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domenica 28 agosto 2022

IL MAESTRO e IL PERDONO

 Senza perdono dell’altro 

non c’è maestro

 

- di  Fabrizio Foschi


Far rinascere l’altro con una mano tesa anche dentro gli errori: il perdono è tipico dell’atto educativo. Anzi è proprio del vero maestro

La questione del perdono, emersa al Meeting di Rimini, contiene potenzialità ancora tutte da esplorare. Ne hanno parlato diversi relatori, ma nessuno, forse, come monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo di Mosca. Ecco un frammento dell’intervento nell’incontro introduttivo della kermesse: “Ho consigliato a una ragazza ucraina di dire al suo giovane fratello, richiamato sotto le armi e partito giustamente per servire la Patria, di perdonare il suo ‘nemico’ per non portare con sé l’odio per tutta la vita e per non perdere l’occasione di vedere trasformato il ‘nemico’ in fratello”. Fine della citazione.

Riflessione immediata: in guerra si imbraccia il fucile non per zappare, ma per uccidere. Se uccidi un fratello, non è come se avessi ucciso un topo o un serpente. Finché uccidi dei nemici non vedi altro che ombre da eliminare; quando diventano fratelli, risuona in te il grido della carne che richiama a una unica e medesima appartenenza. L’altro non è uno sconosciuto, è della tua stessa famiglia, ha lo stesso tuo padre. Uccidersi tra fratelli è eliminare una parte di sé o ritrovare in sé le ragioni per non farlo ancora, in modo che la guerra possa avere termine.

Una simile prospettiva può non avere riscontri strategici, e infatti la guerra in Ucraina prosegue senza interruzioni di sorta. Non è nemmeno da tradurre banalmente come astratto pacifismo e arrendevolezza alla logica del più forte. Se la Patria chiama per motivi inoppugnabili, andare è un sacrosanto dovere, s’è detto. Qui si fa riferimento alla statura umana di chi, perdonando, riconosce di appartenere a un altro esercito, a un’altra Patria, a un’altra famiglia rispetto a quelle confezionate dalla logica degli Stati contrapposti.

Naturalmente il richiamo vale anche per chi ha invaso la terra altrui e che non sente se non appelli a distruggere senza guardare, chiudendo gli occhi e tappandosi gli orecchi. Il perdono ad ogni modo non è una tecnica, tantomeno un percorso di tipo psicologico per lenire il dolore. Non è un anestetico. È proprio un modo di vivere nella realtà di tutti i giorni. Dentro le circostanze positive o negative, nella buona e nella cattiva sorte. Il perdono è affermare che per vivere la mia umanità ho bisogno di riconoscermi insufficiente, bisognoso continuamente di ricevere, di essere riempito, di essere. Il perdono è tipico dell’atto educativo, quando dal piano dell’istruzione si passa a quello più comprensivo dell’educazione.

 I figli hanno bisogno di essere perdonati continuamente, proprio per ritrovare la dimensione dell’essere figli. Senza falsi cedimenti al sentimentalismo e senza confondere il perdono con il favoreggiamento. Anche gli alunni hanno bisogno di essere perdonati, cioè riconosciuti degni di essere guardati come persone o non come vasi da riempire. Il perdono è il vero esercizio del maestro, dell’adulto che insegna. Forse non è stato detto nella pedagogia tanto spesso, ma pensiamo quali armi abbia in mano l’insegnante, utili a fare esplodere l’altro fino ad annullarlo (umiliazione) o a farlo rinascere, perché ha una mano tesa di fronte a sé da afferrare per uscire dalle contraddizioni e da seguire anche dentro gli sbagli (perdono).

Nella scuola, nel rapporto con gli alunni il perdono non contempla comode mediazioni, non c’è e non ci può essere una “didattica del perdono”. Ci sono io insegnante, io adulto che perdono l’altro più giovane perché riconosco che è meno pieno di conoscenze di me (forse), ma certamente pieno come me di una sete di significato, ammettendo la quale, nel perdono reciproco, possiamo fare un tratto di strada. Magari non solo un tratto, ma tutta la strada insieme.

 

Il Sussidiario

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