DEL
MODELLO AMERICANO
Il neoministro dell’Istruzione e del Merito Valditara difende la nuova denominazione legandola al riscatto sociale. Ma nella meritocratica America ci vogliono 5 generazioni per passare dalla povertà alla classe media. Mentre nel Nord Europa del welfare ne bastano due, massimo tre.
Molti
si stanno chiedendo in questi giorni che cosa comporterà l’aggiunta della
parola «merito» nella denominazione del ministero dell’Istruzione oltre al
rifacimento della carta intestata. Il neoministro Giuseppe Valditara ieri ha
provato a spiegarlo. «La scuola – ha detto – deve, in primo luogo, saper
individuare, valorizzare e fare emergere i talenti e le capacità di ogni
persona, indipendentemente dalle sue condizioni di partenza, perché ciascun
giovane possa avere una opportunità nel proprio futuro». «Il merito - ha
aggiunto - è anzitutto un valore costituzionale, chiaramente affermato e
declinato dall’articolo 34 della Costituzione». E ha concluso: «E’ su questi
presupposti che lavoreremo per una scuola che torni a essere un vero ascensore
sociale e che non lasci indietro nessuno». Il merito, dunque, come leva
indispensabile per favorire l’emancipazione sociale e far ripartire l’ascensore
bloccato. Ma siamo sicuri che funzioni?
In
America che, a differenza dell’Italia, è un Paese che ha fatto del merito la
propria religione, da tempo ci si sta interrogando su cosa non abbia funzionato
se – nonostante ciò – anche da loro l’ascensore sociale si è bloccato e, stando
ai dati Ocse, ci vogliono in media 5 generazioni perché una famiglia povera
riesca a raggiungere il livello della classe media, mentre nei Paesi campioni
del welfare nordeuropeo (Danimarca, Finlandia, Norvegia e Svezia) ci vuole la
metà del tempo (due, massimo tre generazioni) . Di recente c’è chi – come il
professore di Harvard Michael J. Sandel – si è convinto che la favola bella del
merito per cui «chiunque può arrivare fin dove i suoi talenti glielo
permettono» sia una bugia bella e buona che serve solo a giustificare le sempre
maggiori diseguaglianze fra ricchi e poveri. Una narrazione bipartisan,
iniziata con Reagan e finita con Obama e Hillary Clinton che, enfatizzando
(anche giustamente) l’importanza degli studi fino ai più alti livelli, ha
finito per colpevolizzare chi – partendo da condizioni più sfavorevoli - si
ferma prima e deve accontentarsi di lavori più umili anche se socialmente
essenziali. E per giustificare un darwinismo sociale non molto diverso da
quello basato sulla semplice ricchezza. Spingendo i tanti, troppi «looser»
direttamente nelle braccia di Trump.
L’esempio
della meritocrazia americana dimostra che per garantire a «ciascun giovane
un’opportunità nel proprio futuro» non basta valorizzarne i talenti e le
capacità «indipendentemente» dalle sue condizioni di partenza. Al contrario:
bisogna farlo tenendo conto delle condizioni di partenza, perché per tagliare
uno stesso traguardo (scolastico e più tardi lavorativo) chi parte più indietro
deve fare più strada. Lo sapevano bene i costituenti quando, in quell’articolo
3 citato «nella lettera e nello spirito» dallo stesso Valditara, assegnarono
alla Repubblica «il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del
Paese». Una società è giusta quando riesce a garantire non solo che per un
determinato posto sia selezionato il candidato più meritevole, ma anche che il
figlio di un operaio abbia le stesse possibilità di diventare un ottimo
cardiologo del figlio di un medico. O almeno non trovi sulla propria strada
ostacoli insormontabili...
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