un confronto vero per i giovani
Fa discutere la possibilità di avere a scuola una «carriera alias», con un nome diverso da quello assegnato alla nascita.
In 250 istituti è stata attivata la possibilità della «carriera alias». Una pericolosa deriva o una tutela per ragazzi e ragazze? va evitato il clima da scontro ideologico. Come aiutare in ambito educativo le persone che si sentono «transgender»?
Negli ultimi decenni, infatti, sono
stati commessi molti errori. Diagnosi affrettate e interventi precoci hanno
causato danni talvolta irreparabili, tanto da determinare svolte importanti
all’insegna della prudenza, sia in Inghilterra sia in Svezia È stata inviata
una diffida a 150 istituti sostenendo che si rischia di rafforzare l’idea di
essere nati nel corpo sbagliato. Il dibattito procede tra negazionismo assoluto
e troppo facile accettazione
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di LUCIANO MOIA
Evitare discriminazioni. Riconoscendo le diversità e cercando di offrire a questi ragazzi e ragazze la possibilità di evitare discriminazioni, episodi di bullismo, rischi di dispersione scolastica e altri soprusi, scuole e università di cui sopra ammettono che l’«incongruenza di genere» è un problema serio, a cui gli insegnanti in sintonia con le famiglie devono guardare con attenzione e offrire tutto l’aiuto possibile per accompagnare gli studenti più fragili in modo solidale e consapevole. Ci sono però associazioni convinte che il via libera alla “carriera alias”, come sostegno ai ragazzi che si confrontano con i problemi derivanti dall’identità di genere, sia un gravissimo errore. Pro Vita & Famiglia ha inviato una diffida a 150 scuole sostenendo che la “carriera alias” è «una proposta ideologica che rischia di rafforzare l’idea di essere nati nel corpo sbagliato, facilitando così percorsi per la transizione sociale o per il cambio di sesso, con bombardamenti ormonali e chirurgia spesso irreversibile».
La
risposta di chi la pensa diversamente non si è fatta attendere. Una trentina di
associazioni del mondo Lgbt, ma non solo, ha lanciato un appello per respingere
le diffide, sostenendo che l’adozione dei regolamenti per la “carriera alias”
da parte dei vari consigli d’Istituto, «avviene nel pieno rispetto della legge
e dell’autonomia scolastica». S i sottolinea pure che «chi ha promosso questa
iniziativa legale non ha nessun titolo per farla. L’impressione è che ciò
faccia parte di una strategia generale che – ha detto Fiorenzo Gimelli,
presidente di Agedo Nazionale, a nome di tutte le associazioni aderenti a
questo appello – mira a diffondere un clima di paura e ostacolare qualsiasi
avanzamento dei diritti nel nostro Paese. La finalità della “carriera alias” è
quella di tutelare il benessere di giovani vite, non di diffondere ideologie
che esistono solo nella immaginazione di chi vede complotti contro la propria visione
del mondo». Dello stesso tenore una dichiarazione della Flc-Cgil che definisce
l’iniziativa di Pro Vita & Famiglia «un intervento ideologico che vuole
limitare la libertà e l’autonomia costituzionalmente garantire».
Non si tocca la famiglia. Invece
a sostegno di ProVita & Famiglia si è mossa un’altra associazione, “Non si
tocca la famiglia”, con una petizione online sostenuta anche da “CitizenGo”,
dal titolo « Fuori il gender dalle scuole». Sarebbero già state raccolte e
consegnate al Ministero all’Istruzione 50mila firme per chiedere l’intervento
delle autorità scolastiche e fermare quello che viene definito un «disastro
educativo», causato appunto dallo strumento che viene collegato al cosiddetto
gender. Sul piano pratico probabilmente non succederà nulla, sia perché la legge
sull’autonomia permette che le «istituzioni scolastiche, nel rispetto della
libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e
delle finalità generali del sistema (…) riconoscono e valorizzano le diversità,
promuovono le potenzialità di ciascuno », sia perché le accuse alla cosiddetta
ideologia gender sono scarsamente sostanziabili trattandosi di un arcipelago
culturale in cui è presente di tutto – rivendicazioni condivisibili e pretese
insensate – ma, soprattutto, perché il vero problema non è la “carriera alias”,
ma il disagio profondo di alcune migliaia di studenti e di universitari alle
prese con una sessualità biologica che, secondo quanto loro dichiarano di
sentire, non corrisponde a quella interiore, psicologica.
I
genitori, gli insegnanti e gli educatori devono decidere
come stare accanto a questi ragazzi. Se si sceglie la strada dello scontro
totale, come stanno facendo, ciascuna dalle proprie posizioni, alcune delle
associazioni citate, gli unici a pagarne le conseguenze saranno i ragazzi e le
ragazze transgender o che tali si sentono e che per questo soffrono. E finiremo
per lasciare andare alla deriva un pezzo di una generazione in cui le
difficoltà legate all’identità personale, sessuale, di ruolo e di genere, sono più
diffuse di quanto ci si immagini e sono il termometro di un malessere che
finisce sempre più spesso per diventare problema di salute mentale. Dal 2018
l’Oms ha declassato questo disagio, prima noto come «disforia di genere»,
inserito nel novero delle patologie mentali. Ora viene definito «incongruenza
di genere», cioè variante non patologica della sessualità umana. Al di là della
battaglia lessicale, è fuori di dubbio che adolescenti e giovani, ma anche
adulti, alle prese con le difficoltà psicologiche legate al genere, vivano
momenti di profonda sofferenza che non si possono minimizzare o trascurare.
Ascoltare i loro racconti e soprattutto raccogliere le testimonianze accorate
dei genitori che vagano da un presunto esperto all’altro in cerca di aiuto e di
conforto, suscita un’amarezza e una comprensione profonda della delicatezza e
della non pretestuosità di questa realtà.
Come
aiutare quindi queste persone? Qui il nodo si fa più
intricato. Nessuno può negare che l’incongruenza di genere sia una grande sfida
per la medicina perché, se l’eziologia del problema (probabilmente un intreccio
per ora inestricabile di fattori genetici, ormonali, biologici, culturali e
ambientali) rimane un’ipotesi, anche la terapia è tutt’altro che assodata.
Basta l’accompagnamento psicologico? Anche qui le opinioni sono discordi.
Giusto, nei casi più estremi, ricorrere agli interventi ormonali? Certamente
non nei bambini o negli adolescenti, anche perché le statistiche ci dicono con
sufficiente certezza che, nella maggior parte dei casi, il problema, quando ben
identificato e contenuto, può rientrare (la percentuale di desistenza va dal
66,7% al 93,3% in base ai diversi studi, T.D.Steensa, 2015, K.J.Zucker, 2018).
Negli ultimi decenni sono stati certamente commessi molti errori. Diagnosi
affrettate e interventi precoci, soprattutto nei Paesi anglosassoni e del Nord
Europa, hanno causato danni talvolta irreparabili, tanto da determinare svolte
importanti all’insegna della prudenza, sia in Inghilterra sia in Svezia, i
Paesi che più si erano spinti in avanti nell’interventismo terapeutico. Scelta
che si è rivelata gravissima e devastante per migliaia di minori. Ma un conto è
discutere serenamente una condizione certamente complessa e su cui non ci sono
certezze scientifiche assolute, un altro è pretendere di imporre posizioni
estreme, dal negazionismo assoluto in nome della “lotta al gender”
all’accettazione facile e “normale”.
Stare
accanto ai nostri figli, anche e soprattutto quando vivono
situazioni di malessere legate all’identità di genere, significa riflettere,
ascoltare, verificare sempre alla luce del principio di precauzione, senza né
proclami né barricate. Purtroppo, sta cominciando ad accadere l’esatto
contrario. Ma si può rimediare.
Immagine: https://www.fondazionecharlie.org/img/disegno.jpg
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