Tramonto
a Patmos, l’isola dell’Apocalisse. Stavamo seduti davanti al fondale magico
delle isole dell’Egeo, in contemplazione silenziosa del sole che calava nel
mare, un monaco sapiente e io. Il monaco ruppe il silenzio e mi disse: lo sai
che i padri antichi chiamavano questo mare «il battistero del sole»? Ogni sera
il sole scende, si immerge nel grande bacile del mare come in un rito
battesimale; poi il mattino riemerge dalle stesse acque, come un bambino che
nasce, come un battezzato che esce. Indimenticabile per me quella parabola che
dipingeva il significato del verbo battezzare: immergere, sommergere. Io
sommerso in Dio e Dio immerso in me; io nella sua vita, Lui nella mia vita.
Siamo intrisi di Dio, dentro Dio come dentro l’aria che respiriamo, dentro la
luce che bacia gli occhi; immersi in una sorgente che non verrà mai meno,
avvolti da una forza di genesi che è Dio. E questo è accaduto non solo nel rito
di quel giorno lontano, con le poche gocce d’acqua, ma accade ogni giorno nel
nostro battesimo esistenziale, perenne, in-finito: «siamo immersi in un oceano
d’amore e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci).
La
scena del battesimo di Gesù al Giordano ha come centro ciò che accade subito
dopo: il cielo si apre, si fessura, si strappa sotto l’urgenza di Dio e
l’impazienza di Adamo. Quel cielo che non è vuoto né muto. Ne escono parole
supreme, tra le più alte che potrai mai ascoltare su di te: tu sei mio figlio,
l’amato, in te ho posto il mio compiacimento. Parole che ardono e bruciano:
figlio, amore, gioia. Che spiegano tutto il vangelo. Figlio, forse la parola più
potente del vocabolario umano, che fa compiere miracoli al cuore. Amato, senza
merito, senza se e senza ma. E leggermi nella tenerezza dei suoi occhi, nella
eccedenza delle sue parole. Gioia, e puoi intuire l’esultanza dei cieli, un Dio
esperto in feste per ogni figlio che vive, che cerca, che parte, che torna.
Nella
prima lettura Isaia offre una delle pagine più consolanti di tutta la Bibbia:
non griderà, non spezzerà il bastone incrinato, non spegnerà lo stoppino dalla
fiamma smorta. Non griderà, perché se la voce di Dio suona aspra o impositiva o
stridula, non è la sua voce. Alla verità basta un sussurro. Non spezzerà: non
finirà di rompere ciò che è sul punto di spezzarsi; la sua mania è prendersi
cura, fasciando ogni ferita con bende di luce. Non spegnerà lo stoppino
fumigante, a lui basta un po’ di fumo, lo circonda di attenzioni, lo lavora,
fino a che ne fa sgorgare di nuovo la fiamma. “La vita xe fiama” (B. Marin) e
Dio non la castiga quando è smorta, ma la custodisce e la protegge fra le sue
mani di artista della luce e del fuoco. (Letture:
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