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domenica 30 aprile 2023

APRIRSI AL PROSSIMO

Aprirsi sempre al prossimo, 

mai porte chiuse a chi è straniero 

o diverso

Cinquantamila fedeli alla Messa nella Piazza Kossuth Lajos di Budapest. Presenti delegazioni ecumeniche, autorità civili, rappresentanti della Comunità ebraica. Nell'omelia Francesco esorta ad essere "come Gesù una porta aperta che non viene mai sbattuta in faccia a nessuno e permette a tutti di sperimentare l’amore di Dio". L'invito alla Chiesa e a chi ha responsabilità politiche e sociali: “Essere aperti e inclusivi gli uni verso gli altri aiuterà l’Ungheria a crescere nella pace"

 - di Salvatore Cernuzio - Città del Vaticano

 Porte chiuse mai. Porte aperte, sempre. “Per favore, per favore, apriamo le porte”, soprattutto a “chi è straniero, diverso, migrante, povero”, a chi “non è in regola”, a “chi anela al perdono di Dio”. Perché “essere aperti e inclusivi gli uni verso gli altri” aiuterà l’Ungheria “a crescere nella fraternità, via della pace”. È un messaggio di amore, carità ed accoglienza quello che Francesco lancia in terra magiara e, in generale, a tutta l’Europa nell'omelia della Messa a Budapest.

Ultimo giorno del 41.mo viaggio apostolico, penultimo appuntamento prima della partenza per Roma, il Papa celebra in Piazza Kossuth Lajos, la piazza dedicata all’eroe nazionale, leader della rivoluzione ungherese del 1848. Il sole è alto e sulla folla di 50 mila fedeli, assiepati dalle prime ore del mattino dietro le transenne, si allunga l’ombra dell’edificio neogotico del Parlamento ungherese.

Applausi, canti, bandiere

Papa Francesco arriva in papamobile, accolto da applausi e dallo sventolio di bandiere. “Ti amiamo Santo Padre!”, grida un uomo in italiano. La folla è composta, i canti solenni. Sull’enorme palco bianco allestito di fiori gialli, dove campeggia un crocifisso in legno, si prega in tedesco, ucraino, ungherese, rumeno, croato, slovacco, sloveno. Tra le prime file sono presenti la presidente ungherese Katalin Novak, il premier Viktor Orbán e anche il metropolita ortodosso Hilarion, che il Papa ha incontrato ieri privatamente in Nunziatura. Ci sono poi vescovi e sacerdoti, religiosi e laici, soprattutto donne, alcune vestite in abiti tradizionali. Presenti delegazioni ecumeniche, capi della Comunità ebraica, rappresentanti delle istituzioni civili e del Corpo diplomatico. “È bello questo”, osserva il Papa. “Questa è cattolicità: tutti noi cristiani, chiamati per nome dal buon Pastore, siamo chiamati ad accogliere e diffondere il suo amore, a rendere il suo ovile inclusivo e mai escludente”.

Siamo tutti chiamati a coltivare relazioni di fraternità e di collaborazione, senza dividerci tra noi, senza considerare la nostra comunità come un ambiente riservato, senza farci prendere dalla preoccupazione di difendere ciascuno il proprio spazio, ma aprendoci all’amore vicendevole.

Triste vedere porte chiuse

“Porte aperte, porte aperte”: l’invito del Papa è reiterato lungo tutta l’omelia. “È triste e fa male – dice – vedere le porte chiuse. Le porte chiuse del nostro individualismo in una società che rischia di atrofizzarsi nella solitudine; le porte chiuse della nostra indifferenza nei confronti di chi è nella sofferenza e nella povertà; le porte chiuse verso chi è straniero, diverso, migrante, povero. E perfino le porte chiuse delle nostre comunità ecclesiali: chiuse tra di noi, chiuse verso il mondo, chiuse verso chi “non è in regola”, chiuse verso chi anela al perdono di Dio”.

Per favore: apriamo le porte! Cerchiamo di essere anche noi – con le parole, i gesti, le attività quotidiane – come Gesù: una porta aperta, una porta che non viene mai sbattuta in faccia a nessuno, una porta che permette a tutti di entrare a sperimentare la bellezza dell’amore e del perdono del Signore.

Gesù ci fa entrare e poi uscire

L’esempio è, appunto, Cristo che “come un pastore che va in cerca del suo gregge, è venuto a cercarci mentre eravamo perduti; come un pastore, è venuto a strapparci dalla morte; come un pastore, che conosce una per una le sue pecore e le ama con infinita tenerezza, ci ha fatti entrare nell’ovile del Padre, facendoci diventare suoi figli”. Gesù è “venuto come buon Pastore dell’umanità per chiamarci e riportarci a casa” e “ancora oggi, in ogni situazione della vita, in ciò che portiamo nel cuore, nei nostri smarrimenti, nelle nostre paure, nel senso di sconfitta che a volte ci assale, nella prigione della tristezza che rischia di ingabbiarci, Egli ci chiama”. Ci chiama “per nome”. Ma Gesù è anche “la porta che ci fa uscire verso il mondo”. Il suo è un movimento di entrata e di uscita.

Egli ci spinge ad andare incontro ai fratelli. E ricordiamolo bene: tutti, nessuno escluso, siamo chiamati a questo, a uscire dalle nostre comodità e ad avere il coraggio di raggiungere ogni periferia che ha bisogno della luce del Vangelo.

 Il Papa si rivolge in particolare a vescovi e sacerdoti: “A noi pastori”, sottolinea. Il pastore “non è un brigante o un ladro; non approfitta, cioè, del suo ruolo, non opprime il gregge che gli è affidato, non ‘ruba’ lo spazio ai fratelli laici, non esercita un’autorità rigida”.

Incoraggiamoci ad essere porte sempre più aperte: ‘facilitatori” della grazia di Dio, esperti di vicinanza, disposti a offrire la vita…

Un uguale invito è rivolto a laici, catechisti, operatori pastorali, ma anche “a chi ha responsabilità politiche e sociali”, come pure a coloro che “semplicemente portano avanti la loro vita quotidiana”, talvolta con fatica: “Siate porte aperte”.

Mai scoraggiarsi

“Non scoraggiamoci mai – è l’augurio conclusivo del Vescovo di Roma - non lasciamoci mai rubare la gioia e la pace che Lui ci ha donato, non chiudiamoci nei problemi o nell’apatia. Lasciamoci accompagnare dal nostro Pastore: con Lui la nostra vita, le nostre famiglie, le nostre comunità cristiane e l’Ungheria tutta risplendano di vita nuova!”

Vatican News

 

 

 

 

sabato 29 aprile 2023

IL PASTORE E IL SUO GREGGE


 - VANGELO - Gv 10,1-10 -

* PECORE, 

PASTORI, 

GUARDIANI, 

CANI *

 

- Commento di p. Paolo Curtaz *

 È risorto, il Signore.

Inutile cercarlo fra i morti, inutile imbalsamarlo, inutile seppellire Dio. È risorto, anche in un mondo dilaniato da divisioni e violenza, in una rissa continua, in un odio dilagante, travolgente, inarrestabile, in un Occidente che denigra la pretesa cristiana e la possibilità stessa dell’esistenza di un Dio ragionevole e senziente, amorevole e liberante,

È una lunga festa di pietre rotolate, la Pasqua, un evento di massi ribaltati, di definitività rimesse in discussione, di canti funebri interrotti. Una luce che irrompe potente nelle nostre tenebre, una Parola che ci scuote mentre, tristi, ci lamentiamo dell’assenza di Dio, come i discepoli di Emmaus.

Ma, lo viviamo sulla nostra pelle, ci vuole del tempo per convertirsi alla gioia. E percorsi interiori, strade dell’anime tracciate dallo Spirito per potersi finalmente arrendere all’evidenza.

È qui, il risorto. Raggiunge Tommaso. E i discepoli di Emmaus. E noi. Egli vuole che nessuno vada perduto. Cerca ad una ad una le pecore smarrite.

Smarrite per il troppo soffrire. Per gli scandali suscitati da uomini di Chiesa. Per la nostra stupida inclinazione all’autocommiserazione. Per la paura di morire.

Viene, conosce per nome ciascuno di noi.

E non è come il pastore compassionevole di Luca, che si sfinisce finché non ha ritrovato la pecora perduta. È muscoloso e determinato, il pastore di Giovanni.

Pronto a fare a pugni pur di difendere le sue pecore. Pronto a dare la sua vita.

Entra dalla porta

Entra dalla porta della nostra anima il pastore. Sa come entrare, abita la nostra interiorità, la sua forza è nell’amore verso Dio e gli uomini e la conoscenza che ha delle cose di Dio.

Altri si mascherano, ingannano, sono dei mercenari. Ma solo a lui, al pastore, stiamo a cuore.

Quanto è vero! Ancora oggi molti si occupano di noi solo per interesse. Per vendere soluzioni al nostro disagio, per proporci soluzioni improbabili, per manipolarci e ottenere consenso. Per impaurirci e controllarci.

A chi sto davvero a cuore? A chi sta a cuore la mia felicità, sul serio, in maniera disinteressata, solo per amore? I mercenari fingono di occuparsi di noi ma, in realtà, si occupano solo del loro interesse.

Intendiamoci: nessuno può agire al posto nostro, nessuno può occuparsi di noi meglio di noi stessi. Siamo noi i capitani della barca su cui viviamo. Siamo noi i costruttori del nostro destino.

Ma altro è farlo seguendo un Maestro: il Signore.  Altro improvvisandosi per ciò che non si è.

Gesù Risorto che proclamiamo Figlio di Dio, rivelatore del Padre, è l’unico che sa dove condurci, l’unico che ci conosce più di quanto noi stessi ci conosciamo.

 

Ci spinge fuori

È la voce che ci permette di riconoscere il pastore. È la Parola che vibra possente e vera in noi che ci permette di distinguere il vero pastore dai mercenari. Quella Parola che ci scuote, ci scruta, ci incendia, ci scompone, ci innalza, ci rianima, ci svela, ci riempie. Quella Parola che meditiamo, amiamo, celebriamo.

Se la frequentiamo, se la amiamo, non possiamo sbagliare: è quella la Parola, l’unica, che ci aiuta a riconoscere il vero Pastore.

Ci chiama per nome, per rassicurarci. Poi ci caccia, ci spinge fuori. Fuori dall’ovile, fuori dalle certezze, fuori dalle piccole isole in cui ci siamo nascosti.

Fuori dalle sacrestie, fuori dalla curia, fuori dal nostro piccolo mondo auto-referenziale.

Ma anche fuori dalle nostre certezze incrollabili, dai nostri cammini spirituali definiti e statici, inossidabili e puri. Fuori dalle visioni piccine. Fuori.

Fuori dalle nostre comunità per ricordarci che la Chiesa del cuore di Dio abita prima nelle case. Fuori dai nostri programmi pastorali per ricordarci l’essenziale. Fuori dalle nostre piccole certezze di fede messe a dura prova dalla paura di morire. Fuori, in cammino, si riparte.

La porta delle pecore

Al tempo di Gesù le pecore venivano radunate durante la notte e chiuse in un basso recinto fatto di pietre accatastate. A volte, ad aumentare un po’ la sicurezza, di aggiungeva una fila di rovi spinosi, in modo da impedire ai ladri e ai lupi di accedere e di fare scempio del gregge. Il recinto, normalmente, sorgeva nei pressi del villaggio e radunava le pecore di numerosi proprietari. A turno, poi, questi si alternavano per la veglia della notte, facevano la guardia: si ponevano nell’unica apertura del recinto di pietre e, seduti, si appoggiavano con la schiena ad uno stupite e con le gambe rannicchiate chiudevano il passaggio: diventavano loro stessi la “porta” del recinto. Impedivano così ai malintenzionati di avvicinarsi. Sul fare del mattino, quando arrivavano i singoli proprietari, i pastori, bastava la loro voce per svegliare le proprie pecore che, a questo punto, venivano lasciate passare per andare a pascolare.

Gesù è quel pastore che passa la notte a vegliare, accovacciato all’apertura del recinto di pietre, diventando egli stesso la porta che lascia passare solo chi ha a che fare con le pecore e tiene lontano i nemici, i briganti, i ladri. Fino a quando è lui a vegliare, fino a quando è lui il custode della porta del nostro cuore no, non abbiamo nulla da temere.

Pastori e guardiani

È lui il Pastore. L’unico buono, l’unico bello, come abbiamo cantato nel Salmo. Oggi chiediamo al Signore dei guardiani e dei cani che ci aiutino a seguire il Pastore. Anime belle, anime vere, anime donate.

Il risorto cerca guardiani e cani. Anime innamorate che lo aiutino a condurre, lasciandosi condurre. Così siate, fratelli preti, così diventate, fratelli vescovi. Guardiani e cani che saltano festanti intorno all’unico Pastore. Guardiani e cani che odorano di pecora. Guardiani e cani che si inventano l’impossibile, in questi tempi, per esserci.

Che poi siate fragili, incoerenti, a volte burberi, poco importa. Siate, però, innamorati.

Per farci innamorare.

 

* Cercoiltuovolto

LA VERITA' DEI CROCHI

 La verità è nella lingua di bosco che si protende sulla distesa di neve fin dove l’altitudine decide che le radici devono fermarsi, la verità è la neve che filtra nello specchio puro di un lago che trema al vento tra le pendici… perché la verità è la relazione indistruttibile e feconda tra le cose, il bene-bello che tutte le abita e collega, e che solo noi umani siamo capaci di vedere e custodire, ma anche di ignorare e ostacolare

- di Alessandro D’Avenia*

 

Il giorno di pasquetta mi chiedevo se la resurrezione celebrata il giorno prima riguardasse anche me, deluso da un bel maglione ricevuto a Natale che mostrava già i primi pallini. Tutte le cose umane, prima o poi, vanno “a pallini”. Eppure, anche se nulla riesce a soddisfarci, continuiamo a cercare, ascoltando l’infinito richiamo che ci mette in moto: il desiderio. Il proprio del desiderio è infatti non aver nulla di proprio, perché vuole l’infinito e mai sarà colmato da un qualche finito o dalla somma di tantissimi finiti: l’infinito vuole l’infinito. Il desiderio, mancanza che rende inquieti, è però ciò che rende inesauribile ogni aspetto della realtà, ma purtroppo una cultura che ripete “la vita fa schifo, non ci pensare, divertititi e consuma” (a immagini del creato in rovina segue la pubblicità di un prodotto superfluo, a quelle di povertà seguono piatti stellati a costi stellari) anestetizza il desiderio e quindi la gioia. Il calo del desiderio erotico nella nostra società ne è un esempio: se l’altro esiste come oggetto finito di consumo e non soggetto d’amore infinito, il cuore si pietrifica. Il prezzo dell’erosione del desiderio è altissimo, perché solo la sua insopprimibile pretesa di infinito rende la vita una gioia, spingendoci a: scoprire e creare il nuovo, uscire da sé per amare, mettersi in relazione con gli altri e il mondo. Tutto il contrario dell’illusione egocentrica che “finisce” tutto e tutti, e poi “sfinisce” noi. Come si fa allora a risorgere anche con il corpo, come si narra di Cristo?

Risvegliando il desiderio attraverso la bellezza. Desiderio e bellezza appartengono allo stesso ordine di realtà, che precede ragionamenti e quindi possibili inganni. La bellezza è semplice: immerge il corpo in un mondo nuovo, a cui sentiamo di voler appartenere e collaborare.

E così quel lunedì di Pasqua, camminando nel bosco, sono arrivato in una valle incastonata tra i monti a circa duemila metri, mi sono coricato su un prato lasciato da poco dalla neve che, rimasta solo negli anfratti e sulle cime, aveva forgiato attorno a noi una corona di ghiaccio. I crochi, fiori delle altitudini, aprivano infinite iridi bianche e viola nell’erba muta e ingrigita dal peso dei mesi invernali: corolle più modeste di quelle delle stesse fioriture in maggio e giugno, ma non meno belle in quanto sentinelle intrepide al primo risveglio. Gli alberi del bosco, pini, abeti, larici, erano immersi in un silenzio diverso da quello invernale, un silenzio simile alla sospensione che precede le prime battute di un concerto, un silenzio pieno di attesa e fermento. La neve superstite era rimasta aggrappata ai tratti in ombra del sentiero in lastre di ghiaccio che, al viandante distratto, paiono innocui specchi d’acqua.

Questa bellezza, propensione delle cose tra loro e dialogo delle cose con noi, traccia la frontiera su un mondo fatto solo di verità e in cui, infatti, gli uomini immergono i loro corpi, camminando, tenendosi per mano e dialogando tra loro nella pausa festiva, spezzando così l’incantesimo mentale che a questa bellezza gratuita crede meno che alla bruttezza a pagamento. Alla verità preferiamo la virilità, eppure la prima è un dono, la seconda sottomissione. La verità è semplice come il vento che si contendeva il mio viso con il sole: un equilibrio di forze che, su quel prato, mi ha donato un sonno breve ma perfetto, capace di ripulire la mia mente dalla tristezza e dalla rabbia di un corpo non risorto. Quella bellezza, a cui il mio corpo si disponeva invece come l’astuccio più adatto, mi ha ricordato che la verità non è mai dove il corpo viene torturato o manipolato, la verità è solo dove il corpo risorge, dove la vita lo chiama alla vita, gratis.

La verità è nella lingua di bosco che si protende sulla distesa di neve fin dove l’altitudine decide che le radici devono fermarsi, la verità è la neve che filtra nello specchio puro di un lago che trema al vento tra le pendici… perché la verità è la relazione indistruttibile e feconda tra le cose, il bene-bello che tutte le abita e collega, e che solo noi umani siamo capaci di vedere e custodire, ma anche di ignorare e ostacolare, creando contro-verità affette dalla stessa deficienza: non uniscono le cose e le persone, le sottomettono, in qualsiasi modo si dia il loro potere (fisico, politico, ideologico, economico…). La vita si mostra con i legami, la morte con le catene.

Quei crochi sono la verità, non doping emotivo contro la durezza del vivere, ma dimostrazione che una vita custodita, compiuta, collegata è possibile. E infatti al richiamo dei crochi risponde in noi il desiderio di un mondo da fare al pari di quello che in loro è già ri-sorto, cioè sorto (di) nuovo. Come la luce chiede alle piante la fotosintesi per esser trasformata in ossigeno, anche la bellezza chiede al nostro desiderio di esser trasformata in azione. La bellezza rende con-tenti (tenuti insieme) e incoraggia a pro-creare, come segnalano, lungo il cammino, le opere di ignoti a cui siamo grati per il loro lavoro anche se non sappiamo chi sono: i fienili ben incastonati nel paesaggio, i crocifissi intagliati e piantati come alberi tra gli alberi, le raccolte d’acqua fresca scavate nei tronchi, la chiesetta rustica in cui tutti, anche non credenti, entrano in cerca di ciò che altri devono aver ricevuto per decidere di fare una casa più bella, lì, nel nulla.

Questa bellezza avviene nel corpo che, in relazione viva con le cose e le persone, si scopre destinatario di doni che non deve accaparrarsi perché sono già suoi, diventa corpo del mondo e corpo sociale, al contrario del corpo che si sente vuoto perché privo di cose che in realtà non gli servono e alle quali, nel tentativo di possederle, si sottomette. Il corpo è desiderio incarnato a cui le cose chiedono di affidarsi, con-tenute e non de-tenute, libere non prigioniere, per ri-crearsi nuove, come quei crochi che, finché fioriranno, non smetteranno di dire la verità: se noi, brevi vite eterne, siamo ri-sorti, tu che aspetti?

Ho aperto gli occhi, ero di nuovo vivo.

 *Profpuntozero


LA PACE. UN MIRAGGIO?

 

- di Giuseppe Savagnone*

 

La lettura dominante della guerra in Ucraina

L’attesa telefonata del presidente cinese Xi Jinping al suo omologo ucraino Zelensky ha riportato in primo piano il problema irrisolto delle prospettive di pace nella guerra che da più di un anno infuria nel cuore dell’Europa. Una guerra, che, malgrado il passare del tempo, non si è avvicinata di un passo a una sua ragionevole soluzione, anzi sembra essersene allontanata sempre di più. Cerchiamo di capire perché.

Secondo la lettura largamente dominante – in Italia, come del resto in tutti i paesi membri della Nato – la causa di tutto è la gratuita aggressione della Russia, che rientra, peraltro, in un più ampio disegno imperialistico del dittatore russo Putin, volto alla ricostituzione dei confini dell’ex Unione Sovietica. Di questo piano era stato già un primo tassello il colpo di mano con cui Mosca si era impadronita, nel 2014, della Crimea. Già allora era stato un errore, da parte della comunità internazionale, non reagire a questa occupazione illegale. Cedere ora anche sull’invasione del Donbass significherebbe ripetere l’errore fatto dalle democrazie occidentali nel 1938, nella conferenza di Monaco, di fronte all’escalation di Hitler.

A rafforzare questa rappresentazione sono stati anche i gravissimi crimini contro l’umanità perpetrati dagli invasori: torture e massacri (Bucha e varie fosse comuni), deportazione di più di mille bambini ucraini in Russia, attacchi indiscriminati a bersagli non militari). Da qui la necessità di isolare la Russia sia con una serie di sanzioni economiche, sia sospendendola da tutti gli organismi internazionali, come il Consiglio dei diritti umani dell’Onu, sia escludendo i suoi atleti da ogni competizione sportiva e perfino sospendendo la programmazione nei teatri di opere di autori russi. L’ultimo atto coerente ed inevitabile di questa linea è stato il mandato di arresto spiccato dalla Corte Penale Internazionale dell’Aia nei confronti di Putin.

In questa logica l’unica pace possibile è quella che può essere raggiunta sconfiggendo l’esercito russo. Perciò l’inesauribile attività diplomatica di Zelensky si è concentrata esclusivamente sulla richiesta di armi sempre più sofisticate per colpire gli invasori. Al posto della parola “pace” nei suoi discorsi è stato sempre in primo piano quella “vittoria”. La prima meta può essere infatti solo il frutto del raggiungimento della seconda.

L’interpretazione minoritaria

La tesi minoritaria, sostenuta tra gli altri dallo storico Franco Cardini, vede le cose in modo opposto. Ad essere aggredita, malgrado le apparenze, è stata proprio la Russia, costretta alla guerra sia per l’accerchiamento realizzato in questi anni – violando esplicite promesse degli Stati Uniti – con l’estensione a macchia d’olio della NATO, sia per le continue aggressioni nei confronti delle popolazioni di etnia russa del Donbass da parte del battaglione Azov e delle altre frange filo-naziste dell’esercito ucraino.

 A tutela di queste popolazioni erano stati siglati, nel 2014, gli accordi di Minsk, che prevedevano, oltre al cessate il fuoco tra separatisti ed unionisti, una modifica costituzionale dell’Ucraina che garantisse l’autodeterminazione amministrativa e linguistica delle regioni di etnia russa di Donetsk e Lugansk, ma il governo ucraino li ha sistematicamente violati, non effettuando la promessa revisione costituzionale e anzi proibendo la lingua russa. E in questo quadro si situa, sempre nel 2014, la pretesa occupazione della Crimea da parte di Putin, che è stata in realtà un atto di autodeterminazione del popolo di questa regione, in prevalenza di etnia russa.

La politica intollerante e nazionalista del governo ucraino si è svolta, peraltro, con l’appoggio dell’Occidente e soprattutto degli Stati Uniti, i quali negli ultimi anni hanno armato e addestrato l’esercito ucraino in vista del prevedibile scontro con la Russia. Una prossimità che ha portato l’Ucraina a chiedere di entrare anch’essa nella NATO, anche se provvisoriamente la richiesta era stata respinta.

Davanti a questo quadro Putin è stato costretto a scegliere tra una umiliante acquiescenza – rischiando anche di essere delegittimato agli occhi dei suoi sostenitori – e fare un atto di forza.

Da qui lo scoppio di questa che si configura in realtà come una guerra per procura “fino all’ultimo ucraino” contro la Russia, allo scopo di bloccare il suo avvicinamento all’Europa, temutissimo dagli Stati Uniti, spezzando i legami economici sempre più stretti che li univano, di isolarla internazionalmente e di indebolirla militarmente ed economicamente.

La pace richiede perciò l’interruzione della fornitura di armi all’esercito ucraino, un’immediata sospensione delle ostilità e l’accettazione, da parte di Zelensky, delle giuste richieste russe sulla Crimea e il Donbass, nonché l’impegno dell’Ucraina a non entrare nella NATO e a diventare uno Stato neutrale.

L’insostenibilità della versione minoritaria

Entrambe queste versioni contengono un’anima di verità, ma sono nel loro complesso false. Vediamo perché, cominciando dalla versione minoritaria. Dipingere Putin come la vittima di una trappola è contrario all’evidente intenzione del dittatore di perseguire una politica di potenza che porti alla ricostituzione dell’impero sovietico da poco dissolto. 

Significativa la sua dichiarazione all’indomani dell’invasione: «Non rinuncerò mai alla convinzione che i russi e gli ucraini sono un solo popolo». Da qui anche il rifiuto di chiamare “guerra” quella in corso – una guerra si fa fra due popoli – e il ricorso all’espressione “operazione speciale”.

Ma è proprio così? La strenua resistenza del popolo ucraino lo smentisce. Peraltro, Putin nasconde il fatto che, fra il 1929 e il 1932, la popolazione ucraina fu da Stalin sottomessa a una politica di collettivizzazione forzata della terra, che provocò la morte per fame di quasi tre milioni di persone, il cosidetto Holodomor, da holod (fame, carestia) e moryty, (uccidere affamare). La violenza distruttiva con cui i russi stanno conducendo questa guerra rievoca quella tragedia. E il mondo non poteva assistere passivamente a questo scenario.

A questo punto il pacifismo che risulta dalla posizione di chi misconosce tutto questo è molto diverso dalla vera esigenza di pace. Agostino ha definito la pace «tranquillità dell’ordine». Dove “ordine” implica innanzi tutto libertà e giustizia. Senza di esse, lo si ridurrebbe a quello espresso nella famosa frase dal ministro francese Sebastiani, nel 1831, dopo la spietata repressione russa della rivolta polacca: «L’ordine regna a Varsavia».

I limiti della tesi maggioritaria

Ma anche la forza della tesi data da molti per scontata sta nell’avere isolato con un fascio di luce i fatti del presente, lasciando nell’ombra la storia in cui si inquadrano e che è decisiva per capirli. In principio c’è la crisi dell’Unione Sovietica, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, col crollo emblematico del muro di Berlino. Nel summit di Malta del 2-3 dicembre 1989 George Bush Sr assicurò a Michail Gorbaciov che, in cambio di un pacifico ritiro della Russia, la coalizione non avrebbe esteso la sua presenza «neppure di un centimetro a est dei confini della Germania riunificata».

Si trattava di un accordo meramente verbale. Ma la sua esistenza è confermata dalla testimonianza dell’allora ambasciatore statunitense a Mosca, Jack Foust Matlock,  in un’intervista rilasciata al «Corriere della Sera»  del 15 luglio 2007:  «Quando ebbe luogo la riunificazione tedesca noi promettemmo al leader sovietico Gorbačëv – io ero presente – che se la nuova Germania fosse entrata nella Nato non avremmo allargato l’Alleanza agli ex Stati satelliti dell’URSS nell’Europa dell’Est. Non mantenemmo la parola».

Così, nel 1999 Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca divennero a tutti gli effetti membri della Nato. Nel 2004 fu la volta di quattro Paesi ex membri del Patto di Varsavia: Romania, Bulgaria, Slovacchia e Slovenia, nonché di tre ex repubbliche sovietiche, Lettonia, Estonia e Lituania. Nel 2009 aderirono Croazia e Albania. Nel 2017 aderì il Montenegro. Nel 2020 la Macedonia del Nord.

Basta guardare la carta dell’Europa orientale per rendersi conto che quello che si è verificato è un accerchiamento della Russia da parte dell’America e dei suoi alleati.

Questo quadro non poteva non allarmare il Cremlino e sollevare da parte sua  forti resistenze davanti alla prospettiva dell’ingresso nella Nato di un’altra ex repubblica sovietica, appunto l’Ucraina. Nel dicembre 2021 Putin inoltrò ufficialmente al governo statunitense una proposta di accordo sulla situazione ucraina. Senza risposta.

Anzi, a proposito dell’accordo di Malta del 1989, il Segretario generale della NATO Jens Stoltenberg replicò seccamente, circa un mese prima dell’invasione russa, che «nessuno mai, in nessuna data e in nessun luogo, aveva fatto tali promesse all’Unione Sovietica». E all’assicurazione del cancelliere tedesco che l’ingresso dell’Ucraina nella NATO non era all’ordine del giorno non ha mai fatto riscontro un’analoga garanzia – l’unica veramente decisiva – da parte degli Stati Uniti.

 Mentre nel caso dei missili russi a Cuba, nel 1962, la Russia di Krusciov aveva compreso la necessità di fare un passo indietro, l’America di Biden non ha fatto nulla per rassicurare il Cremlino. E dà l’impressione ora di stare combattendo davvero una costosa “guerra per procura” (si parla di 73 miliardi, tra forniture militari e sostegni economici, a fronte dell’unico miliardo a favore dei paesi del terzo mondo…). Per la felicità dei mercanti di armi. Del resto fino a pochi giorni fa sempre Stoltenberg ha ribadito che il posto dell’Ucraina è nella Nato. Esattamente ciò che serve a perpetuare sine die la guerra.

Invece della pace, un nuovo “ordine” basato sulla divisione

Sia i ministri degli esteri di Russia e Cina, sia il presidente degli Stati Uniti hanno parlato del delinearsi di «un nuovo ordine mondiale». Ma non è quello della pace. Ciò che sembra destinato a caratterizzarlo è la fine del dialogo tra le maggiori potenze che, pur con mille difficoltà e incomprensioni, aveva segnato la fine della “guerra fredda”.

Ora, invece, il mondo sembra destinato ad essere teatro della radicale contrapposizione tra due blocchi di potenze – Cina e Russia da un lato, la NATO dall’altro – in aspra lotta tra loro sul piano politico e, potenzialmente, su quello militare.

Il «nuovo ordine mondiale», rischia, così, di essere quello dell’odio e della paura. E del resto sembra che a questa prospettiva ci si prepari anche in un’Europa, di cui questa guerra ha rivelato – ma anche sancito – l’incapacità di essere una realtà politica, e ai cui singoli membri resta solo di riprendere una frenetica corsa agli armamenti sotto l’insegna della NATO.

Di fronte a questi scenari inquietanti ritornano alle mente le parole di papa Francesco: «Una guerra sempre, sempre, è la sconfitta dell’umanità». Questa sicuramente lo è.

 

* Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, www.tuttavia.eu .

  Scrittore ed Editorialista



venerdì 28 aprile 2023

PENSARE E SCRIVERE PER ESSERE PIU' LIBERI

 Con l’arrivo di ChatGPT temi e riassunti sono oggi ancor più fondamentali di ieri per spingere gli studenti ad imparare a pensare ed essere più liberi

 

di Giorgio Ragazzini

 

Come ha detto il filosofo Luigi Lombardi Vallauri, “nessuno sa veramente quello che pensa fino a quando non l’ha scritto su un pezzo di carta”. Scrivere è infatti di grande aiuto per rendere un pensiero più preciso, più ricco, più profondo. Come c’è un momento in cui un pittore, un fiorista, un arredatore possono dire “Ecco, ora è perfetto”, così chi scrive può a un certo punto concludere “Questo è quello che penso”, dopo avere scritto e riscritto una frase, consultato un dizionario dei sinonimi, cancellato qualcosa, aggiunto qualcos’altro.

 A scuola i due principali tipi di testo per esercitarsi nello scrivere sono, com’è noto, il riassunto e il tema, che allenano differenti abilità cognitive, tutte importanti. Detto en passant, il tema fu oggetto di un vero e proprio anatema negli anni post-68, raccogliendo peraltro, alla luce dell’analisi di classe, l’eredità di illustri detrattori del passato. Qui basta ricordare che “tema” è sinonimo di “argomento”. L’insegnante chiede agli allievi di trattarlo attraverso un titolo che può essere breve, meglio se stimolante, oppure più lungo e strutturato in modo da servire come guida per lo svolgimento. Di fatto è un genere comprensivo di molti generi testuali, tra i quali uno dei più utili alla crescita intellettuale e morale, soprattutto nel primo ciclo, è il tema di esperienza e di riflessione personale.

 Tutti pregi che molti evidentemente ignorano nel momento in cui sottovalutano il pericolo micidiale costituito dalle piattaforme come ChatGPT (Chat Generative Pre-trained Transformer, ovvero Trasformatore pre-istruito in grado di generare conversazioni), capace di scrivere testi su moltissimi argomenti. Che si sia già a un buon livello di perfezionamento, lo dimostra il fatto che Il Foglio ha potuto sfidare i lettori a individuare ogni giorno l’articolo scritto tramite l’Intelligenza Artificiale (a proposito: i giornalisti non sono preoccupati?).

 C’è chi rassicura e sostiene che è un’occasione per migliorare l’insegnamento. Una docente inglese, per esempio, dice che gli studenti, invece di scrivere testi, potranno lavorare su quelli “artificiali” per individuarne manchevolezze e fare modifiche. C’è poi chi incappa nel benaltrismo, sostenendo che l’importante è sviluppare una piena umanità negli allievi, la loro curiosità, la capacità di fare domande. Tutte “soluzioni” che presuppongono in sostanza l’abbandono di una scrittura che non sia strettamente funzionale.

Del resto, di fronte alle nuove tecnologie, da decenni scatta in molti, come un riflesso condizionato, la raccomandazione di non “demonizzarle”, ma di imparare a utilizzarle per il meglio. Purtroppo l’esperienza ci dice che queste aperture di credito richiedono non solo l’indicazione di limiti chiari e di non troppo complessa applicazione, ma anche perseveranza e fermezza da parte degli educatori; altrimenti si apre un’autostrada per la moltiplicazione degli effetti indesiderati. Così è stato per il cellulare: abbiamo creato legioni di ragazzi dipendenti dagli smartphone, spesso affetti da seri disturbi di vario genere; e la possibilità di copiare utilizzando internet durante le verifiche e gli esami è aumentata in modo esponenziale.

Perciò dobbiamo prendere sul serio i pericoli che incombono sull’apprendimento dell’italiano scritto, in particolare quello di non poter più far esercitare i ragazzi con riassunti, temi, relazioni da fare a casa. Finora l’insegnante accorto ha potuto subodorare la copiatura perché sa come scrivono i suoi allievi e può controllare su internet se ha barato. Oggi ci dicono che con ChatGPT questo non si può fare (ma almeno la richiesta di creare la possibilità di conservare in rete per qualche tempo i testi prodotti andrebbe fatta). In ogni caso, questa volta vale la pena di passare per “demonizzatori”, visto che si rischia di danneggiare gravemente le nuove generazioni.

 Il Sussidiario

IL BONUM HONESTUM IN MARITAIN

 A 50 anni dalla morte, il pensiero del filosofo francese 

interpella l’attualità. 

Nel mettere al centro la persona superando le diversità e nel promuovere un ordine mondiale giusto


- di FRANCESCO MIANO


La straordinaria attualità del pensiero di Jacques Maritain, a cinquant’anni dalla sua morte, può essere racchiusa in una domanda proposta dal filosofo in un intervento a Tolosa alla Comunità dei Piccoli Fratelli di Gesù dove si era ritirato, dopo la morte della moglie Raïssa, a partire dal 1960. Si chiede Maritain: «Che cosa vogliono gli uomini prima di tutto? Di che cosa hanno bisogno prima di tutto?», un interrogativo che oggi ancor più che allora scuote le nostre coscienze. «Hanno bisogno – così continua – di essere amati, di essere riconosciuti; di venire trattati come essere umani; di sentire rispettati tutti i valori che ognuno porta in sé» ( La vocazione dei Piccoli fratelli di Gesù, La Locusta, 1982). Anche nell’ultimo periodo della sua esistenza, Maritain continua dunque a riproporre la persona (ogni persona, la persona nella concretezza della sua vita) come il fulcro essenziale della società sia in senso civile che politico dentro una più ampia visione dell’umano riconsiderato in tutti i suoi aspetti. È l’idea dell’integralità dell’umano, la visione di un umanesimo integrale, nata al confluire tra ricerca di fede ed esercizio della ragione e capace di ispirare e sostenere ogni reale impegno politico per la trasformazione della realtà.

 Oggi, a cinquant’anni dalla morte, quella proposta continua a provocare a ispirare dentro le forme nuove che il tempo storico richiede. Nella fedeltà al pensiero maritainiano, umanesimo integrale può oggi significare, in particolare, capacità di realizzare concretamente quella fellowship ( compagnonnage) di cui ci parla attraverso l’immagine dei «compagni di viaggio che per un incontro fortuito si trovano riuniti quaggiù, camminando sulle strade della terra […] in buon accordo umano, con buon umore e con cordiale solidarietà» ( Per una politica più umana, Morcelliana, 1979). Un umanesimo integrale che oggi sollecita ciascuno di noi nell’impegno a rendere praticabile anche l’umanesimo intraculturale, dove le diversità (culturali, sociali, religiose, economiche, civili) sono prezioso arricchimento più che motivo di paura del “non ancora conosciuto”.

 Maritain ci insegna a prenderci cura concretamente della persona, cioè delle persone con i loro bisogni e necessità. Una cura che necessita del fare concreto di ogni giorno per diventare buona pratica per il bonum honestum.

Ma, nello stesso tempo, Maritain ci spinge ad operare e lottare per il rispetto dei diritti della persona, dei diritti di ogni uomo così come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (alla cui stesura collaborò) ci ricorda e così come leggiamo in I diritti dell’uomo e la legge naturale pubblicato a New York già nel 1942.

 Riferendosi alla persona umana, il filosofo scriveva così: « I diritti fondamentali, come il diritto all’esistenza e alla vita, il diritto alla libertà personale o il diritto di condurre la propria vita come padroni di se stessi e dei propri atti, responsabili di questi davanti a Dio e davanti alla legge della civitas, ‒ il diritto a perseguire la perfezione della vita umana morale e razionale, il diritto a perseguire il bene eterno […], il diritto all’integrità corporale, il diritto alla proprietà privata dei beni materiali, che è una salvaguardia della libertà della persona, il diritto di sposare secondo propria scelta e di fondare una famiglia essa pure garantita dalle libertà che le sono proprie, il diritto di associazione, il rispetto in ciascuno della dignità umana (ch’egli rappresenti o no un valore economico per la società) tutti questi diritti sono radicati nella vocazione della persona, agente spirituale e libero, all’ordine dei valori assoluti e con un destino superiore al tempo». Si tratta di richiami decisivi, da considerarsi in prospettiva universale e per questo ancora più importanti ben sapendo Maritain le innumerevoli violazioni dei diritti che si consumano nel mondo intero. Ecco perché appaiono decisivi anche altri richiami maritainiani. Tra i diritti della persona relativamente all’ordine internazionale «i più importanti sono il diritto di ogni Stato, grande o piccolo, alla libertà e al rispetto della sua autonomia, il diritto della fede giurata e della santità dei trattati, il diritto a uno sviluppo pacifico (diritto che, essendo valevole per tutti, richiede per attuarsi che si stabilisca una comunità internazionale avente potere giuridico e lo sviluppo di forme federative di organizzazione) » ( I diritti dell’uomo e la legge naturale, Vita e Pensiero, 1977). Un ordine di diritti purtroppo ampiamente disattesi se solo pensiamo, per fare esempi immediati, alla guerra in Ucraina e in Sudan, oltre che agli altri innumerevoli conflitti sparsi nel mondo, o alla privazione dei diritti in Afghanistan e in Iran.

 La centralità dell’attenzione ai diritti nel pensiero di Jacques Maritain, nel suo imprescindibile richiamo alla visione unitaria della persona, può consentire inoltre di rileggere da un peculiare punto di vista la molteplicità degli interessi del pensatore francese che spaziano dall’educazione all’estetica, dalla filosofia morale alla politica, dall’epistemologia alla filosofia della natura fondandosi su una visione metafisica che rilegge originalmente l’insegnamento tomista. E può consentire anche di richiamare la sua vita che ha saputo attraversare molti mondi, nell’amicizia con figure importanti del mondo della filosofia, della cultura, dell’arte, della politica, della Chiesa (pensiamo tra tutte all’amicizia con Paolo VI), dalla Francia agli Stati Uniti e all’Italia (con il suo impegno di ambasciatore della Francia presso la Santa Sede), in una ricerca filosofica libera e aperta ai grandi interrogativi della vita (come testimoniano gli incontri nella sua casa di Meudon) sempre consapevole dei limiti dell’umano ma anche sempre convinta della grandezza di ogni persona e dell’apertura dell’umano al divino.

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giovedì 27 aprile 2023

LA RETE SENZA VERITA' FA L'UOMO NICHILISTA

Per il filosofo Han il problema non sono fake e menzogna, ma l’apparire di un mondo autoreferenziale, senza riferimento ai fatti concreti e senza alterità.

Un contesto privato della carne, del suolo e dei codici di natura diventa muto e non offre più occasione di ascolto: quello che conta è ciò che è utile al singolo utente.


- di SIMONE PALIAGA

 In questo periodo ChatGpt, l’intelligenza artificiale generativa con cui è possibile intavolare una conversazione, attraversa le cronache, soprattutto dopo che il garante per la privacy ne ha bloccato l’accesso dall’Italia. Si tratta però solo dell’aspetto più visibile di un fenomeno che accompagna le vite quotidiane ogni giorno. Con l’intelligenza artificiale e il mondo dei dati trasformati in informazioni conviviamo quotidianamente, oramai, sia che si usi un navigatore sia con i chatbot delle piattaforme o i consigli commerciali che fanno capolino sulle pagine web durante la navigazione. Senza contare l’uso che viene svolto dall’intelligenza artificiale sui social, che, peraltro, diffondono immagini, come quella di Vladimir Putin in manette o di Donald Trump strattonato dalla polizia. Immagini di cui diventa difficile stabilire la veridicità. Starebbe qui il cuore della svolta della digitalizzazione, secondo quanto scrive il filosofo coreano naturalizzato tedesco, Byung-Chul Han in Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete (Einaudi, pagine 80, euro 12,50). Ne deriverebbe un nuovo nichilismo in cui «è la stessa distinzione tra verità e menzogna a essere minata». 

A trovarsi al centro di questo nuovo nichilismo è la de-fatticizzazione della realtà. Infatti, per Han, «le fake news non sono menzogne: esse attaccano la fatticità stessa». Il problema dunque non è la menzogna, che riconosce la verità ma la distorce e se ne discosta. Il problema è invece l’apparire di un mondo in cui non si prevede alcun riferimento a fatti e a verità fattuali. E questo genera una crisi della verità. Uno degli aspetti più visibili da cui deriva la crisi della verità è la fruizione autistica dei contenuti, il rafforzamento autoreferenziale delle proprie convinzioni e opinioni. Questo esito è dovuto anche ai cosiddetti bubble filter, che fanno trovare sui profili solo quanto è coerente con le idee dell’intestatario escludendo ogni prospettiva di alterità. Da non ingenuo indagatore delle dinamiche che condizionano il mondo attuale Han è ben consapevole che all’origine della deriva che mina il valore della verità fa capolino una dinamica non riconducibile esclusivamente alla digitalizzazione. 

«La personalizzazione dei risultati delle ricerche e dei news feed - precisa il filosofo - è responsabile solo in minima parte di questo processo degenerativo. L’auto indottrinamento o l’auto propaganda avviene già offline». E il pensatore non tarda a mostrare come a essere responsabile della crisi della verità «non sia la personalizzazione algoritmica della Rete bensì la sparizione dell’altro, l’incapacità di ascoltare». Per Han quindi il processo di “defatticizzazione” della realtà, vale a dire la perdita di fiducia nei fatti, è l’esito di un processo non imputabile al processo di digitalizzazione, con tutti i suoi corollari, algoritmi, intelligenza artificiale, web, social  network, bubble filter e via enumerando. L’eclisse dei fatti, per il pensatore tedesco, sarebbe legata a un livello ulteriore, l’estinzione dell’altro. «L’espulsione dell’altro - insiste il pensatore - rafforza la costrizione autopropagandistica a indottrinare se stessi con le proprie idee. Questo autoindottrinamento produce bolle informatiche autistiche che rendono più complesso l’agire comunicativo. Se la costrizione all’autopropaganda si accresce, gli spazi discorsivi vengono progressivamente sostituiti da ecochambers, nelle quali sento parlare soprattutto me stesso».

 La digitalizzazione non fa altro che rafforzare il processo di iperculturalizzazione, come Han la definisce in Iperculturalità (Nottetempo, pagine 130, euro 15). Con questo processo, precisa il pensatore, «la cultura diventa genuinamente culturale, anzi iperculturale, denaturandosi, liberandosi cioè tanto del “sangue” quanto del “suolo”, dei codici biologici e terreni. Tale denaturazione intensifica la culturalizzazione. Se è il luogo a caratterizzare la fatticità di una cultura ecco che iperculturalizzazione significa defatticizzazione della cultura». A questo punto il mondo diventa muto, non oppone più resistenza e dunque non offre più occasione di ascolto. Nell’Infocrazia attuale a predominare sarebbe un continuo riferirsi a informazioni costruite ad hoc sul profilo degli utenti, dalle quali viene escluso ogni riferimento a un mondo della vita condiviso. Gli unici elementi a contare sono quelli trasformati in dati ed elaborati in informazioni adatte al singolo utente, senza rendere possibile il riconoscimento della verità. Di qualsiasi verità, anche di quella intersoggettiva e condivisa, rendendo così il mondo uno spazio aperto al tribalismo.

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I VARI MODI DEL TRADURRE

Quello “scambio” 
di senso 
che ha cambiato
 i greci in romani

 

- di  Stefano Arduini

 

Il latino ha almeno 11 verbi che significano “tradurre”. E ognuno di essi ci dice qualcosa di diverso. Una trasformazione nella quale si opera qualcosa di profondo, di magico

Il dizionario di una lingua rivela spesso come le culture collocano al proprio interno determinate attività, che rilievo danno loro e a chi le esercita. Ad esempio, l’importanza del tradurre nel mondo romano è ben rappresentata dalla terminologia usata, come ha mostrato Maurizio Bettini in Vertere (Einaudi, 2012), libro pubblicato più di dieci anni fa ma ancora oggi ricco di stimoli e suggerimenti.

Il latino, in questo campo, ha infatti almeno undici verbi per “tradurre”: aemulari, exprimere, imitari, interpretari, reddere, tradere, traducere, transcribere, transferre, transponere e vertere. Una terminologia costruita quasi sempre con dei prefissi: inter- ex-, red-, trans- cum-, che modificano i termini nel senso di un movimento da un luogo, per un luogo o attraverso un luogo. Mi piace l’idea del movimento perché è effettivamente quello che fa la traduzione: il movimento del senso verso direzioni non necessariamente determinate.

Qualche veloce osservazione sui vari termini ci offre delle interessanti curiosità circa il modo in cui i latini vedevano il tradurre. Ad esempio in interpretari troviamo la radice per o pre nel senso di “trafficare”, scambiare, che ritroviamo nel greco pèrnemi (vendere), priasthai (comprare), piprasko (vendere): si tratta della stessa radice del latino pretium, un significato “commerciale” del termine che implica il passaggio di qualcosa, che siano merci o parole.

Exprimere significa “premere”, “cavare fuori”, nel senso di produrre un’immagine da uno stampo “premendola via”, oppure quello di lasciare un segno imprimendo il sigillo sulla cera. Un calco dunque che però è allo stesso tempo una sorta di negativo dell’originale, come se questo fosse visto da un’altra prospettiva e mostrasse una faccia diversa. Reddere è “restituire”, ma anche “ricambiare”, “contraccambiare”, “ripagare”; in questo senso porta con sé l’idea che la traduzione sia qualcosa che si ha in cambio di qualcosa d’altro che è il testo straniero.

Un discorso diverso riguarda il verbo vertere. Plauto lo usa per descrivere l’atto di adattare gli originali greci alla nuova commedia romana. All’apertura dell’Asinaria nel vv.10-12, Plauto commenta la sua fonte scrivendo: “In greco questa commedia si intitola Onagós, l’ha scritta Demofilo e Macco l’ha tradotta in latino (vortit barbare). Vorrebbe tradurla (volt) Asinaria se vi va bene”. La traduzione è per noi legata alla scrittura, in quanto viene applicata a un testo che dovrà essere letto, quasi sempre in silenzio. Il vertere dei Romani avviene invece in una situazione radicalmente diversa, altra dalla lettura solitaria e silenziosa. Il “vortit barbare” di Plauto non è rivolto a dei lettori ma al teatro, una parola che va messa in scena con un pubblico che ascolta, una parola recitata da un attore che la modulerà secondo la sua arte.

Una volta conclusasi la dichiarazione dell’autore nel prologo, ciò che gli spettatori hanno non è un testo scritto che probabilmente solo alcuni sarebbero in grado di leggere, ma personaggi che si sono trasformati, da greci sono diventati romani. L’atto del vertere nasce dunque nell’oralità e nella rappresentazione. La traduzione è in questo caso qualcosa di concreto, cambiano le parole ma cambiano anche i personaggi, cambia la realtà di riferimento.

C’è però un altro aspetto che può aiutare a illuminare ulteriormente il senso di vertere. Molto spesso, infatti, il cambiamento dovuto al vertere implica l’intervento di una forza magica, soprannaturale, capace di operare una trasformazione. Ad esempio quando Mercurio, nell’Amphitruo di Plauto, descrive la facilità con cui Giove muta d’aspetto per assumere l’identità di Anfitrione, dice: “in Amphitruonis vertit sese imaginem”. In maniera simile il re Mida delle Metamorfosi dice: “Fai che tutto quello che tocco con il mio corpo si converta (vertatur) in fulvo oro”; così anche la vecchia strega Dipsas trasformata si aggira volando fra le tenebre (“nocturnas versam volitare per umbras”).

La persona o la cosa soggetta al vertere subisce una trasformazione per cui perde la propria forma esterna per assumerne un’altra. Si può dunque pensare che colui che vertit in latino un testo composto in un’altra lingua mutandone radicalmente la forma, ne fa qualcosa che risulta totalmente altro rispetto a ciò che era prima.

Tradurre allora diventa un’esperienza di trasformazione profonda, di metamorfosi che crea necessariamente qualcosa di nuovo. Un nuovo modo di guardare le cose. Una nuova letteratura, come accade per quella latina nata appunto dalla traduzione e nella traduzione.

 Il Sussidiario



 

mercoledì 26 aprile 2023

L'ALFABETO DEL SACRO


 Un nuovo vocabolario per la spiritualità di oggi. Dalla A di Amore alla Z di Zero, passando per Dio, Giuda, Quarantena, Occidente, Peccato, Vergogna...

Un prete eremita e un poeta si gettano a capofitto nel vocabolario, risignificando parole consunte dall’uso e svuotate, ridotte a ricamo televisivo, a sentimentalismo stantio o ad atto di guerra.

Giocando all’alfabeto, Davide Brullo e Alessandro Deho’, da inadatti e ingenui, con la ferocia dei felici, percorrono le estremità del sacro, guardando là dove non si deve, nei luoghi oscuri, ostili del Vangelo, nelle stimmate del nulla. 

In questo Nuovo Alfabeto del Sacro si entra a piedi nudi, con le candele sui polsi. Certi che varcare la soglia di alcune parole è un atto di disobbedienza, di libertà.

 AUTORI

Davide Brullo

ha pubblicato, tra l’altro, Un alfabeto nella neve e Gries. Ha tradotto i Salmi e il Libro della Sapienza; ha fondato il quotidiano culturale «Pangea». In un libro, ha raccolto le Stroncature scritte nell’arco di diversi anni. Le cose migliori le tiene nascoste.

Alessandro Deho'

è prete dal 2006; vive in Lunigiana, in una casa nel bosco, dove prega, cammina, accoglie, ascolta, celebra. Ha pubblicato, tra l’altro, Padri (2021), La parola libera (2021) e Padre nostro (2022).

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Davide Brullo, Alessandro Deho'

Nuovo alfabeto del sacro

Un abbecedario per disobbedienti

I libri della Salamandra extra, n. 26
2023, pp. 192, 14x21

ISBN: 9788893235440

€ 18,90