- di Giuseppe Savagnone *
.
- Il
discorso di Ratisbona
Il
modo migliore, forse, di onorare la figura di Benedetto XVI e di comprendere
ciò che il suo messaggio può significare oggi per noi, è di andare oltre il suo
ruolo nello scontro, in atto nella Chiesa, fra “conservatori” e “progressisti”
e di cercare di cogliere ciò che egli ha voluto sottolineare, prima come
teologo, poi come prefetto del dicastero per la Dottrina della fede (l’ex
Sant’Uffizio) e infine come papa.
Paradossalmente,
la via più sintetica per farlo è probabilmente ritornare a quel famoso
“discorso di Ratisbona” che suscitò un vespaio di polemiche e di attacchi nei
suoi confronti, soprattutto da parte del mondo islamico, ma anche di molti
cristiani, che videro in esso un passo indietro nel cammino del dialogo
inter-religioso.
Vi
si riferiva, infatti – senza peraltro condividerlo – , il giudizio pesantemente
negativo di un imperatore bizantino nei confronti dell’islam, una citazione
effettivamente inopportuna, se non altro perché ha fatto perdere di vista ciò
che a Ratzinger stava veramente a cuore di evidenziare, e cioè l’unicità del
rapporto con la ragione che caratterizza il cristianesimo.
Secondo
il pontefice il punto cruciale era che, per la visione cristiana, «non agire
secondo ragione è contrario alla natura di Dio». Mentre «per la dottrina
musulmana Dio è assolutamente trascendente», cosicché «la sua volontà non è
legata a nessuna delle nostre categorie, fosse anche quella della
ragionevolezza», il cristiano che sostenesse questa tesi (e in realtà ce ne
sono stati tanti, nella storia: il papa lo ammette poco dopo) è in netta
contraddizione con il Nuovo Testamento. E Ratzinger ricorda l’inizio
solennissimo del vangelo di Giovanni: «In principio era il Logos, e
il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio» (Gv 1,1).
Ora,
egli nota, «Logos significa insieme ragione e parola – una ragione
che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione». Ratzinger
vede in questo «l’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e
religione».
«Certo»,
precisa il papa, «l’amore, come dice Paolo, “sorpassa” la conoscenza ed è per
questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19),
tuttavia esso rimane l’amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano
è, come dice ancora Paolo, un culto che concorda con il Verbo eterno e con la
nostra ragione (cfr Rm 12,1)».
Da
qui la capacità del cristianesimo di accogliere la grande eredità del pensiero
greco e di dar vita a quella civiltà occidentale che sulla ragione ha costruito
il suo progresso scientifico, tecnico ed etico-politico. Certo, non sempre la
Chiesa è stata, storicamente, all’altezza di queste implicazioni del suo
messaggio, come è testimoniato da mille episodi (si pensi al processo a
Galilei), ma ciò non intacca la sostanza di un influsso che deriva dal cuore
del cristianesimo.
Oltre
il fanatismo e il relativismo
Secondo
papa Benedetto questa sintesi inscindibile tra fede e ragione rende
impossibile, al cristiano coerente, abbandonarsi al fanatismo religioso, che
invece è una tentazione per l’islam e per altre religioni. Ma esclude anche
quel misconoscimento del valore della razionalità umana che è presente nel
relativismo, una minaccia più volte denunziata dal pontefice come un mortale
pericolo non solo per la fede, ma per i valori costitutivi dell’umano.
Se
non ci sono il vero e il falso, il bene e il male, se tutto si equivale e il
valore delle scelte morali e politiche dipende solo da preferenze soggettive
dei singoli, non ha più senso l’impegno per il progresso della comunità
(progresso rispetto a che cosa?), né la lotta per la libertà e la dignità delle
persone. Resta valida solo la legge del più forte.
Da
questo punto di vista l’attualità del messaggio di papa Ratzinger è innegabile.
Il mondo contemporaneo conosce bene la duplice deriva di un estremismo
religioso fanatico, che calpesta con cieca determinazione le persone in nome di
un Dio assurdo (si pensi non solo al terrorismo, ma a ciò che sta accadendo in
Iran e in Afganistan), e di un nichilismo che riduce il ruolo della ragione al
dominio della tecnica, ma nega l’esistenza di valori inderogabili, fondati
sull’umanità degli esseri umani.
Più
specificamente, come è stato notato da qualcuno, Benedetto non si rivolgeva
tanto ai non cristiani, quanto a un mondo cristiano che ha dimenticato le sue
radici profonde e rischia di restare prigioniero di una fede abitudinaria e
ritualistica, priva della luce della consapevolezza e perciò incapace di
orientare la vita e di parlare agli uomini e delle donne che questa fede non ce
l’hanno, ma potrebbero essere interpellati sulla base comune della ragione.
Il
modello che egli indica è quello che nella tradizione cristiana si può
ritrovare nella doppia formula «comprendi per credere» e «credi per
comprendere». Una circolarità tra fede e ragione che si può riscontrare, per
esempio, nell’episodio del viaggio dei magi, narrato nel vangelo di Matteo
(cap. 2) e celebrato dalla Chiesa nella solennità dell’Epifania.
La
stella dei magi
Talora
questo racconto è stato inteso come se i magi fossero il tipo del credente e la
stella il simbolo della fede. In realtà, dal testo si evince, con chiarezza,
che i magi non solo non sono – questo dovrebbe essere ovvio! – dei cristiani,
ma neppure degli aderenti al giudaismo. Essi vengono da molto lontano e
sono all’oscuro delle tradizioni sacre di Israele, da cui vengono illuminati
solo in un secondo tempo, tramite i sapienti ebrei consultati da Erode.
Quanto
alla notizia relativa alla stella, essa si inserisce perfettamente nella
conoscenza che noi abbiamo della civiltà mesopotamica, da cui i magi presumibilmente
provenivano. In quella cultura erano particolarmente fiorenti gli studi
astrologici, perché si riteneva che vi fosse una stretta connessione tra il
corso dei corpi celesti e il destino degli uomini (come pensa tuttora chi crede
nell’oroscopo). È abbastanza logico, dunque supporre che la stella di cui parla
il vangelo di Matteo non sia affatto la fede, ma un segno cosmico,
accessibile alla ragione. È questo segno che sta all’origine della ricerca:
«Comprendi per credere».
È
vero però, che questa stella brilla, con la sua fragile luminosità, solo di
notte e non è certo la ragione solare di cui ha poi parlato l’illuminismo (ma
non è questo il modello di razionalità del mondo post-moderno?). Quella dei
magi è una ricerca nel buio, che per di più a un certo punto si arresta a causa
della scomparsa della stella. Riconoscere i limiti della ragione non conduce
necessariamente al relativismo. Senza bisogno di essere scettici, anzi proprio
per salvaguardare il senso della ricerca intellettuale, bisogna essere consapevoli
della propria umana finitezza. A maggior ragione quando è in gioco il Mistero.
E
qui subentra la necessità di ricorrere, per proseguire il cammino, alla
testimonianza delle Scritture, che i magi ricevono dai saggi d’Israele alla
corte del re Erode. È a questo punto che entra in gioco la fede: «credi per
comprendere».
Dalla
Rivelazione viene l’indicazione di Bethlem che consente loro di orientarsi. Ma,
quando riprendono il cammino, «ecco, la stella, che avevano visto in
oriente» – e che prima era scomparsa alla loro vista – «li precedeva,
finché non andò a fermarsi sopra il luogo dove si trovava il bambino”»(Mt 2,
9). La ragione – la stella che prima li aveva portati a Gerusalemme – , non è
stata sostituita, ma sostenuta e indirizzata dalla fede e adesso riprende il
suo ruolo decisivo nell’incontro con il Verbo incarnato.
Questa
è stata anche la storia del grande dottore della Chiesa a cui il teologo
Ratzinger si è sempre ispirato, s. Agostino. Anche lui ha cercato Dio vagando
nella notte con l’aiuto della sola ragione; anche lui a un certo punto ha
scoperto, incontrando il vescovo Ambrogio, l’indicazione della fede; anche lui
ha potuto trarne le ultime conseguenze, in tuttabla sua immensa opera
intellettuale, grazie all’apporto di una ragione illuminata da questa stessa
fede.
Grandezza
e limiti di un pontificato
Forse
la grandezza di papa Benedetto è stata di additare questi grandi orizzonti,
lottando per impedire che il cristianesimo si riducesse a mero residuale
emotivo di una società culturalmente post-cristiana, magari trovando un
compenso nell’impegno sociale e caritativo.
Il
limite di questo papa è stato, però, di non valorizzare abbastanza il senso
della relatività, che è cosa molto diversa dal relativismo, assolutizzando
elementi della esperienza cristiana che invece erano relativi a determinati
contesti culturali. L’esempio più eclatante è la reintroduzione della messa in
latino. Ma, al di là di questo episodio, tutto il suo pontificato ha risentito
pesantemente di una volontà di recuperare il passato, che ha interpretato la
tradizione sottolineando unilateralmente la continuità con il passato piuttosto
che la sua capacità di dar luogo a sviluppi nuovi, proiettati verso il futuro.
Emblematica l’interpretazione del Concilio che è stata tutta giocata sul
registro di questa continuità, sicuramente presente, ma non esclusiva, mettendo
in secondo piano la discontinuità, che pure era la forza innovativa del
Vaticano II.
L’ascolto
del Logos, invece di rendere la Chiesa disponibile a percepire
meglio e a interpretare sapientemente le voci che vengono dalla storia, ha
rischiato così talvolta di trasformarsi in un ostacolo alla loro recezione.
Resta
l’attualità del messaggio che questo pontefice ha lasciato a noi, in una
società e in una Chiesa dove il rapporto tra fede e ragione è spesso travisato,
privilegiando unilateralmente – e per ciò stesso deformando – l’una o l’altra e
dando così luogo a forme inaccettabili di fideismo, se non di fanatismo, da un
lato, e di razionalismo scientista (accompagnate da un sostanziale relativismo
religioso ed etico) dall’altro. Sta a noi raccogliere questo richiamo di
Benedetto XVI e tradurlo adeguatamente nel nostro complesso momento storico.
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