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venerdì 5 maggio 2023

MERITO o FRATERNITA'

In classe esisti
 per davvero 

se vieni pensato


- di Vito Melia

«Scuola significa socializzazione, ascensore sociale, consapevolezza di sé, dignità. Ai giovani dobbiamo garantire il merito che è possibile per ciascuno»; tuttavia «oggi non è il merito che crea le possibilità, ma il punto di partenza». Così il cardinale Matteo Zuppi sulla missione della scuola, “tempio” e tempo del futuro: luogo dove si vive il tempo opportuno del kairos in cui redimere i giovani; e tempo fugace del kronos in cui fabbricare l’avvenire. Coniugare “merito” con “scuola” è socialmente deleterio: “merito” deriva dal latino mereo (acquistare, guadagnare) e dal greco mero (aliquota, stima), parole che afferiscono al cinico mondo dei mercati azionari, monetari, finanziari. Enfatizzare il “merito” significa accrescere individualismo e diseguaglianze non riconoscendo alla scuola il valore affrancante per povertà educative e sociali. Nel 2017 incontrando a Genova il mondo del lavoro, papa Francesco disse: « È un disvalore la tanto osannata “meritocrazia” […]. 

Affascina molto perché usa una parola bella: il “merito” […]. Sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono […]: (ma) un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi». A scuola invece si cresce in simbiosi curando le ferite dei vulnerabili: Carla, Chiara, Ginevra, Gloria, Ivan, Miriam, Samuele, Sophia – valenti alunni italiani – aiutano Taha, fragile allievo di origine magrebina, a studiare e imparare, vivere e convivere nella classe, “ospedale da campo” dove i più forti hanno il dovere di sostenere i più deboli (cfr. Rm 15,1). 

Vocazione della scuola è rendere liberi corpi, menti, cuori; educare “conducendo fuori”, accendendoli, i talenti; istruire “costruendo”, modellandole, le menti; formare “plasmando”, accarezzandoli, i cuori; valorizzare il capitale umano e spirituale di tutti; promuovere ritmi di vita non algoritmi, volti non voti, immaginazione non prestazioni, sogni non nozioni, poesia non burocrazia, inclusione non selezione, cooperazione non competizione; destare nei ragazzi – abitati e animati da curiosità – «l’inquietudine delle domande», il desiderio di conoscere e pensare, di interrogarsi e stupirsi. 

Transizione educativa è dunque convertire il “ mereo ergo sum” (merito dunque sono) in “ cogitor ergo sum” (mi si pensa quindi sono). Perché insegnare è «dare una mano, spronare a proseguire, riempire di perplessità […], essere la rete di sicurezza che accoglie » ( J.K.Stefansson), ascoltare voci e storie, leggere sguardi e vite, accompagnare gli studenti in “social catena” vivendo l’arte e la «mistica dell’incontro» già in aula (dal greco aulòs, flauto) dove “vibrano”, polifoniche e sinfoniche, le note della “melodia” dell’esistenza, i suoni dell’“orchestra” della pace, le voci del “concerto” della vita in un coro con «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32).

 Incontro e prisma di volti, poliedro e sintonia di vite sono la vera scholé, tempo che libera e rende liberi docenti e studenti di donare e donarsi come costruttori e attori del futuro. È il “ministero” e il “magistero” dei docenti, è il sentirsi pensati degli e dagli studenti, che rendono la Scuola “convivialità di differenze”, “laboratorio di speranza”, tempio di fraternità, palestra di Pace, maestra di vita davvero “meritevole” di lode.

www.avvenire.it

 


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