- di Giuseppe
Savagnone
«Fare
l’Italia»
L’enfasi
con cui Giorgia Meloni ha sottolineato la scadenza dei primi cento giorni di
governo, rivendicando la svolta che essi rappresentano rispetto al passato
(«Non è più la Repubblica delle banane», ha sottolineato), suggerisce una
verifica critica che si ponga al riparo sia degli attacchi indiscriminati delle
opposizioni, sia delle celebrazioni con cui la stampa di destra – da «La
Verità», a «Libero», al «Giornale», a «il Tempo» – ha salutato la ricorrenza.
Il
riferimento – a parte il remoto caso dei cento giorni vissuti da Napoleone dopo
la fuga dall’Isola d’Elba (conclusi peraltro con la sconfitta definitiva di
Waterloo) – è ai primi “cento giorni” di governo in cui presidente americano
Roosevelt avviò il vasto e radicale programma di riforme economiche e sociali
conosciuto con il nome di New Deal, grazie al quale, fra il 1933 e il 1937, gli
Stati Uniti riuscirono a superare la grande depressione che aveva stremato il
paese.
Nella
narrazione proposta dalla Meloni, fin dalla sua ascesa al potere, qualcosa di
simile doveva rappresentare la costituzione del nuovo governo. Da qui, da parte
della premier, una frequente rappresentazione fortemente negativa delle
condizioni dell’Italia e un appello a unirsi tutti al suo sforzo per cambiarle
radicalmente. «La nazione si può risollevare: nonostante le intemperie noi ce
la possiamo fare, ma dobbiamo farlo insieme», diceva nel gennaio scorso in
un’intervista al Tg1.
E
già nel corso delle trattative per la formazione del governo aveva avvertito i
suo avversari politici della Sinistra: «Si mettano l’anima in pace: siamo qui
per risollevare la nostra Nazione. Sarà un percorso pieno di ostacoli, ma
daremo il massimo. Senza mai arrenderci». Fino a citare, più recentemente,
perfino Garibaldi: «Qui si fa l’Italia o si muore».
I
successi
Per
veicolare questa rappresentazione dei fatti, la premier ha voluto creare una
rubrica social “Gli appunti di Giorgia”, con cui entrare in diretto contatto
con gli italiani. E proprio su questa ha sottolineato i successi di questa prima
tappa del suo governo: «Lo spread negli ultimi cento giorni è sceso da 236 a
175 punti base. La Borsa ha registrato un aumento del 20%, la Banca d’Italia
stima che nel secondo semestre 2023 l’economia italiana sarà in netta ripresa e
che quella ripresa si stabilizzerà nel 2024 e nel 2025. E che l’inflazione
tornerà a livelli accettabili».
In
particolare, ha osservato, «il prezzo del gas, dopo l’iniziativa europea del
tetto, su cui l’Italia ha avuto un ruolo fondamentale, sta continuando a
scendere, e penso che nelle prossime settimane finalmente vedremo i risultati
di questo lavoro lunghissimo».
Fra i punti sottolineati dalla Meloni ci sono
anche i suoi viaggi in Algeria e Libia e
gli accordi conclusi con questi paesi per fare dell’Italia l’hub energetico
d’Europa, con l’intento di «rimettere l’Italia dove deve stare, al centro del
Mediterraneo».
Sono
tutti risultati senz’altro positivi. Come lo è la tenuta del buon clima
europeista, garantito anche dall’incondizionato sostegno all’Ucraina. Forse,
però sarebbe stato più corretto precisare che si è trattato soltanto di una
prosecuzione del lavoro già ampiamente avviato dal governo Draghi, sulla cui
linea il nuovo esecutivo si è mosso fedelmente, con una continuità che appare
alquanto paradossale, se si pensa alla strenua opposizione condotta nei suoi
confronti da Fratelli d’Italia. La sola reale differenza è l’evidente minor
prestigio del nostro premier rispetto all’ex presidente della Bce, di cui è
stata probabile manifestazione anche l’improvviso irrigidimento del presidente
Macron sulla questione dei migranti.
La
svolta
Delle
novità nella linea politica, certo, ci sono state. Di una, nel suo video
messaggio, Giorgia Meloni ha pure parlato, come di un successo – e questa volta
davvero in discontinuità col passato – , ed è la politica nei confronti dei
flussi migratori. In linea con le promesse elettorali che gli italiani hanno
premiato, il nuovo governo si è subito impegnato a contrastare l’immigrazione
clandestina.
Lo
ha fatto, per la verità, concentrandosi esclusivamente sull’attività delle navi
di «Medici senza frontiere» e di altre Ong, che salvavano in mare i migranti in
pericolo. In realtà, si trattava appena dell’11% degli sbarchi sulle coste
italiane. Ben poca cosa, senza contare gli ingressi via terra, che non sono
stati neppure presi in considerazione.
Il “decreto sicurezza” – col divieto di effettuare più di un salvataggio
per volta e con l’obbligo di approdare non al porto più vicino, ma a quello
indicato dalle autorità italiane, che ormai è sistematicamente scelto tra i più
lontani – serve dunque solo a complicare la vita a chi cerca di salvare vite,
ma non a risolvere il problema.
Suscitando
così il dubbio che si sia soprattutto voluto sbandierare un’idea e una presa di
posizione, purtroppo radicalmente contrarie ai princìpi di umanità e di
solidarietà. Come ha osservato «Avvenire», con la sua scelta «il governo
comunica una visione dei salvataggi in mare come un’attività dannosa, da
circoscrivere, scrutare, penalizzare» (non a caso la Chiesa cattolica è stata
estremamente critica nei confronti di questa linea).
Le
contraddizioni
Ci
sono altre cose che nel bilancio dei cento giorni di Giorgia Meloni sono state
omesse. Una serie di decisioni che poi hanno dovuto essere ritirate o corrette,
sotto la pressione di critiche più che giustificate, meritando a questo
esecutivo il titolo di “governo delle retro-marce”, in stridente contraddizione
con l’immagine di uno Stato più forte.
A
cominciare dal primo decreto legge, quello anti-Rave, che fu necessario
modificare perché, nella sua prima edizione, rischiava di mettere in pericolo
le libertà fondamentali previste dalla nostra Costituzione; per continuare con
il dietrofront, imposto dall’UE, sulla questione del POS. Dopo tanti bellicosi
proclami della vigilia elettorale, riguardo alla necessità di rivendicare il
ruolo dell’Italia e di alzare la voce per farsi sentire finalmente dall’Europa,
nella sostanza la Meloni ha dovuto accettare quello che a Bruxelles era stato
deciso.
Un’altra
contraddizione, rispetto all’immagine di affidabilità e di coerenza che si
cercava di esibire, è stata determinata dalla decisione del governo di non
rinnovare gli sconti sulle accise (che la leader di FdI, quando non era al
comando, aveva promesso addirittura di eliminare), con il conseguente aumento
del prezzo della benzina. Dopo tante promesse di ridurre le tasse, si è
trattato di una imposta indiretta (mascherata), che ha colpito
indiscriminatamente ricchi e poveri, egualmente obbligati quotidianamente a
usare l’automobile. Per di più si è cercato maldestramente di coprire
l’incoerenza con lo scaricare la responsabilità dell’aumento su pretese
speculazioni dei distributori, che si sono infuriati e hanno fatto uno sciopero
costringendo anche questa volta il governo a modificare il tiro.
Ma
qui la contraddizione era già insita nel programma di governo in cui, per
potersi alleare in funzione elettorale, era stato necessario mettere insieme
una misura che rafforzava il centralismo statale, come il presidenzialismo voluto
dalla Meloni, e l’autonomia regionale, cara alla Lega. Ora si raccolgono i
frutti di questa incongruenza e a prevalere sembra la volontà della seconda,
rappresentativa dell’8% degli elettori! Gli altri italiani dovranno
accontentarsi dell’assicurazione della Meloni che «qui si sta facendo
l’Italia».
A
meno che, come sostengono alcuni, non si tratti solo di una mossa ad effetto
per aiutare la Lega in vista delle imminenti elezioni regionali in Lombardia. Ma
forse una simile lettura comporterebbe ancora maggior discredito per questo
governo.
Per
non dover accettare che Dante sia il fondatore del pensiero di destra
Siamo
davanti a una svolta? Per certi versi no. Non c’è nulla che questo governo stia
facendo di buono che non fosse già stato avviato da quello precedente. La
svolta purtroppo c’è nella qualità e nell’indirizzo delle altre scelte, quelle
compiute dal governo per dimostrare la propria identità ideologica e politica.
Il
problema è che non c’è attualmente una vera alternativa. L’opposizione è in
profonda crisi e divisa. Se si vuole che qualcosa cambi davvero rispetto a
questa Seconda Repubblica, di cui il governo Meloni sembra essere solo
un’ultima, modesta espressione, deve nascere qualcosa di veramente nuovo dalle
risorse spirituali e intellettuali del nostro paese. Ma questo non possiamo
forse attenderlo né da questa Destra né da questa Sinistra, dobbiamo inventarlo
noi.
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