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giovedì 8 settembre 2022

IL SUICIDIO DI UN TREDICENNE


NON SERVONO SOLO PAROLE

 - di ERALDO  AFFINATI

 In questi giorni sto incontrando molti docenti in ogni parte d’Italia, alcuni giovani alle prime supplenze, altri veterani carichi d’esperienza, tutti impegnati in vista del nuovo anno scolastico e tutti consapevoli della cruciale responsabilità da affrontare.

Puntualmente decifro nei loro occhi una notevole apprensione, sia per quanto riguarda l’insegnamento delle singole discipline, sia rispetto al ruolo di educatori al quale sono chiamati. La rivoluzione digitale, resa più eclatante dopo la pandemia, richiederebbe una nuova pedagogia. Non sempre abbiamo gli strumenti appropriati. I ragazzi sembrano essere in balìa degli schermi, grandi e piccoli, vissuti quali realtà parallele in grado, al medesimo tempo, di elettrizzarli e distruggerli: una tragedia come quella del tredicenne di Gragnano, suicida con ogni probabilità vittima di una persecuzione ordita da un gruppo di coetanei fra i quali una ragazza poco più grande di lui, lo conferma appieno. Che gli adolescenti non siano degli stinchi di santo e anzi possano incarnare gli istinti più violenti della specie a cui apparteniamo non lo scopriamo certo ai nostri tempi. Basta andarsi a rileggere 'Il signore delle mosche' di William Golding, premio Nobel per la Letteratura nel 1983, per rendersene conto: la storia di alcuni scolari che in seguito a un incidente aereo, si ritrovano in un’isola deserta e fanno presto a trasformarsi in barbari pronti a uccidersi gli uni gli altri, andrebbe inserita come riferimento bibliografico essenziale in molti progetti contro il bullismo. Chiunque nutrisse soverchie illusioni a proposito dei fanciulletti innocenti e puri vada a sfogliarsi almeno 'I ragazzi terribili' che Jean Cocteau scrisse nel 1929.

Tredici anni, quanti ne aveva Alessandro, ragazzo esemplare senza apparenti problemi che pure non ha esitato a gettarsi dal terrazzo di casa forse incapace di reggere alla pressione che sui social e nella vita quotidiana gli infliggevano i suoi compagniucci, è l’età più affascinante e pericolosa, allo stesso tempo, il momento di massima espansione vitale, quando l’esistenza è un sole pronto a nascere e morire dentro di noi

ogni giorno: le emozioni vengono dilatate a dismisura, le idee sono spesso estreme e radicali, i comportamenti diventano prove spietate d’identità, le relazioni personali subiscono una continua drammatizzazione, nel bene e nel male. Se in quel frangente dello sviluppo umano le famiglie fanno un passo indietro, oppure non riescono a incidere, nelle personalità più fragili e sensibili può divampare la tempesta. È vero che l’adolescente cerca la vertigine, ne ha bisogno per conoscere se stesso, ma l’adulto consapevole deve riuscire a scoprire e gestire l’ansia che sprigiona dai ragazzi più inquieti indirizzandola verso un orizzonte di valori: non può farlo da solo, dovrebbe avere dietro un’istituzione in grado di legittimarlo. Un’agenzia che possa garantire e sostenere il suo intervento.

 Ecco perché il suicidio di Gragnano ci chiama in causa. Prima delle elezioni i rappresentanti di tutti i partiti fanno a gara nel mettere l’istruzione al primo posto nei loro programmi. Ma queste sono soltanto parole. Sappiamo poi come va a finire. Non basta elargire finanziamenti a pioggia per superare la povertà educativa. Senza contare che le cosiddette realtà degradate ci sono anche al centro, non solo in periferia, nel senso che i peggiori scarafaggi a volte possono nascondersi dentro i frutti più belli. Andrebbe fatto un lavoro di fondo, diciamo strutturale, individuando ruoli e funzioni in chiave preventiva. Alessandro avrebbe avuto bisogno di un supporto maggiore. Sono tanti i ragazzi come lui che si sentono persi, imprigionati, senza nessuno a cui chiedere aiuto. Sembrano forti, ma assomigliano a cuccioli feriti nella foresta che potrebbero essere sbranati dai predatori. Una politica degna di questo nome, nel segno della civiltà riparatrice, dovrebbe farsi carico della loro solitudine.

 www.avvenire.it

 

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