrettanto. Una richiesta che si traduce in scelte ben precise, come avvicinare chi non crede e soprattutto compiere atti concreti. Alla luce della secolarizzazione e/o della de-cristianizzazione che avanzano un po’ ovunque, questa coerenza è quantomai necessaria da parte dei cristiani. “Oggi - osserva ancora de Saint-Cheron - ci sono dei cristiani che sono riusciti a costruirsi delle piccole ‘cappelle’, cioè uno spazio di confort tutto loro. Ma è soltanto uscendo da questi luoghi che si riesce ad essere veramente cristiani e a vivere la propria fede”.


Chi crede non è un borghese. Perché la santità è alla portata di tutti

Jean de Saint-Cheron
pubblicato da Libreria Editrice Vaticana, maggio 2023

RD CONGO. VITTIME I BAMBINI

Repubblica Democratica del Congo, 

la vita dei bambini tra violenza e sfruttamento

Secondo il Rapporto annuale delle Nazioni Unite la Repubblica Democratica del Congo è in testa alla classifica globale dei Paesi in conflitto con più reati sui minori. Più di 3mila bambini risultano vittime di soprusi. Filippo Ungaro di Save the Children Italia: “Nel corso degli anni abbiamo visto aumentare a dismisura le violazioni dei diritti umani nel Paese”

- di Beatrice D'Ascenzi – Città del Vaticano

Una realtà di privazioni e abusi che impediscono ai minori di vivere serenamente l’infanzia e la futura vita adulta. Per il secondo anno consecutivo, nel 2022 la Repubblica Democratica del Congo ha registrato il più alto numero di gravi violazioni contro le bambine e i bambini nei conflitti armati, con almeno 2.420 vittime di violazioni, tra cui uccisioni, mutilazioni, rapimenti e violenze sessuali. Filippo Ungaro, direttore Comunicazione e Campagne di Save the Children Italia, racconta a Radio Vaticana – Vatican News la quotidianità nel Paese: “I rischi che i minori corrono sono moltissimi. Possono essere uccisi o feriti, ma uno di pericoli più grandi per loro è quello di essere reclutati dai gruppi armati per combattere.”

Il rapporto delle Nazioni Unite

“Il Paese è in conflitto da decenni, è instabile e sta vivendo una grave crisi economica”, spiega Ungaro. “Nel corso degli anni sono aumentate a dismisura le violazioni dei diritti sui minori”. Secondo il Rapporto annuale delle Nazioni Unite sui bambini e i conflitti armati, nel 2022 ci sono state almeno 27.180 gravi violazioni in tutto il mondo, con un aumento del 13% rispetto all'anno precedente. Il dato più alto riguarda l'uccisione e la mutilazione di bambine e bambini, seguito dal reclutamento e dal rapimento, con un aumento del 112% degli attacchi a scuole e ospedali rispetto al 2021. In questo quadro la Repubblica Democratica del Congo si posiziona in testa a questa tristissima classifica. Il Paese conta almeno 2.420 minori vittime di violazioni di vario tipo al quale si aggiungono almeno 3.377 gravi violazioni dei diritti dell’infanzia. Una realtà che Save the Children, presente nella Repubblica Democratica del Congo dal 1994, conosce molto bene: “Nonostante le grandi risorse che il Paese possiede la popolazione vive fortissime disuguaglianze che molto spesso coinvolge i più piccoli in prima persona”.

Questi maltrattamenti hanno delle ripercussioni fortissime sulla psiche dei bambini, continua Ungaro: “I minori subiscono forti traumi psicologici che si possono manifestare in vari modi, dal non dormire la notte fino al rifiuto completo della socialità. Ma la parte più difficile da superare è lo stigma della comunità”. Problemi che spesso si aggiungono alla difficoltà di ricostruirsi una vita serena, trovare delle opportunità e poter continuare gli studi interrotti. Per questo Save the Children è in prima linea nel combattere i traumi psicologici, cercando di applicare degli interventi capaci di elaborare le ferite psicologiche dei singoli con dei programmi che prevedono il coinvolgimento delle comunità di origine dei bambini: “Quello che facciamo, conclude Save the Children, è cercare di creare un clima favorevole all'elaborazione del trauma perché è  fondamentale proteggerli dalle ferite fisiche ed emotive della guerra e intensificare gli sforzi per prevenire le violazioni contro di loro”.

 

Vatican News


 

giovedì 29 giugno 2023

PATTO EDUCATIVO IN FRANTUMI


Patto educativo rotto 

docenti, studenti e genitori

 

A parlare di crisi del sistema educativo è stato lo psicoanalista Massimo Recalcati, intervenuto nella trasmissione radiofonica di RaiRadio 1, Il mondo nuovo.



Recalcati: “i genitori fanno i sindacalisti dei figli. A volte i docenti devono supplire alle loro mancanze educative”

- di Sara Adorno

Nel suo lungo intervento lo psicoanalista ha parlato anche del rapporto docenti-studenti-genitori, affermando: “Lo stato di salute della scuola riflette la condizione comatosa dello stato educativo in generale. La rottura del patto educazionale nella scuola è un fatto evidente. Come diceva Freud, nella figura dei maestri, degli insegnanti, dei professori, i figli proiettano le figure primarie genitoriali; quindi, esisteva una continuità tra la figura del genitore e quella dell’insegnante. E con l’esistenza del patto educativo, i genitori si schieravano dalla parte degli insegnanti, condividendo lo stesso obiettivo, l’educazione e la formazione dei figli. Oggi questa alleanza si è fratturata, i genitori sono alleati con i figli e l’isolamento degli insegnanti comporta che qualunque loro azione educativa rivolta agli allievi viene vissuta dalla famiglia come un abuso di potere, come un’ingerenza, come un esercizio autoritario del potere. Nel nostro tempo i genitori tendono a fare i sindacalisti dei figli, in un certo senso. Per un altro verso, invece, gli insegnanti sono investiti di un compito educativo dagli stessi genitori. Nel momento in cui quest’ultimi non riesco a esercitare questo ruolo educativo in famiglia, gli insegnanti si trovano a supplire queste falle nel discorso educativo; infatti, si dice spesso che la scuola va ad occupare il vuoto educativo lasciato dalle famiglie. Quindi gli insegnanti si trovano ad avere questa forbice a doppio taglio, da una parte criticati e dall’altra ritenuti necessari”.

Crisi educativa attuale: che sta succedendo?

L’esperto ha affermato: “Partiamo da una constatazione condivisa e, cioè, dal fatto che oggi c’è una crisi non solo degli educatori, degli insegnanti, dei genitori, ma più in generale del discorso educativo in quanto tale, una crisi generalizzata. Perché c’è questa crisi, questo tramonto dell’autorità simbolica? Per due ragioni fondamentali, secondo me: la prima, il comandamento sociale che governa le nostre vite non è più quello di 30-40 anni fa, che passava attraverso l’imperativo del dovere, devi lavorare, devi fare una famiglia, devi essere un buon cittadino, al prezzo anche del sacrificio e della rinuncia. Adesso il comandamento è cambiato e all’imperativo del dovere è stato sostituito quello del godere. La spinta al godere è una nuova forma della legge. La formula con cui si può riassumere questa spinta è ‘perché no?, perché rinunciare al godimento immediato?’ Ciò mette sottosopra ogni discorso educativo che si fonda sul differimento del godimento”.

E continua ancora: “Chiunque si occupi di educazione si trova in uno stato di afonia, in cui la sua parola ha perso peso, ha perso autorità simbolica e questo genera smarrimento. La definizione del limite non è, però, un’oppressione repressiva della vita, il limite consente il gioco della vita. C’è stato in passato un abuso nel porre limiti, ma non è questo il caso. Il termine educazione ha due etimologie possibili, la prima che deriva da educere, condurre sulla giusta via, e che rischia di scivolare verso una rappresentazione autoritaria dell’educazione; ma ce n’è un’altra che riporta educere al termine seducere, che nel suo significato etimologico significa condurre in disparte, portare altrove, di fronte al nuovo, al diverso. Ed è proprio questa immagine di apertura alla vita che dovrebbe essere recuperata, proprio perché il limite non è sinonimo di reprimere”.

Come si fa ad uscire da questa situazione attuale? A questo Recalcati risponde che “il nostro tempo accentua la tendenza nostalgica al recupero dell’autorità. Secondo me per uscire da questo empasse le vecchie generazioni debbano avere fiducia nelle nuove generazioni, ma con un’aggiunta: ricostruendo una nuova alleanza tra le generazioni. Inoltre, la parola del padre, sebbene questa figura non sia più quella della tradizione del patriarcato, deve continuare ad avere un peso”.

Tecnica della Scuola

DESIDERIO E FELICITA'


 - di  Alessandro D’Avenia

“E io ancora mi sveglio aspettando un messaggio che non arriva… tutta la vita”. Così canta Drast, cantautore del 2001, in un verso che sintetizza la ricerca della sua generazione: l’attesa vana di un messaggio d’amore. La canzone, intitolata “Tutta la vita”, si riferisce a una ragazza sparita all’improvviso, ma quando nel finale chiede: “Dove sei andata?”, la domanda si può adattare alla vita stessa, promessa d’amore non mantenuta. Ed è infatti questa la domanda dei ragazzi con cui ho a che fare tutti i giorni a scuola: dove è finita la vita?

Hanno “tutto” per “essere viventi”, ma “poco” per “essere vivi”. Il combinato di consumismo, nichilismo e individualismo (che chiamo CONIND, vera pandemia esistenziale) di cui li abbiamo dotati paralizza il desiderio e quindi il destino, rendendoli anzitempo apatici, impauriti o depressi. Ma il dolore è anche la loro salvezza, perché il desiderio non può essere mai distrutto, è più radicale della paura di non essere abbastanza: la spinta a nascere sempre di più caratterizza gli umani, che sanno coniugare i verbi al futuro e sono apparsi sulla Terra cominciando a seppellire i loro simili, convinti che l’oltre, non la morte, ha l’ultima parola. 

 A ispirare quest’oltre è il desiderio: principio di umanizzazione e animazione della vita, che sin da bambini impariamo ad allenare o distruggere guardando quello che desiderano gli adulti. Lo diceva già due secoli fa Leopardi: “Sebbene spento nel mondo il grande e il bello, non ne è spenta in noi l’inclinazione. Se è tolto l’ottenere, non è tolto né possibile a togliere il desiderare. Non è spento nei giovani l’ardore che li porta a procacciarsi una vita, e a sdegnare la nullità e la monotonia” (Zibaldone, agosto 1820). Sta a noi adulti nutrire il loro desiderio e non solo il loro stomaco, non scambiare la gioia(creare/amare) con il pienessere (consumare/usare). 

 La felicità è scoprire ciò in cui ciascuno di noi è insostituibile e agire di conseguenza. I ragazzi vengono immessi in un sistema culturale che invece chiede a tutti la stessa cosa, e così a poco a poco il loro desiderio si spegne, il loro destino evapora. Quando arriva maggio cerco di chiudere programmi e verifiche, per dedicare le ultime settimane di scuola all’esplorazione della loro vocazione attraverso esercizi, letture, test. La maturità, esame che promuove il 99,8% dei ragazzi ed è quindi inutile, si chiude con la paternalistica domanda di rito: “Dopo che vuoi fare?”. Questa domanda, posta in corner e non sempre (in genere solo ai “bravi”), indica tutta l’inadeguatezza di un sistema educativo in cui la vocazione di ciascuno, invece di essere la prima, è l’ultima delle preoccupazioni. Dovrebbe essere “la” domanda, la prima, appena seduti all’esame: “Perché sei venuto al mondo?”. Se dopo 13 anni a scuola con adulti “educatori” non hai scoperto i tuoi talenti e i tuoi limiti che cosa abbiamo fatto con te? Ti abbiamo educato o addestrato? Fatto nascere o imbalsamato? Dove troverai mai il coraggio di vivere, anzi di “essere vivo”, se non sai neanche che cosa “ti rende vivo”? La domanda a cui questa generazione va allenata è questa: “Perché sei qui?” e non “Che cosa vuoi fare?”. 

 Il “perché” è ciò che poi genera qualsiasi “che cosa” e “come”: chi sa il “perché” può affrontare poi ogni “come” e “che cosa”. Per capirsi: il mio perché non è fare l’insegnante, lo scrittore, il narratore, l’editorialista… questi sono solo i “come” e “che cosa” di una più radicale vocazione, ciò che mi fa essere vivo, il perché sono qui, che cosa posso essere e fare solo io, ciò che mi consente ogni giorno di venire alla luce e al mondo: sono qui per aiutare gli altri a trovare la propria vocazione attraverso la bellezza, risvegliare il loro desiderio addormentato o scoprire quello ancora sconosciuto. Che poi questo diventi “lavoro” (e quindi valore riconosciuto e retribuito) attraverso una lezione, un articolo, un libro o un racconto teatrale, lo detta la contingenza storica e le occasioni incontrate. 

 Il desiderio è quel principio di ispirazione che libera dalla “bipolarità” di cui è prigioniera questa generazione (e non solo): piacere (faccio solo quello che mi va) e dovere (prima o poi sono costretto a far qualcosa). Oscillare tra piacere e dovere significa avere rinunciato alla libertà, lasciar decidere altro o altri, in balia di emozioni passeggere o costrizioni eterodirette. Per questo poi l’arena per esistere un po’ di più diventano i social, vite schermate utili a lenire il dolore di non essere nessuno, cioè di nessuno (solo chi appartiene esiste, solo chi si riceve nelle relazioni buone poi si avventura nella vita). Ma per fortuna la vita è generosa, e sempre qualcosa o qualcuno risveglia l’ispirazione, il desiderio, che ha dentro sia il dovere (chiunque ami qualcosa si impegna, costi quel che costi, per ciò che ama, altrimenti non lo ama), sia il piacere, per la persona “ispirata” tutto diventa piacere, anche la fatica, perché tutto punta a fare altra vita, creare e crearsi: ricrearsi. 

 Ma come può questa generazione maturare un’arte di vivere, senza prima averne l’ispirazione: il desiderio o vocazione che dir si voglia? E come può farlo se nessuno li aiuta a scovarla? Che me ne faccio di un ragazzo che sa chi è Telemaco se poi non riesce ad essere Telemaco (nome che vuol dire “colui che combatte da lontano”: per chi e cosa lotti tu “da lontano”, cioè fin da ora, anche se non lo ottieni subito?) ma si limita ad essere Telefono (una vita schermata)? E qui il tema diventa politico come segnalava sempre Leopardi: “L’ardore giovanile, cosa naturalissima, universale, importantissima, una volta entrava grandemente nella considerazione degli uomini di Stato. Questa materia vivissima, e di sommo peso, ora non entra più nella bilancia dei politici e dei reggitori, ma è considerata appunto come non esistente. Eppure esiste ed opera senza direzione nessuna, senza provvidenza, senza esser posta a frutto”. 

 La politica di cui parlo non è quella dei politicanti che spesso è solo farsa o retorica del potere, ma la cura operata da chiunque abbia affidate delle vite, un progetto da realizzare e non la gestione di risorse da esaurire (da quando le persone si chiamano “risorse umane” non possiamo che esser tutti esauriti: tutto comincia sempre dalle parole sbagliate). Manca un progetto educativo, una paideia che abbia a cuore i destini di ciascuno e quindi di tutti. La scuola continua a servirsi del lessico militare con cui è nata a fine Ottocento, quando serviva a mettere dietro una scrivania dei contadini: appello, file, classe… anziché aprirsi a quello della bottega (maestro, movimento, stile…). Non basta più un sistema che punta ancora a “intruppare” anziché a “individuare”, nell’unico modo in cui ci si individua: all’interno di relazioni generative (sin da quando siamo bambini impariamo a dire “io” dopo aver detto “tu”) e trovando lo stile originale di ciascuno. 

 Leopardi, riferendosi ancora all’ardore giovanile continua così: “laddove anticamente era una materia impiegata e ordinata alle grandi utilità pubbliche, ora questa materia così naturale e inestinguibile divenuta estranea alla macchina e nociva, circola e serpeggia e divora sordamente come un fuoco elettrico, che non si può sopire né impiegare in bene né impedire che non scoppi in temporali e terremoti”. Gli era già tutto chiaro: i giovani rivolgono l’energia inespressa del desiderio o contro gli altri o contro se stessi (chi non crea de-crea, chi non genera de-genera): violenza, suicidi, dipendenze, patologie alimentari, abulie o iperattivismo, depressioni… ne sono la crescente evidenza. Questa fragilità è fragilità del desiderio oppresso o represso. 

 Può sembrare un quadro fosco, ma non lo è, perché lo riporta a una concretezza possibile. Infatti vedo fiorire o rinascere chi trova adulti disposti a chiedere: “Perché sei venuto al mondo?”, adulti che ascoltano la risposta senza imporre copioni, e rimangono a far la strada insieme, anzi magari la aprono. La riposta dei giovani non è quasi mai: sono qui per comprare cose, fregarmene di tutto e tutti, e divertirmi più che posso… queste sono solo fughe dal dolore profondo del desiderio dimenticato e quindi del destino mancato. Non sono ottimista, perché ritengo l’ottimismo l’ideologia paternalistica che parla dei giovani (mai “con” i giovani) come “il futuro” senza poi fare nulla, ma sono invece pieno di speranza, che è azione concreta rivolta a ciò che ho per le mani. 

 Un giovane non è il futuro, ma ha futuro in sé, solo se impara a dargli un nome, il proprio: ciò che solo lui può essere e fare, scoprendo che i talenti che ha non gli appartengono ma sono già del mondo che li sta aspettando, la sua unicità è per la comunità. Solo così scopre che è necessario al mondo, proprio facendo venire al mondo quello per cui è fatto, e si tira fuori dall’anonimato nichilista, consumista e individualista, diventa “vivo” non solo lui ma tutto attorno a lui. 

 Alzogliocchi

lunedì 26 giugno 2023

DECIFRARE L'ADOLESCENZA

 Processo ai genitori: ansiosi, inadeguati, iperprotettivi.  

Incapaci di decifrare l’adolescenza


Sono stressati. Incapaci di trasmettere ai ragazzi

 il valore dell’impegno. 

E pronti a giustificarli sempre. 

Dietro teenager aggressivi a scuola o chiusi nelle loro bolle

 virtuali ci sono spesso adulti 

che non riescono ad aiutarli a crescere

 

- di Lisa Ginzburg

   L’età “protratta”, quella che tanto si fatica a lasciare ma di cui poco, o non abbastanza, si parla. L’adolescenza, questa sconosciuta: di volta in volta vessillo o ricettacolo di definizioni stigmatizzanti e che è facile scivolino in una genericità che sfiora il banale. Durante la pandemia si è trattato di adolescenze vissute al chiuso della propria camera e della famiglia, ciascuno immerso in una sua bolla virtuale spesso, nella lunga durata, opprimente come una prigione. Ora, finita l’emergenza, come quella adulta anche la socialità degli adolescenti riprende. Ricomincia, trasformata come trasformati siamo
tutti, sincopata, per quanto meno solitaria e meno ostaggio di solipsismo da “sindrome hikikomori” di quanto qui e là venga teorizzato.

 Riguardo ai rapporti famigliari, forse la lunga incubazione data dalla vita domestica coatta ha mutato gli scambi tra gli adolescenti e i loro genitori adulti, rendendo quei rapporti più stretti o invece più difficili e afasici di quanto non fosse già? Che questa protratta “endogamia obbligata” abbia ridotto lo iato anagrafico, livellato distanze generazionali rendendoci in qualche maniera tutti in casa più simili, sin troppo vicini?

 «Sarebbe miope non riconoscere che la pandemia abbia segnato un periodo molto particolare, ma è stato d’altra parte evento che ha estremizzato e reso più evidenti dinamiche che esistevano già, tutte, all’interno dei nuclei famigliari» dice Maurizio Andolfi, per molti anni Direttore dell’Accademia di Psicoterapia di Roma e da tempo residente in Australia dove il Governo gli ha conferito l’onorificenza di Distinguished Talent. Senza enfasi, ma categorico, guarda con scandalo all’eccessivo, apprensivo proteggere i figli adolescenti da parte dei genitori italiani.

 «Il guaio è incominciato con l’invenzione diabolica del “genitore amico” e prosegue con un’abnegazione fuori misura nei confronti dei figli. A forza di fare tutto per loro, si finisce per bloccarli». Come sempre avviene con i troppi sacrifici, forme di rinuncia ricattatorie che nella lunga durata inibiscono e tarpano le ali, le abnegazioni sono facciate compensatorie di altri vuoti. Forte della lucidità di chi l’Italia ha scelto di seguirla da lontano, con alle spalle una consolidata esperienza di terapia famigliare e dell’adolescenza, Andolfi vede il problema, più che in un livellamento tra le generazioni, in un modello adulto fallace in partenza perché labile dal punto di vista della stabilità emotiva.

 «Quelli che più mi appaiono vittime di un forte disagio psicologico sono gli adulti. In preda a un disorientamento generale e a un’ansia galoppante, non sono capaci di trasmettere ai più giovani il valore dell’impegno, inteso come sforzo, certe volte rinuncia, certe altre, attesa fatta di vuoti», mi dice via zoom. «La nozione di vuoto manca ormai del tutto, e questo anche evidenzia su scala globale una condizione di salute mentale compromessa. Le esistenze sono velocizzate, convulse, per causa della troppa attività virtuale certamente, e perché a mancare sono fatica e noia. Due elementi fondanti, e che vanno insieme. Fatica come sforzo, impegno, sacrificio positivo (in vista di un fine), noia come vuoto, inattività, vacuum dove manchi la costante connessione Internet a far credere di essere occupati. Si aggiunge la caduta verticale della lettura, un’attività in totale dissintonia con il presente per come, oltre a rallentare il ritmo del tempo, vuole uno sforzo della fantasia così da immaginare, figurarsi storie e persone, all’opposto di quest’epoca in cui tutto si vede e si vuole visibile, a portata di clic».

 Abnegati e sin troppo assidui nel seguire le vite dei figli, a loro volta in una condizione di totale dipendenza da Internet e dalla “visibilità”, i genitori poco hanno da offrire in termini di riferimenti morali. Sono sponde friabili, la cui autorevolezza frana di fronte allo tsunami della metamorfosi dei tempi. «Senza dubbio esiste una difficoltà, dei genitori per primi» ribadisce Antonello D’Elia, psichiatra, «nel gestire e far coesistere insieme norma e soavità. Il registro della tenerezza ha sostituito il conflitto, a cominciare dalle figure dei “mammi” e continuando con quelle dei “genitori amici”. Una sostituzione che certo si riverbera sugli adolescenti: rendendoli sì capaci di soprusi e violenze verso i loro coetanei, come il fenomeno del bullismo dimostra, ma anche timorosi del conflitto inteso come aggressività reale».

 Conflitto in casa, conflitto fuori. «Se il confronto con gli altri», nota ancora D’Elia, «trova come principale veicolo l’autorappresentazione (virtuale) di sé, allora viene ad alterarsi quella tensione, fondamentale nell’adolescenza, tra vedere sé stessi (e capirsi) ed essere visti (capiti) dagli altri». La dinamica di scontro con i genitori, faticosa quanto decisiva nell’auto-individuazione durante l’adolescenza, trova nella virtualità una cristallizzazione inibitoria. Per non dire di quanto genitori iperconnessi offrano un modello di costante distrazione che neppure stimola un confronto che sia davvero animato, dinamico, se pure nelle sue distruttività, costruttivo.

 Alice Urciolo, con il regista Ludovico Bessegato co-autrice di “Prisma”, fortunata serie televisiva ispirata all’opera di Giovanna Cristina Vivinetto (alla raccolta “Dolore minimo, autobiografia in versi di una transizione sessuale”, Premio Viareggio Opera Prima 2019) ribadisce la stessa inadeguatezza degli adulti di fronte alle tematiche più urgenti per i loro figli. Quello della transizione sessuale è argomento chiave dato il tema di una fedeltà e appartenenza a sé stessi che implicitamente contiene. Una volta di più, tuttavia, tema che va a scontrarsi con le letture deformanti operate dagli adulti, refrattari a considerare l’adolescenza per quel che è. Adulti inadeguati nel decifrare questa età ibrida, in cui ibridi sono anche gli eventuali percorsi per trovare sé stessi e “dirsi” al mondo.

 In “Prisma” il tema della transizione sessuale viene accostato a quello della disabilità fisica (uno dei personaggi protagonisti ha una protesi alla gamba), una dimensione “defettuale” che tanto è piaciuta agli spettatori adolescenti perché offre loro una possibile rivendicazione identitaria in risposta a eccessi di adultizzazione o infantilizzazione della loro età. Considerati o troppo maturi o troppo bambini, ragazze e ragazzi mai, o quasi mai, si sentono considerati e visti per quello che sono. Rivendicare un’identità è sancire un’appartenenza, e di appartenenza gli adolescenti molto sentono la mancanza, dice Andolfi. Appartenenza che vuol dire bagaglio di vedute, valori, etica, risorse interiori spesso tramandate dai nonni meglio che dai genitori (a proposito di nonni, D’Elia indica tra le ragioni di un buon radicamento durante l’adolescenza il grado di rapporto che i genitori a loro volta intrattengono con le loro proprie radici). Appartenenza che lascia partire e andar via, lontano dalla “cuccia” della famiglia; appartenenza che rende cittadini del mondo, sicuri di sé altrove, anche molto distante da casa. Un’appropriazione di sé che è l’opposto della separazione ma anche della dipendenza, perché rende liberi. Mentre tante, troppe volte gli adolescenti restano invece impigliati in dinamiche famigliari interne: “braccio armato” delle famiglie (ancora Andolfi), ovvero paladini di un genitore o l’altro in separazioni violente o caotiche, quasi sempre disfunzionali. Figlie e figli di adulti stressati e infelici.

 Adolescenza, questa sconosciuta. Un’età che ci accompagna, “protratta”. Tanto si parla di “bambino interiore”, ma sarebbe il caso di cominciare a dire qualcosa anche dell’“adolescente interiore”. Guardandolo, dialogando con lui: chissà che facendolo i genitori riescano a trovare misura e andatura un po’ più adulte.

 

ESPRESSO

domenica 25 giugno 2023

NON AVER PAURA

 Non temere, 

hai un nido nelle mani del Signore 



-   p. Ermes Ronchi – 

Commento al Vangelo di domenica 25 Giugno 2023  - 


✝️ Commento al brano del Vangelo di:  Mt 10,26-33

 «Non temete, non abbiate paura, non abbiate timore». Sono le tre leggi del buon educatore: non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura. È la pedagogia umanissima di Gesù: quello che conta è una relazione nuova, in cui non ci sia nulla che possa avere a che fare con la paura (C. Sommariva).

Eppure io ho paura, perché i passeri continuano a cadere a terra, bambini a migliaia sono rapiti, violati, sommersi in mare, sepolti nella sabbia, venduti per un denaro, gettati via in un cassonetto appena spiccato il loro breve volo.«Ma neppure un passero cade senza il volere di Dio». Allora è Lui che spezza il volo ai passeri? No. Il Vangelo non dice questo, letteralmente dice: senza (àneu, nel greco biblico) il Padre: neppure un passero cadrà a terra senza Dio, che sarà lì, che ci va di mezzo, in ogni volo, in ogni croce, in ogni caduta. E allora il dramma non è solo nostro, «il dramma è anche di Dio» .

Che non spezza ali, le guarisce, le rafforza, le allunga, le accarezza: «tu sei nel cuore delle cerve e sotto le ali delle rondini» (Turoldo) e ne sostieni il volo. Noi vorremmo non cadere mai, e planare in voli lunghissimi e sicuri. Ma ci soccorre una buona notizia, un grido da rilanciare dai tetti: «Non abbiate paura: voi valete più di molti passeri Voi avete il nido nelle mani di Dio». Voi valete: che bello questo verbo! Per Dio, io valgo.


Valgo di più di molti passeri, di più di tutti i fiori del campo, di questa e di tutte le primavere che verranno; valgo per lui di più di quanto osavo sperare. Finita la paura di non contare, di dover sempre dimostrare qualcosa. «Non temere» tu vali di più. Per come sei. Così come sei. Al punto che «ti conta tutti i capelli in capo».

LA CURA

Dove tu finisci, co­minciano le mie mani. Tu vali non perché produci o hai successo, ma perché e­sisti, gratuitamente come i passeri, debole e breve come i capelli, al sicuro nelle mie mani.

Non temete, non abbiate paura, non abbiate timore. Per tre volte Gesù si oppone alla paura che mangia la vita. Noi non siamo eroi, noi siamo credenti, e ci opponiamo alla paura non tanto con il coraggio, quanto con la fede. E Gesù oggi inanella per noi bellissime immagini di fiducia: neppure un passero cadrà a terra senza il volere del Padre.

È forse Dio che spezza il volo delle sue creature, che tronca il cammino sulla terra di mia madre o di mio figlio? Il Vangelo non dice questo, dice altro: neppure un uccellino cadrà “senza il Padre”, al di fuori della presenza di Dio. Nessuno cade senza che egli ne sia coinvolto. Al punto che in ogni fratello crocifisso è Cristo a essere ancora inchiodato alla stessa croce.

E allora il dramma non è solo nostro, esso è anche di Dio (Turoldo). Che è presente, partecipa, si china su di me, intreccia la sua speranza con la mia.

Dio non si colloca tra salute e malattia, ma tra disperazione e fiducia. Suo paese e sua carne non sono le cellule del corpo, ma le ombre della paura, dove si annida quella che i salmi chiamano la bestia del canneto.

Allora lo Spirito intreccia il suo respiro con il nostro; e quando un uomo non può respirare perché un altro gli preme il ginocchio sul collo, è lo Spirito, il respiro di Dio, che non riesce a respirare. Dio non spezza ali, le guarisce e le rafforza.

E noi vorremmo non cadere mai, vorremmo voli lunghissimi e sicuri. Ecco allora la buona notizia: non abbiate paura, voi valete più! Il vostro nido è nelle mani di Dio. Per Dio io valgo molto più di quanto osavo sperare.

È finita la paura di non contare per gli altri, di dover sempre dimostrare qualcosa. Non temere, tu vali di più. E poi seguono immagini delicate come carezze, che raccontano quel Dio che fa per me ciò che nessuno ha mai fatto, che nessuno farà mai: ti conta tutti i capelli in capo. Il niente dei capelli: ma chi mai si perde, chi mai passerà la vita a contarmi i capelli?

Sì, è vero i passeri e i capelli contati hanno da attraversare la morte. Ma nulla andrà perduto. Gesù mi assicura che mi sarà restituito fino all’ultimo capello di quel corpo che ha sofferto e testimoniato vita e bellezza, umane e perciò divine.

Questa bella notizia voi gridatela sulle terrazze, al lavoro, nella scuola, negli incontri di ogni giorno. Annunciate che Dio si prende cura di ognuno, che nulla vi è di veramente umano che non trovi eco nel cuore di Dio.

Signore, ho combinato poco nella mia vita, e adesso non riesco più a combinare niente. E lui mi risponde: “tu vali di più, non perché produci, ti affermi o hai successo, ma perché esisti, gratuitamente come i passeri, debole e breve come i capelli, al sicuro nelle mie mani, e io, come dice la canzone: “avrò cura di te, perché sei un essere speciale”.

La sua cura su di te: dove tu finisci, cominciano le sue mani.

 P. Ermes Ronchi



VIVERE PER LA BELLEZZA DELLA FEDE

C@rlo Acutis 

visto dalla millennial Ester

 Nel suo libro “Io e C@rlo”, Marco Pappalardo racconta sotto forma di dialogo l’incontro tra l’adolescente Ester e il beato Carlo Acutis. Un modello da seguire.

 

- di Virginia Drago

 Originale, umile, credente: queste le tre virtù di un giovane milanese “millennial” che sceglie di dedicare la sua breve esistenza all’aiuto di chi è in difficoltà, alla fede vissuta nella sua pienezza senza esibizionismo, alla scoperta delle cose semplici, alle nuove tecnologie e al web (ai suoi tempi ancora i primi sviluppi), alle relazioni in famiglia, con gli amici, con i professori, vere e mai banali. Questa è la storia di Carlo Acutis, raccontata sotto forma di un dialogo e incontro “virtuale” fra lui ed Ester (un’adolescente scout della “generazione Z”), nel libro Io e C@rlo, scritto da Marco Pappalardo (Paoline, 2023). L’autore è professore di lettere nell’Istituto superiore “Majorana-Arcoleo” di Caltagirone, giornalista per diverse testate e direttore dell’Ufficio per la pastorale scolastica dell’arcidiocesi di Catania.

Il libro racconta con un linguaggio semplice e d’impatto, a tratti scherzoso, la storia di Carlo attraverso le ricerche e le scoperte della protagonista, impegnata a risolvere uno dei quesiti più complessi per ogni alunno del XXI secolo: “Che libro leggerò in estate da presentare in classe al rientro delle vacanze?”

Accostarsi alla conoscenza della vita di Carlo Acutis aiuta, in questo nostro tempo scandito spesso dall’egoismo e dall’egocentrismo, della poca cura per il prossimo, della scarsa profondità, a riscoprire tutti i valori di cui fu portatore. L’autore ci invita alla riflessione attraverso diverse domande poste alla fine di alcuni capitoli, per interrogarci e per facilitare il nostro avvicinamento alla personalità di quel ragazzo di soli 15 anni, dichiarato beato dalla Chiesa, che, come racconta la madre Antonia Salzano, “Era animato da un insopprimibile desiderio di portare alla luce la bellezza della fede, di essere propositivo nel bene in tutte le circostanze della vita, di mantenersi sempre originale”. Inoltre, ci racconta, tramite le curiosità di Ester, di un Carlo Acutis “appassionato di video e pc” che “va a messa ogni giorno e fa l’aiuto catechista”, che a “scuola sta con chi viene isolato dagli altri” e “sempre gentile con tutti”; un ragazzo impegnato nel sociale e per il sociale, con una sensibilità spiccata e un altruismo “fuori dal comune”.

Io e C@rlo è un libro che tanto per i più grandi, quanto per i più giovani (preadolescenti e adolescenti), spinge a ripensarsi con il sorriso attraverso il racconto di Ester più vicina alle fragilità, ai dubbi, ai sogni, ai problemi, alle criticità di questo nostro tempo; e Carlo, un esempio da seguire, non irraggiungibile, da “far camminare” per le nostre strade, vite e relazioni.

 

Il Sussidiario



FORMARE ALLA FELICITA'


I giovani e l'economia di WhatsApp. 

 

- di Leonardo Becchetti

Il tema di maggior successo alla prova di maturità in corso è stato quello dell’attesa scelto dal 43,4% dei maturandi. Il tema sottolinea come la rivoluzione digitale ci abbia reso sempre più potenti, veloci nel realizzare i nostri desideri (spesso a distanza di un solo clic) e impazienti nel voler tutto e subito. Un atteggiamento collegato anche all’aumento dell’ira che è tipicamente una reazione che si produce quando un ostacolo improvviso si frappone alla realizzazione dei nostri desideri. L’aumento della potenza si accompagna dunque anche ad un aumento della rabbia nel momento in cui per qualche blackout momentaneo non otteniamo quello che siamo abituati ad avere quasi istantaneamente (provate a fare memoria di cosa succede quanto il computer o il telefonino si “impallano”).

 Il problema dell’avvento dell’era digitale è però legato alla questione della soddisfazione e ricchezza di senso di vita in modo più profondo. Per capirlo dobbiamo fare riferimento ad un economista tanto geniale quanto poco valorizzato come Tibor Scitovsky che scriveva negli anni 70 del Novecento della “Joyless economy” l’economia (la società) senza gioia. Scitovsky avvertiva che esistevano al mondo due fondamentali categorie di beni. La prima è quella dei ben di comfort, in genere beni materiali che servono ad alleviare dolore o a soddisfare piaceri momentanei. I beni di comfort hanno utilità decrescente, producono assuefazione e, in caso di abuso, dipendenze. La seconda è quella dei beni di stimolo che sono in genere esperienze che al contrario dei beni di comfort non sono immediatamente accessibili. Non ci basta guardare in una bella giornata di sole le persone sciare su una montagna innevata per poter godere della stessa esperienza. I beni di stimolo richiedono un faticoso e previo allenamento per poter essere “consumati” e quindi un abito costante e virtuoso d’investimento in quelle capacità che ci abilitano a poterli usare. Si tratta di beni culturali, relazionali, spirituali, di pratica sportiva la cui qualità e varietà aumenta con l’aumentare del nostro allenamento. Attingendo ai risultati della psicologia Scitovsky sottolineava come il canale attraverso il quale i beni di stimolo assicurano soddisfazione e ricchezza di senso di vita è la continua varietà di esperienza che essi garantiscono, con una qualità ed una soddisfazione che crescono all’aumentare del nostro allentamento. Per questo motivo tali beni rendono la nostra vita quotidiana interessante ad assorbente, a differenza di quella dominata dalla noia in caso di abuso di beni di comfort, che hanno tra l’altro la proprietà indesiderata di indebolire la nostra capacità d’investimento proprio nei beni di stimolo.

 Collegandosi al progresso tecnologico, oggetto della traccia di maturità, Scitovsky osservava che il suo sviluppo e quello dei mercati era molto più orientato all’aumento di offerta di beni di comfort che di stimolo. In ottica di massimizzazione di profitto conviene infatti vendere il primo tipo di beni che generano dipendenza e dunque domanda meno sensibile al prezzo assicurando maggiori guadagni. Il fenomeno che Scitovsky notava è enormemente aumentato dopo la rivoluzione digitale che ha notevolmente aumentato le opportunità di fruizione dei beni di comfort disponibili in grandissima abbondanza, prezzi spesso nulli ed immediata disponibilità in rete. Un educatore saggio spiegherebbe ai nostri ragazzi che sono i beni di stimolo a fare la fortuna della nostra vita e che il comfort è moderatamente necessario e godibile nel tempo libero evitando abusi Ma i giovani dei nostri tempi incontrano questi educatori in famiglia, a scuola o nelle istituzioni formative?

 I dati su decine di anni e migliaia di cittadini europei confermano che le considerazioni che abbiamo fatto non solo elucubrazioni o fantasie dei filosofi.

 Le persone che investono più nelle esperienze che assicurano i beni di stimolo (attività di volontariato, istruzione, attività sportiva, pratica religiosa) hanno una vita significativamente più soddisfacente e ricca di senso dei loro simili dopo aver controllato per tutti gli altri fattori che di solito incidono (reddito, salute, età, condizione professionale e stato familiare). E l’effetto si determina soprattutto perché i primi dichiarano in misura significativamente maggiore di imparare cose nuove e di essere interessati, assorbiti ed entusiasti della loro vita. I risultati empirici che confermano le ipotesi di Scitovsky sollecitano politiche pubbliche che potremmo sintetizzare sotto il cappello del concetto di life wide learning (che è leggermente diverso da quello del life long learning). Non solo la formazione deve accompagnarci tutta la vita per renderla bella, varia e aumentare la nostra capacità di apprezzare e godere di esperienze e beni culturali. Ma il concetto di formazione deve essere “ampio” includendo esperienze di vita importanti (volontariato, incontro con spiritualità e pratiche religiose, attività sportiva) che ci consentono di allenarci e formarci per poter fruire della bellezza e delle potenzialità della nostra vita in tutte le sue dimensioni.

 

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