Il concetto, oggi centrale in varie accezioni politiche da destra a sinistra, di fatto riguarda la visione che gli altri hanno di noi, ma anche quella che ognuno ha di sé Sulla scia di Locke c’è chi lo riduce a esperienza e memoria. E chi, tra gli psicologi, punta su relazioni e autobiografia.
Nel
primo caso l’identità è ritenuta qualcosa di oggettivo e radicato in una lunga
tradizione, anche se più spesso di quanto si creda è costruita a tavolino (come
ha documentato per esempio Eric Hobsbawm in Nazioni e nazionalismi).
Nel
secondo caso, invece, le identità sono il riconoscimento della particolarità
rivendicata di ciascuno o delle cangianti emersioni di caratteri che tracciano
le coordinate in quel momento prevalenti, dalla professione al genere,
dall’etnia alle preferenze valoriali.
Quella
di cui abbiamo parlato finora rientra nella cosiddetta identità per gli altri,
ciò che impedisce alle persone di scambiarci per qualcun altro. Non ne fa parte
solo la componente più ideologica ma anche quelle caratteristiche stabili nel
tempo sia somatiche sia psicologiche (la mia personalità) sia sociali (stato
civile, condizione lavorativa, consumi culturali). L’identità per sé è invece
l’insieme delle mie caratteristiche come io le percepisco e le descrivo a me
stesso. William James, nei suoi imprescindibili Principi della psicologia (1890),
scrive: «Chiunque di noi destandosi dice: ecco di nuovo il mio vecchio me
stesso, al modo in cui dice: ecco il mio vecchio letto, la stessa vecchia
stanza, lo stesso vecchio mondo».
La prima e decisiva svolta arrivò con John Locke, che descrisse l’identità come connessioni esperienziali consapevoli, ovvero come continuità della memoria di sé stessi, una concezione oggi molto comune e ripresa nelle teorie dell’identità narrativa. A questo proposito è utile sottolineare come diverse idee di identità non hanno soltanto un rilievo descrittivo ma anche una portata normativa. Pensiamo alle malattie neurodegenerative e al loro impatto distruttivo sulla memoria: se si adotta l’approccio lockeano, di molti pazienti si dovrebbe dire che hanno perso in parte e in tutto la propria identità di persone, con quello che ciò comporta. Lo scetticismo sulla robustezza del sé si è esteso seguendo David Hume e ha costituito una diffusa linea interpretativa fino a oggi con Derek Parfit, il pensatore più influente nell’affermare la necessità di prendere congedo dall’idea stessa di identità personale a favore di una visione non più centrata su un individualismo forte basato sulla specie umana. A questo eliminativismo hanno risposto altri filoni di riflessione, sia ancorati a retaggi classici sia connessi al naturalismo di stampo darwiniano, in cui è l’osservazione scientifica del contesto evolutivo e del funzionamento umano a suggerire spiegazioni del fenomeno identitario.
Che con l’identità si debba tuttavia fare i conti è un dato di fatto che la psicologia contemporanea più avvertita ed empiricamente solida non ignora. Lo testimonia in modo eccellente un volume di Massimo Marraffa (Università di Roma Tre) e Cristina Meini (Università del Piemonte occidentale). In La costruzione dell’interiorità. Dall’identità fisica alla memoria autobiografica (Carocci), i due autori, impegnati da anni su questi temi, riannodano teorie della psicologia dello sviluppo e dell’attaccamento con prospettive in cui l’individuo è costruito in una forte relazione con l’ambiente socioculturale, con lo scopo di fornire un quadro unitario sempre ancorato ai dati della più recente ricerca sperimentale. La traiettoria neo-jamesiana delineata è quella che va dalla nascita nel bambino della coscienza di sé legata al corpo e alle emozioni, con il progressivo arricchimento del mondo interiore, fino alla costituzione di un io collocato nel tempo e che viene vissuto razionalmente come un’autobiografia dotata di significato. La principale caratteristica di questo modello proviene dal carattere difensivo dell’identità così realizzata. Poiché manca un’acquisizione duratura di un sé stabile, il quale non riesce a superare uno stato di minacciosa precarietà dovuta al suo stesso funzionamento, vi è una costante mobilitazione di risorse personali per mantenere un io unitario. E ciò avviene per il bisogno primario di esistere saldamente dotati di un “centro di gravità causale”, che risulta fondamento di benessere psicologico e salute mentale.
Questa via naturalistica che prende sul serio l’idea di identità come qualcosa sia di reale sia di necessario potrebbe costituire un ponte da sfruttare anche per un’aggiornata visione personalista. Un esempio di quest’ultima è dato dall’agile e accessibile volume Antropologia filosofica. Persona, libertà, relazionalità (Edusc) scritto da Francesco Russo, professore nella facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce. In esso, mossi dall’antico motto “conosci te stesso”, si indaga sulla persona come «un vivente corporeo- spirituale e dinamico, liberamente orientato a svolgere il compito di essere se stesso», un io relazionale che è caratterizzato dalla cultura che egli stesso contribuisce a produrre e proteso alla ricerca di senso e alla realizzazione di valori.
Un’identità che non è debole, ma neppure mira a imporsi, in quanto dovrebbe essere destinata all’amore e alla comunione. La ricerca sulla e della identità sembra destinata ad accompagnarci sempre. E per questo va salutata positivamente ogni riflessione approfondita che la metta al centro dell’indagine.
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