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di Mauro Magatti
Per
rendere l’ambiente digitale amico della libertà e della democrazia bisogna
investire sull’intelligenza umana e mantenere viva la relazione tra intelletto
e spirito.
L’eredità
inaspettata del Covid è una accelerazione tecnologica che ci sospinge sulla
soglia di una nuova fase destinata a cambiare in profondità le nostre vite
personali e collettive.
Da
un lato, l’arrivo di ChatGpt. Sbarcato sul mercato in anticipo di qualche anno
rispetto alle aspettative, questo nuovo strumento di elaborazione avanzata del
linguaggio naturale utilizza in modo potente e versatile algoritmi di
apprendimento automatico (machine learning) in grado non solo di generare
risposte simili a quelle umane all’interno di un discorso, ma anche di
interpretare immagini e sviluppare autonomamente nuove forme di ragionamento.
Un
salto di livello lungo la strada iniziata nella seconda metà del XX secolo, che
attribuisce un ruolo sempre più centrale all’elaborazione algoritmica nei
processi conoscitivi e decisionali alla base della nostra vita quotidiana.
Dall’altro
lato, il metaverso annunciato da Zuckerberg.
Un
cyberspazio immersivo a cui si accede utilizzando visori per la realtà virtuale
o tecnologie per la realtà aumentata.
Anche
se non ha ancora invaso il mercato, sappiamo già che nei prossimi anni il suo
impatto è destinato a rivoluzionare il nostro rapporto con la realtà e la
produzione e la fruizione dell’immaginario.
Anche
in questo caso, un salto di livello nel percorso intrapreso con il cinema e la
televisione.
E
mentre i promotori parlano di una nuova condizione in cui potremo finalmente
liberarci dal vincolo del rapporto col reale, i critici temono la creazione di
dipendenze e forme psicotiche ancora più gravi di quelle che già conosciamo.
Per
capire il futuro che si prospetta occorre osservare questi due sviluppi nella
loro relazione: nel suo insieme, la tecnologia digitale sta interferendo in
maniera sempre più radicale su quello che i greci chiamano nous, cioè sulla
facoltà umana di pensare, facoltà che è individuale e collettiva.
Gli
antichi greci hanno riconosciuto e distinto le due componenti del nous:
intelletto e spirito.
Due
dimensioni che — come hanno riconosciuto Jurgen Habermas e Joseph Ratzinger —
nel corso nella modernità si sono trasformate sconnettendosi l’una dall’altra.
L’intelletto identificandosi sempre più strettamente con la ragione strumentale
prima e calcolatoria poi; e lo spirito evolvendo nella direzione della libera
creatività dell’immaginario soggettivo.
Tale
separazione — che è all’origine delle trasformazioni della cultura occidentale
nella seconda metà del ’900 — diventa ora una divaricazione ancora più
radicale.
Il
punto è che, mentre risultano ulteriormente esplose dalle innovazioni
tecnologiche sopra ricordate, le capacità di calcolo, elaborazione e
circolazione dell’immaginario vengono progressivamente delegate alla macchina,
all’interno di sistemi e apparati tecnici sempre più complessi e
interdipendenti.
In questo modo tali capacità vengono disincarnate (exosomatizzazione) e ordinate alle esigenze dell’organizzazione sociale. Concretamente, dei suoi interessi economici e/o politici.
La
ricomposizione tra intelletto e spirito da parte delle persone e delle libere
associazioni umane (famiglie, imprese, partiti, chiese, movimenti etc.)
continua ovviamente a esprimersi.
Ma diventa più fragile e in definitiva meno autonoma, cioè meno capace di determinare i processi di conoscenza e di decisione. Non si tratta qui di essere pro o contro la tecnologia.
L’uomo
è tecnico fin dall’origine e alle future generazioni toccherà comunque vivere
nel nuovo ambiente che sta prendendo forma.
Si
tratta piuttosto di fare quello che in ogni epoca è stato necessario:
discernere le opportunità dai rischi come due facce della stessa medaglia.
Adottando
tutte le contromisure per rendere possibile un adattamento sensato alla nuova
condizione in cui è destinata a svolgersi la vita sociale.
In
una società votata all’innovazione, la capacità regolamentativa delle
istituzioni politiche tende a essere debole, anche perché sempre in ritardo
(«Stato», d’altronde, è il participio passato del verbo essere).
Come
ha mostrato Shosana Zuboff analizzando il vantaggio di cui Google ha goduto per
almeno un decennio grazie alla sua capacità di muoversi sulla frontiera
tecnologica, al di là di ogni regolamentazione istituzionale.
Nonostante
questa difficoltà, la politica non deve smettere di esercitare il ruolo che le
spetta.
A
partire da un corretto dimensionamento della portata del problema.
Che
è il vero significato che sta dietro l’appello a fermarsi lanciato qualche
giorno fa dal Future Life Institute.
L’unico
precedente a cui ci si può rifare è l’atomica — a cui peraltro lo stesso Sam
Altam, fondatore di OpenAI, ha di recente paragonato (non del tutto
impropriamente) la propria innovazione.
Ma
ci sono molti dubbi che qualcosa del genere possa essere applicato
all’intelligenza artificiale, che ha già mille applicazioni in tutti i campi ed
è diffusa a livello internazionale.
Su
un piano diverso, un ruolo importante lo giocheranno le imprese, la finanza, i
gruppi professionali — specie scienziati e tecnologi — i ricercatori, gli
intellettuali, i media, la scuola e tutte le agenzie formative (a cominciare
dall’università).
Per
rendere l’ambiente digitale amico della libertà e della democrazia c’è infatti
bisogno di investire sull’intelligenza umana. Che significa lavorare per
popolare tutto ciò che, «stando in mezzo» tra ChatGpt e metaverso, è in grado
di mantenere viva e plurale la relazione tra intelletto e spirito, esattamente
ciò rischiamo di perdere.
Sapendo
che, se non lo faremo con la necessaria forza e tempestività, le grandi
opportunità del digitale si trasformeranno in disastrosi fattori di
distruzione.
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