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giovedì 31 marzo 2022

GUERRA E BAMBINI

Lo sguardo dei bambini e i disastri della guerra

 «Il bilancio ufficiale dei morti fra i piccoli ne conta 135, ma le cifre reali sono molto superiori. Scuole e asili colpiti. Queste distruzioni peseranno su di noi per 50 anni» Lo scrittore ucraino di lingua russa Andrej Kurkov ha già cambiato quattro case da quando si combatte. «Non ce ne andremo, è il nostro Paese Solo l’amore cura, ma per amare prima di tutto bisogna essere vivi»

 -         di EUGENIO GIANNETTA

 Una stessa parola, se pronunciata in contesti diversi, può stimolare immagini molto lontane tra loro. Leopoli, per esempio, pronunciata oggi fa pensare alla guerra in corso tra Russia e Ucraina, eppure al tempo stesso è stata una parola che faceva pensare un luogo magico, dove tutto poteva accadere, proprio come nella descrizione che ne fa lo scrittore ucraino Andrej Kurkov in Jimi Hendrix a Leopoli, che esce oggi per Keller (pagine 400, euro 18,50). Kurkov è nato a inizio anni 60 in un paese dell’area di Leningrado. Nel 1983 si è laureato all’Accademia pedagogica di lingue straniere di Kiev. È autore ucraino che scrive in russo, ha lavorato come giornalista e prestato servizio militare a Odessa, si è occupato e si occupa di cinema e romanzi per bambini, tradotti in decine di lingue. Attualmente vive in Ucraina, nascosto, spostandosi di luogo in luogo per sfuggire alla guerra: «Da quando siamo diventati rifugiati – ci ha detto – viviamo già nel quarto appartamento. Ora siamo con la mia famiglia nella casa di una donna sconosciuta, che ci ha dato le chiavi ed è andata a vivere con sua figlia. Siamo nell’Ucraina occidentale, a quaranta minuti di macchina dal confine con l’Ungheria. Ma non abbiamo intenzione di andare all’estero. Migliaia di rifugiati si sono già trasferiti in Europa. Ora le file ai valichi di frontiera sono più corte, ma molti ucraini sono rimasti qui in Ucraina occidentale e stanno aspettando l’opportunità di tornare a casa a Kiev, Vinnycja, Odessa e altre città».

In Jimi Hendrix a Leopoli lei parla di una città in cui i miracoli possono accadere, e tutto dipende dalla forza dell’amore, dall’immaginazione senza limiti, dalla musica immortale. Che città è Leopoli oggi? E che città potrà essere una volta finita questa guerra?

Leopoli è una città magica, con un grande centro storico medievale. Dall’inizio della guerra la città è certamente cambiata. Ora ha tre volte la popolazione. Rifugiati da tutta l’Ucraina sono venuti qui e vivono nei dormitori universitari, negli alberghi, con i residenti locali. Recentemente, un rifugiato ha scritto su Facebook che non aveva mai visto così tanti ucraini famosi in una città e in un solo posto. Tutti sono attratti dal centro storico. In tempi normali, migliaia di turisti stranieri vi camminano, ma ora sono stati sostituiti da rifugiati provenienti da tutte le regioni dell’Ucraina.

C’è una famosa citazione di Hendrix che tradotta fa più o meno così: «Quando il potere dell’amore supererà l’amore per il potere, il mondo allora conoscerà la pace». Lei nel libro scrive: «Fate l’amore, non la guerra! La cosa importante nella vita è l’amore». Sarà sufficiente l’amore per contrastare questo conflitto?

 Quando coloro per i quali l’amore e – semplicemente – la vita non hanno alcuna importanza, combattono contro l’amore, è molto difficile mantenere vivo l’amore. Per amare bisogna prima di tutto essere vivi. Putin ora sta cercando di togliere all’Ucraina non l’amore, ma la vita stessa. Pertanto, in una tale situazione, l’amore è impotente. Può rimanere solo un ricordo.

C’è un’altra frase nel suo libro che dice: «Si può sentire la felicità barcollare lungo la strada ». È questa la situazione oggi? Per quanto tempo sarà ancora così, con una felicità claudicante?

È difficile per me dire per quanto tempo continuerà questa guerra. Finché Putin è vivo, combatterà. Non ha più niente nella sua vita. Le vite dei soldati russi non sono importanti per lui, l’economia russa distrutta dalle sanzioni non è importante. Vuole rimanere nella storia russa come l’uomo che ha fatto rivivere l’Unione Sovietica e ha riconquistato le sue ex repubbliche. Questo non accadrà.

Lei è laureato in un’accademia pedagogica e ha scritto numerosi libri per bambini. Questa è anche la guerra dei bambini. Secondo un recente rapporto di Save The Children, 1 bambino su 5 ha dovuto lasciare il paese, 6 milioni sono intrappolati all’interno, in grave pericolo a causa dell’aumento degli attacchi alle strutture civili. Più di 460 scuole e 43 ospedali sono stati colpiti. Alcune immagini satellitari hanno mostrato la scritta 'bambini' in un cortile bombardato dai russi. 109 passeggini vuoti sono stati esposti a Leopoli per denunciare un massacro di bambini. Come commenta tutto questo? Quale sarà l’impatto della guerra sullo sviluppo dei bambini?

Mentre scrivo queste righe, ufficialmente ci sono già stati 135 bambini uccisi, mentre le cifre reali sono diverse volte superiori. L’educazione dei bambini è già stata colpita dalla pandemia del coronavirus. Ora soffrirà ancora di più a causa della guerra, a causa delle scuole e degli asili distrutti. Penso che le conseguenze di questa guerra si faranno sentire tra 50 anni. Ma allo stesso tempo, credo che queste difficoltà motiveranno molti bambini a istruirsi.

Nel libro lei scrive: «È ancora viva la gloria dell’Ucraina, la sua libertà». Il coraggio ucraino in questi giorni di conflitto sta stupendo il mondo. La libertà, anche tramite la letteratura, è ancora viva? Pensa che da questo conflitto nascerà una corrente di letteratura militante?

Dal 2014 l’Ucraina ha due letterature: quella tradizionale, scritta dagli scrittori, e quella militare, scritta dai veterani della guerra nel Donbass. Più di 300 libri sono già stati scritti e pubblicati su quella guerra. Tutta la letteratura ucraina, anche i romanzi d’amore e non di guerra, è diventata più militante, più politicizzata. Non credo ci sarà un ritorno alla tradizionale letteratura romantica e apolitica.

Quali sono le sue speranze per il futuro? Cosa può fare ora l’Europa?

L’Europa ha ignorato per troppo tempo la politica di Putin verso i vicini della Russia. Ora, finalmente, l’Europa si è svegliata e ha espresso solidarietà al popolo ucraino. Spero che questa solidarietà non sparisca quando la guerra sarà finita. Spero che l’Europa non lasci l’Ucraina da sola con i problemi che la Russia le ha creato. Il mio sogno è che l’Ucraina diventi membro dell’Unione Europea e che finalmente sconfigga sia la corruzione che gli altri problemi che hanno reso l’Unione Europea così cauta sulle prospettive europee dell’Ucraina prima della guerra.

 www.avvenire.it

 

 

 

mercoledì 30 marzo 2022

RAPPORTO AMNESTY: PIU' CONFLITTI e MENO DIRITTI


Il nuovo rapporto

 di Amnesty

Il Rapporto 2021-2022 di Amnesty International, pubblicato in Italia da Infinito Edizioni, contiene un’introduzione della segretaria generale Agnès Callamard, cinque panoramiche regionali e schede su 154 Stati e territori. Tra i temi principali la pandemia di Covid-19, il razzismo, la lotta alle disuguaglianze e la cura del Creato. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: "La mancata equa distribuzione dei vaccini è un segnale tanto drammatico quanto inequivocabile"

 -         di Andrea De Angelis - Città del Vaticano

 Anche quest’anno, mantenendo una tradizione che va avanti dagli anni Ottanta, Amnesty International Italia pubblica il Rapporto sulla situazione dei diritti umani nel mondo. L’edizione di quest’anno, arricchita da un’introduzione della segretaria generale di Amnesty International Agnès Callamard, contiene cinque panoramiche regionali e schede di approfondimento su 154 Paesi. Oltre al volume, una serie di infografiche presenta le principali tendenze globali. L’edizione 2021-2022 del Rapporto di Amnesty International è a cura di Infinito Edizioni.

Aumentano i conflitti

L'aumento dei conflitti nel mondo è il dato centrale del nuovo rapporto. Nel 2021 la comunità internazionale non è riuscita ad affrontare il moltiplicarsi di gravi conflitti che ha generato ulteriori instabilità e devastazioni di cui milioni di civili nel mondo hanno pagato il prezzo più alto. Di questa tragica "mappa" fanno parte Afghanistan, Myanmar, Yemen, Burkina Faso, Libia, Israele e Territori palestinesi, oltre ovviamente alla Siria. Tra le quattro crisi che maggiormente preoccupano Amnesty International ci sono i due colpi di stato perpetrati in Asia, indietreggiata in materia di diritti umani. In Myanmar quasi duemila manifestanti sono stati uccisi e i conflitti interetnici sono nuovamente esplosi da quando la giunta militare ha ripreso il potere con un golpe, il primo febbraio 2021, macchiandosi di crimini contro l'umanità. In Afghanistan lo scorso agosto i talebani sono tornati al potere e "da allora - sottolinea Amnesty - è caccia all'uomo e soprattutto alla donna, a chi per 20 anni ha lottato in difesa dei diritti, con blogger, giornalisti, attivisti inseriti nella lista nera: un vero ritorno al medioevo".

La situazione in Africa

Spostandosi in Africa, Amnesty ha citato la guerra in Etiopia, nel Tigray, la violenza inaudita dei gruppi armati tigrini sulle donne e ragazze della regione Amhara, con il ricorso allo stupro come arma di guerra e vendetta, oltre all'incursione delle forze armate dell'Eritrea e ai 5 milioni di persone affamate senza che gli aiuti riescano a raggiungerle. Guardando all'anno da poco iniziato, l'attenzione è rivolta al Sahel dove la crisi si sta espandendo anche a livello geografico per la minaccia combinata dei gruppi armati jihadisti, la debolezza o l'assenza di Stato e la presenza di forze straniere, in un contesto di siccità e scarso accesso a cibo e vaccini. Per parte dell'Africa c'e' anche da temere una crisi alimentare di grande entità come conseguenza della guerra tra Russia e Ucraina, i due Paesi 'granai' del continente. In questa prospettiva Amnesty teme misure repressive da parte di alcuni governi, Tunisia in primis, per arginare possibili crisi del pane, oltre ad una diffusa carestia e malnutrizione.

Medio Oriente e Bielorussia

In Medio Oriente l'attenzione di Amnesty International è focalizzata sulla drammatica situazione in Egitto, dove sono 60 mila i prigionieri di opinione, oltre alla vicenda giudiziaria di Patrick Zaky. Critiche anche ad Israele, per quella che Amnesty definisce una politica di espansione degli insediamenti illegali. Particolarmente preoccupante la situazione dei diritti umani in Iran, dove la detenzione di cittadini europei viene utilizzata a scopo diplomatico e per trarne altri vantaggi. Iran, Egitto, Arabia Saudita sono inoltre i Paesi che totalizzano il maggior numero di condanne a morte. In Europa centro-orientale, Amnesty International ha deplorato la repressione sempre più dura in atto in Russia ai danni di oppositori, giornalisti e società civile, ridotta al silenzio. In Bielorussia, invece, "più che une repressione di stato, siamo di fronte ad un'impresa criminale" in atto dopo l'elezione contestata di Aleksandr Lukashenko, con più di mille prigionieri di coscienza. La Bielorussia è accusata da Amnesty anche per la vicenda dei migranti bloccati al confine con la Polonia in condizioni disumane e in palese violazione dei diritti umani. "Questa è stata una delle pagine piu' buie della storia recente dei diritti umani sul nostro continente" si legge nel rapporto.

L'America Latina

Il Rapporto 2021/2022 di Amnesty International sottolinea infine come l'America Latina si confermi la regione più pericolosa del mondo, con ben 252 difensori dei diritti umani uccisi, di cui 138 solo in Colombia. Oltre la metà, dunque, del totale. In evidenza anche la situazione del Messico, Paese dove nell'ultimo anno sono stati denunciati oltre mille femminicidi. Sia Cuba che il Nicaragua sono stati poi teatro di ingenti proteste represse con violenza e con decine di arresti arbitrari e condanne ad oppositori.

L'Oms lancia l'allarme sull'equa distribuzione dei vaccini

"Il 2020 è stato l'anno della disperata ricerca di una soluzione alla pandemia, trovata nel 2021 grazie ai vaccini, ma gli Stati ricchi e le grandi aziende farmaceutiche hanno compromesso l'uscita dal tunnel". Lo afferma Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, sottolineando come nei Paesi a basso e medio-basso reddito solo l''8% della popolazione è stata vaccinata.

"Ancora una volta - prosegue - nel rispondere a una crisi sanitaria, i profitti sono venuti prima delle vite umane". Una mancata consapevolezza dell'urgenza di una risposta globale o il prevalere di interessi economici? "C'è la volontà di far prevalere interessi di parte, legati alla nazione, lasciando indietro gli altri. Da questo punto di vista il 2021 è stata un'occasione persa e non usciremo dalla pandemia finché i vaccini non saranno distribuiti in modo equo. L'obiettivo era e rimane questo, ma risulta essere ancora lontano".

Le discriminazioni razziali

Il 21 marzo si è celebrata la Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale. Una ricorrenza che, in tempo di pandemia e con più di una guerra in corso - l'Ucraina, ma si pensi anche a Etiopia, Siria e Yemen - assume un significato particolare. Su questa battaglia di civiltà Amnesty International è stata, anche lo scorso anno, in prima linea. "Il rischio di considerare questo problema di secondo piano è concreto, lo registriamo in numerosi Paesi dove ci sono rifugiati meritevoli di protezione ed altri da allontanare. Proprio la guerra in Ucraina ha dimostrato che un modello di accoglienza diverso è possibile, ma lo scorso anno non lo abbiamo visto all'opera". Inoltre "la pandemia ha reso fragili tutta una serie di diritti, tra questi c'è - sottolinea - anche il superamento della discriminazione, della violenza fisica e verbale, con un uso eccessivo della forza verso determinati gruppi".

Nel segno di una ecologia integrale

Lo scorso autunno la cura del Creato è stata al centro della cronaca internazionale grazie alla Cop26 di Glasgow. Oggi, però, le questioni ambientali sembrano essere finite di nuove lontane dai riflettori. "Questo è il problema dei problemi che resterà - ammonisce Noury - anche quando la pandemia sarà terminata". Nel 2021 sono stati numerosi i drammi legati ai cambiamenti climatici, "esempio - spiega - di come a pagarne il prezzo più alto siano coloro che hanno meno colpe". Il pensiero di Noury va alla siccità che ha interessato un milione e mezzo di persone in Madagascar. "Glasgow è stata l'ennesima occasione persa per fare qualcosa di buono", rimarca.

La voce delle popolazioni

Amnesty International sottolinea come siano aumentate le proteste di massa, nelle piazze così come in rete, delle persone di ogni continente. Manifestazioni importanti si sono registrate in almeno 80 Paesi. "Il cambiamento senza una pressione dal basso non arriverà mai, non possiamo pensare che ci penseranno i governi in modo filantropico o progressista. Il 2021 è stato un anno di grande attivismo, questo ha fatto la differenza - conclude - in diversi casi, penso ad esempio a quanto accaduto ed ancora in corso in Cile. Questo ci dice che senza la partecipazione popolare continueranno le politiche di esclusione e di egoismo".

Vatican News

 RAPPORTO 2020-21



CONCORSO SCUOLA. PROBLEMI E POSPETTIVE

 


CONCORSO SCUOLA 

PER IL MINISTRO BIANCHI

 È INADEGUATO

«Il concorso ordinario per i docenti è inadeguato, un’eredità del passato»: sorprendono e non poco le parole del Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, in forte polemica contro quel concorso rimasto “congelato” per due anni dopo l’indizione della ex titolare del Miur Lucia Azzolina.

 Commentando con i giornalisti a margine di un evento, il Ministro Bianchi non nasconde la sua contrarierà ad un concorso entrato in fortissima polemica da sindacati e insegnanti, specie dopo quel 90% di bocciati alle prove scritte che ha fatto letteralmente inviperire docenti in ogni parte d’Italia (che già attendevano da anni questo concorso per la scuola secondaria). «Il concorso lo abbiamo ereditato dal passato», prosegue Bianchi di fatto contestando l’operato di Azzolina, «il governo esegue impegni assunti in precedenza, che vanno onorati, ma con una modalità di organizzazione delle prove che si è dimostrata non adeguata». Il concorso definito dai sindacati come un «terno al lotto» sarà l’ultimo di questo genere, promette il Ministro Miur, «era l’ultimo passaggio di una storia precedente che ha dimostrato tutti i limiti, non c’è alcun dubbio».

Si va verso infatti concorsi scuola annuali, come del resto già annunciato nei mesi scorsi dal Premier Mario Draghi. «Il governo sta andando verso concorsi annuali avendo ben chiaro quanti sono i posti vacanti disponibili in ogni area. L’obiettivo è trovare la maniera per permettere a tutti di trovare il proprio percorso di vita. Dobbiamo andare verso meccanismi per cui il passaggio allo Stato e al settore paritario deve essere considerato come una tappa della vita, ma non il destino finale», sottolinea il Ministro dell’Istruzione.

Bianchi infine rileva il problema della formazione continua: «Si insegnano delle attività che sono sottoposte a cambiamenti rapidissimi, molto più rapidi dei cambiamenti della scuola: dobbiamo impostare una formazione continua dei docenti». A stretto giro arriva la risposta al veleno della ex Ministra Miur Lucia Azzolina, per nulla soddisfatta delle parole usate dal suo successore in Viale Trastevere: «Veramente stupita, sono parole molto avventate. Spero si tratti di una svista, altrimenti vuol dire che il Ministro firma atti a sua insaputa». La nota della deputata M5s va anche oltre ed entra nel dettaglio del concorso scuola tanto vituperato: «Nel 2020 abbiamo bandito un concorso a cui hanno fatto domanda 500 mila persone, in gran parte giovani e giovanissimi, che avrebbero dovuto confrontarsi con due prove scritte a risposta aperta. Allo stesso modo, anche per il concorso straordinario avevamo previsto una prova scritta eliminando proprio il quiz. Poi, però, col decreto 73 del maggio 2021 e gli atti attuativi del dicastero guidato da Bianchi, si è passati al quiz per tutti. Anche il concorso Stem, sempre a crocette, è stato bandito dal suo Ministero. Tutte scelte che si sono rivelate sbagliate». Chiosando con presa di posizione netta contro Bianchi, Azzolina contesta come oggi il Ministro dell’Istruzione «invece di provare ad allontanare le sue responsabilità venga presto a renderne conto in Parlamento, magari insieme al pasticcio sul rientro di docenti e ata non vaccinati a scuola».

 Il Sussidiario

martedì 29 marzo 2022

EDUCARE E' DARE SPERANZA AL PRESENTE

 Pubblicata oggi l’istruzione della Congregazione per l’Educazione cattolica: l'importanza di un Patto Educativo Globale, il dialogo tra ragione e fede, la collaborazione tra scuola e famiglie

 

-Isabella Piro - Città del Vaticano

 - Educare è una passione che si rinnova sempre: parte da questo principîo l’istruzione della Congregazione per l’Educazione cattolica diffusa oggi e intitolata "L’identità della scuola cattolica per una cultura del dialogo". Uno strumento sintetico e pratico basato su due motivazioni: "La necessità di una più chiara consapevolezza e consistenza dell’identità cattolica delle istituzioni educative della Chiesa in tutto il mondo" e la prevenzione di "conflitti e divisioni nel settore essenziale dell’educazione".

L’importanza di un Patto educativo globale

Suddiviso in tre parti, il documento analizza la missione evangelizzatrice della Chiesa come madre e maestra; si sofferma sui vari soggetti che operano nel mondo scolastico e analizza alcuni punti di criticità, nel contesto del mondo globalizzato e multiculturale contemporaneo. Se triplice è la struttura, unico tuttavia è l’orizzonte dell’Istruzione, ovvero quel Patto educativo globale fortemente voluto da Papa Francesco, affinché la Chiesa, forte e unita nel campo della formazione, possa portare avanti la sua missione evangelizzatrice e contribuire alla costruzione di un mondo più fraterno.

La Chiesa è madre e maestra

Nella prima parte del documento, intitolata "Le scuole cattoliche nella missione della Chiesa", si sottolinea che la Chiesa è "madre e maestra": la sua azione educativa, dunque, non è "un’opera filantropica", bensì parte essenziale della sua missione, basata su determinati principî fondamentali: il diritto universale alla formazione; la responsabilità di tutti — in primo luogo dei genitori che hanno il diritto di compiere in piena libertà e secondo coscienza le scelte educative per i loro figli, e poi dello Stato che ha il dovere di rendere possibili differenti opzioni educative nell’ambito della legge — il dovere di educare, precipuo della Chiesa, nel quale si intrecciano evangelizzazione e promozione umana integrale; la formazione iniziale e permanente degli insegnanti, affinché siano testimoni di Cristo; la collaborazione tra genitori e docenti e tra scuole cattoliche e non cattoliche; il concetto di scuola cattolica come "comunità" permeata dello spirito evangelico di libertà e carità, che forma e apre alla solidarietà. In un mondo multiculturale, inoltre, si ricorda anche "una positiva e prudente educazione sessuale", elemento non trascurabile che gli studenti devono ricevere, man mano che crescono.

Il dialogo tra ragione e fede

Radicata su principî evangelici che sono, al contempo, "norme educative, motivazioni interiori e insieme mete finali", la scuola cattolica — sottolinea l’Istruzione — è quella che pone Gesù Cristo al centro della concezione della realtà e pratica il dialogo tra ragione e fede per aprirsi alla verità e "dare risposta ai più profondi interrogativi dell’animo umano che non riguardano soltanto la realtà immanente". Aperta a tutti, in particolare ai più deboli nell’ottica di "una profonda carità educativa", la scuola cattolica ha bisogno di educatori, laici e consacrati, che siano "competenti, convinti e coerenti, maestri di sapere e di vita, icone imperfette, ma non sbiadite dell’unico Maestro". Professionalità e vocazione, quindi, dovranno andare di pari passo per insegnare ai giovani la giustizia, la solidarietà e, soprattutto, "la promozione di un dialogo che favorisca una società pacifica". Ciò è quanto mai importante oggi, dato che "la scuola cattolica si trova in una situazione missionaria anche in Paesi di antica tradizione cristiana" e quindi la sua testimonianza deve essere "visibile, incontrabile e consapevole". Soggetto ecclesiale che mette in pratica "la grammatica del dialogo", gli istituti formativi cattolici diventano così "una comunità educativa" in cui si respira, con fiducia, l’autentica concordia e la convivialità delle differenze.

L’educazione alla cultura della cura

Ma non solo: la missione educativa della Chiesa rientra in un progetto pastorale più ampio, quello dell’essere “in uscita” e “in movimento”. Quest’ultimo sarà "di squadra, ecologico, inclusivo e pacificatore", ovvero partirà dalla collaborazione di ciascuno; contribuirà all’equilibrio con il sé, con gli altri, con il Creato e con Dio; includerà tutti e genererà armonia e pace. La scuola cattolica ha anche il compito di educare alla "cultura della cura", per veicolare quei valori fondati sul riconoscimento della dignità di ogni persona, comunità, lingua, etnia, religione, popoli e di tutti i diritti fondamentali che ne derivano. Vera e propria "bussola" della società — conclude la prima parte dell’Istruzione —, la cultura della cura forma persone dedite all’ascolto, al dialogo costruttivo e alla mutua comprensione.

La promozione dell’identità cattolica

La seconda parte del documento è dedicata, invece a "I soggetti responsabili per la promozione e la verifica dell’identità cattolica". Partendo dal presupposto secondo il quale "tutti hanno l’obbligo di riconoscere, rispettare e testimoniare l’identità cattolica della scuola, esposta ufficialmente nel progetto formativo", si sottolinea l’importanza di proteggerne principi e valori, anche con "la coerente sanzione di trasgressione e di delitti, applicando rigorosamente le norme del diritto canonico, nonché del diritto civile".

Gli alunni, soggetti attivi del processo educativo

Gli alunni, si aggiunge poi, sono "soggetti attivi del processo educativo": vanno quindi sia responsabilizzati a seguire il programma, sia guidati a "guardare oltre l’orizzonte limitato delle realtà umane", realizzando la sintesi tra fede e cultura. Al contempo, si ricorda che "i primi soggetti responsabili dell’educazione sono i genitori, ai quali spetta il diritto-obbligo morale di educare la prole", con i mezzi e le istituzioni scelti liberamente e secondo coscienza, e in stretta cooperazione con i docenti. Questi ultimi, dal canto loro, con professionalità e testimonianza di vita, devono garantire alla scuola cattolica la realizzazione del suo progetto formativo. A tal proposito, il documento sottolinea che spetta alla scuola stessa, seguendo la dottrina della Chiesa, "interpretare e stabilire i parametri necessari per l’assunzione" del personale che deve distinguersi per "retta dottrina e probità di vita". Se una persona assunta non si attiene a tali principî, si legge nell’Istruzione, la scuola dovrà prendere "misure appropriate", tra cui anche le dimissioni.

I compiti dei dirigenti scolastici e dei vescovi diocesani

Ampio spazio viene dedicato anche ai dirigenti scolastici: veri e propri leader educativi, essi hanno una missione ecclesiale e pastorale basata sulla collaborazione con l’intera comunità scolastica, sul dialogo con i pastori della Chiesa e sulla promozione e la tutela del legame con la comunità cattolica. Quindi, l’Istruzione analizza i compiti del vescovo diocesano/eparchiale: ad esempio, a lui spetta "il necessario discernimento e riconoscimento delle istituzioni scolastiche fondate dai fedeli", nonché l’esplicito consenso scritto per la fondazione di scuole cattoliche. Suo diritto-obbligo, inoltre, è quello di vigilare sull’applicazione delle norme del diritto universale nei centri educativi cattolici; dare ad essi disposizioni generali; visitare almeno ogni cinque anni quelli che si trovano all’interno del suo territorio diocesano; provvedere nel caso in cui si verifichino fatti contrari alla dottrina, alla morale o alla disciplina ecclesiale. Tali provvedimenti andranno presi o avvertendo i responsabili delle scuole, affinché intervengano, o agendo in prima persona nei casi più gravi o urgenti o ricorrendo alla Congregazione per l’Educazione cattolica.

Il dialogo costante con la comunità

Tra gli alti compiti del vescovo diocesano/eparchiale c’è quello di nominare o approvare i docenti di religione, nonché di rimuovere o chiedere che un insegnante venga rimosso se non sussistono più le condizioni della sua nomina, "rispettando sempre il diritto di difesa" del docente, anche con l’aiuto di un avvocato formato in diritto canonico. Infine, i presuli dovranno mantenere un dialogo costante con l’intera comunità scolastica, affinché i problemi possano essere risolti "nello scambio reciproco e nella conversazione fiduciosa». Lo stesso dovranno fare le Conferenze episcopali, il Sinodo dei vescovi o il Consiglio dei gerarchi, ai quali spetta l’emanazione di norme generali in materia di istruzione e, in particolare, di educazione religiosa. Agli stessi organismi, conclude la seconda parte del documento, si raccomanda di creare un’apposita Commissione per istituire un fondo economico che aiuti il mantenimento e lo sviluppo delle scuole cattoliche, soprattutto quelle che si trovano nel bisogno.

La scuola cattolica non sia un’isola

La terza parte dell’Istruzione, intitolata "Alcuni punti critici", analizza in primo luogo le divergenze nell’interpretazione della qualifica di “cattolica” per una scuola. Tale interpretazione può essere riduttiva, ossia limitata solo ad alcuni ambiti o alcune persone (ad esempio, gli insegnati di religione o il cappellano scolastico), ma può essere anche troppo vaga, ossia centrata sul mero "spirito cattolico" e non tenere conto della necessaria applicazione delle norme canoniche e dell’autorità gerarchica. Un’altra interpretazione errata è quella che vede nelle scuole cattoliche un modello chiuso, in cui non c’è spazio per chi non è “totalmente” cattolico. Contro questo atteggiamento, l’Istruzione mette in guardia, richiamando il modello della “Chiesa in uscita”: "Non bisogna perdere lo slancio missionario per chiudersi in un’isola — si legge nel documento — e allo stesso tempo occorre il coraggio di testimoniare una 'cultura' cattolica cioè universale, coltivando la sana consapevolezza della propria identità cristiana".

Occorre chiarezza di competenze e legislazioni

Altro punto focale rilevato dal documento è quello della necessaria chiarezza di competenze e legislazioni: il principio di sussidiarietà, che "si fonda sulla responsabilità di ciascuno davanti a Dio e distingue la diversità e la complementarietà delle competenze", nonché gli Statuti aggiornati e non troppo rigidi aiutano a dirimere tensioni che possono nascere in tale ambito. Le Conferenze episcopali, il Sinodo dei vescovi o il Consiglio dei gerarchi, inoltre, dovranno prevedere, nei Regolamenti nazionali e negli Statuti, gli elementi necessari per superare i conflitti che possono derivare dal doppio inquadramento normativo (canonico e statale-civile) delle scuole cattoliche. Può accadere, infatti, che lo Stato imponga a istituzioni cattoliche pubbliche "comportamenti non consoni" alla credibilità dottrinale e disciplinare della Chiesa, oppure scelte in contrasto con la libertà religiosa e la stessa identità cattolica di una scuola. In tal caso, si raccomanda "una ragionevole azione di difesa dei diritti dei cattolici e delle loro scuole, sia attraverso il dialogo con le autorità statali, sia mediante il ricorso ai tribunali competenti".

I codici di comportamento

Al contempo, si richiama l’importanza del diritto canonico, che garantisce la comunione tra le parti coinvolte nella missione educativa, ponendosi come un vero e proprio "argine allo scandalo della rottura dell’unità interna della Chiesa", nonché all’esposizione dei conflitti presso i tribunali stati e i mass media. Sempre in nome della chiarezza, si richiede poi alle scuole cattoliche di munirsi di una dichiarazione della propria missione, oppure di un codice di comportamento, strumenti per la garanzia della qualità istituzionale e professionale. Anche in quei Paesi in cui la legge civile esclude "una discriminazione a causa della religione, dell’orientamento sessuale o di altri aspetti della vita privata", l’Istruzione ricorda che "viene riconosciuta alle istituzioni educative la possibilità di munirsi di un profilo di valori e di un codice di comportamenti da rispettare". Se ciò non avviene, dunque, i soggetti interessati possono essere sanzionati, in quanto non adempienti ai vincoli contrattuali.

La costruzione dell’unità

Quanto al problema della chiusura di una scuola cattolica per difficoltà di gestione, l’Istruzione sottolinea che la vendita o il trasferimento a enti distanti dai principî dell’educazione cattolica per creare utili economici non sono una soluzione. Piuttosto, sarà responsabilità del vescovo valutare ogni possibile alternativa per "salvaguardare la continuità del servizio educativo". In generale, comunque, nell’ottica della risoluzione dei conflitti all’interno della comunità educativa, si raccomanda la costruzione dell’unità, basata su alcuni elementi fondamentali: una comunicazione inclusiva e permanente che non sia sostituita da mass-media estranei o dall’opinione pubblica; la generazione di processi di sviluppo in grado di avviare una dinamica positiva; un profondo discernimento che metta insieme "la dimensione umana, spirituale, giuridica, soggettiva e pragmatica" ed eviti "dichiarazione affrettate" che possono provocare "un grave danno oggettivo per tutta la Chiesa e la sua missione"; l’esercizio della prudenza, affinché ogni eventuale soluzione sia considerata "in una prospettiva di lunga durata".

Educare è dare speranza al presente

Il documento si conclude sottolineando che le scuole cattoliche «costituiscono un contributo molto valido all’evangelizzazione della cultura, anche nei Paesi e nelle città dove una situazione avversa stimola ad usare la creatività per trovare percorsi adeguati», perché, come dice Papa Francesco, «educare è dare al presente la speranza».

Vatican News

 Testo in lingua italiana



domenica 27 marzo 2022

GLI CORSE INCONTRO

 

 -         IV domenica di Quaresima. Anno C -

 + Dal Vangelo secondo Luca - 

Lc 15, 1-3. 11-32

 In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

 Commento di Paolo Scquizzato  

L’Amore ama le storture, le storie sbagliate, gli uomini usciti di strada, gli imbrattati nel brago dei porci.

L’Amore ama far festa per coloro che si son sempre ritenuti inadeguati, fuori luogo, persi.

La gioia del Dio di Gesù di Nazareth, non dipende dal comportamento dei figli, ma che questi sperimentino qual è il comportamento del Padre nei loro confronti: «questa è la vita eterna [ossia la felicità piena] che conoscano te», ricorda Gesù rivolgendosi a suo Padre (Gv 17, 3).

Abbiamo identificato la santità con un ‘migliorismo’ morale, con il farcela a tutti i costi. Abbiamo creduto che lo scopo del cristianesimo fosse far felice Dio col proprio comportamento etico. Abbiamo ridotto la confessione ad un’accusa del dislivello tra ‘ciò che avrei dovuto essere e ciò che mi ritrovo a vivere’, quando il vangelo ricorda che la salvezza altro non è che perdersi nell’abbraccio di un Amore che versa su me il balsamo che guarisce le ferite del mio vagabondare aprendomi così ad un futuro di fecondità. Solo questo abbraccio produrrà vita, gioia, trasformazione interiore, mentre l’accusa continua (e frustrante) del dislivello tra il dovere e la realtà delle nostre miserie, genererà solo sensi di colpa e tristezza mortale.

Dio non nutre aspettative su di noi, perché l’amore non s’aspetta nulla dall’amato, come un buon genitore non dovrebbe attendersi nulla dai figli: «Il vero amore per i figli dev’essere a favore dei figli, svincolato da qualsiasi aspettativa nei loro confronti. Questa è una debolezza dei genitori: la si potrebbe definire il loro destino» (Etti Hillesum, Diario).

«Questo tuo fratello era morto» (v. 32) dice il Padre al fratello maggiore. Ma ora è tornato a vivere – è risorto – perché ha accettato di perdersi nell’abbraccio amoroso.

Non avendo mai veduto cadaveri tornati in vita, per me credere alla risurrezione significa credere alla potenza del perdono donato a chi ha sbagliato nei miei confronti.

Perdonare non significa né amnistia né amnesia, ma dono perché l’altro possa tornare a vivere, aprendolo così a un futuro che ha il sapore di rinascita.

Perdonare per me significa concedere all’altro il miracolo di ricominciare, di rialzarsi dalle proprie ceneri, per poi sperimentare che il primo a volare sono proprio io.


 


sabato 26 marzo 2022

GLI ARMAMENTI DEL PAPA


Il papa contro

 la corsa agli armamenti

-di Giuseppe Savagnone *

La dura posizione di papa Francesco contro gli Stati, compresa l’Italia, che, in risposta al conflitto russo ucraino, hanno annunciato di voler spendere il 2% del Pil per l’acquisto di armi, non viene riportata in prima pagina dalla maggior parte dei grandi quotidiani italiani, probabilmente perché l’hanno ritenuta imbarazzante.

«Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2 per cento del Pil per l’acquisto di armi come risposta a questo che sta accadendo, pazzi!», ha detto il pontefice ricevendo in udienza le partecipanti a un convegno del Centro Femminile Italiano. «La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione. Parlo di un modo diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti».

Un modo, ha precisato, che non sia «il frutto della vecchia logica di potere che ancora domina la cosiddetta geopolitica» – che è il «potere economico-tecnocratico-militare» – , in base a cui «si continua a governare il mondo come uno “scacchiere”, dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri». Parole decisamente controcorrente, rispetto alla linea della maggior parte degli Stati, incluso il nostro.

Solo pochi giorni fa la Camera ha approvato a larga maggioranza l’odg proposto dalla Lega che impegna il governo a portare dall’1,5% al 2% del Pil (cioè da 25 a 38 miliardi di euro l’anno) le spese militari entro il 2024. Parole che non corrispondono certamente ai canoni del “politically correct”, ma, forse proprio per questo, ci costringono a porci delle domande, in un momento in cui sembra che la corsa a «mostrare i denti», come dice il papa, non dia più il tempo per farsene.

Il punto di vista di Francesco si comprende meglio alla luce di quanto ha detto, pochi giorni fa, parlando a una associazione di volontariato che opera per combattere la sete nel mondo, soprattutto in Africa: «Perché non unire le nostre forze e le nostre risorse per combattere insieme le vere battaglie di civiltà: la lotta contro la fame e contro la sete, la lotta contro le malattie e le epidemie, la lotta contro la povertà e le schiavitù di oggi. Perché? Certe scelte non sono neutrali: destinare gran parte della spesa alle armi, vuol dire toglierla ad altro, che significa continuare a toglierla ancora una volta a chi manca del necessario (…). Quanto si spende per le armi: terribile! (…). Spendere in armi, sporca l’anima, sporca il cuore, sporca l’umanità».

Quale pacifismo?

Non si tratta, qui, di collocare tutti sullo stesso piano, mantenendo un’assurda equidistanza tra chi scatena la guerra e chi la subisce, perché è aggredito, come vorrebbe un certo pacifismo oggi abbastanza diffuso. E neppure si tratta di mettere in discussione il diritto dell’Ucraina a difendersi da un’invasione che ne minaccia la libertà e che sta provocando al suo popolo immani sofferenze umane e spaventose distruzioni materiali.

 

Non risulta che il papa, nella telefonata di solidarietà fatta a Zelens’kyi pochi giorni fa, gli abbia chiesto di arrendersi ai russi. Peraltro, le parole del pontefice non riguardavano neppure l’opportunità o meno dell’invio di armi al governo ucraino, per consentirgli di resistere – come sta facendo – a un esercito nemico numericamente superiore. Anche l’esplicito rifiuto, da parte di Francesco, dell’idea di “guerra giusta” – «Una guerra sempre, sempre, è la sconfitta dell’umanità. Non esistono le guerre giuste, non esistono» – va calibrato con la sua richiesta alla comunità internazionale di intervenire per fermare la strage di civili in Iraq e in Siria, nel 2014: «Dove c’è un’aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto – sottolineo il verbo, dico “fermare”, non bombardare o fare la guerra».

E ha ribadito: «fermare l’aggressione ingiusto è lecito. Ma dobbiamo avere memoria, pure: quante volte, sotto questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una bella guerra di conquista?». Dove sembra manifestarsi l’esigenza di un intervento, che non sia però una nuova guerra di conquista mascherata.

In questo senso va anche la dichiarazione del segretario di Stato, il card. Parolin, che (presumibilmente senza voler contraddire la linea del papa), in una recentissima intervista al settimanale cattolico spagnolo «Vida Nueva», alla domanda sulla legittimità dell’invio di armi all’Ucraina, ha risposto: «L’uso delle armi non è mai qualcosa di desiderabile. Tuttavia il diritto a difendere la propria vita, il proprio popolo e il proprio Paese comporta talvolta anche il triste ricorso alle armi».

Il gioco dei potenti che porta alla guerra

Siamo comunque sul terreno delle ipotesi. In attesa di ulteriori elementi su questo punto, bisogna confrontarsi comunque con la critica radicale ed esplicita di papa Francesco alla guerra come metodo di soluzione dei conflitti internazionali e alla corsa agli armamenti in atto come inevitabile risvolto di questa impostazione.

È evidente che il destinatario ultimo di questa contestazione è il governo russo, che ha scatenato il conflitto. Essa però si rivolge, immediatamente, alla risposta data dal mondo occidentale a questa provocazione, una risposta che non si è ispirata al deciso rifiuto della guerra, ma al contrario, si sta affidando al potenziamento degli arsenali. Ed è difficile negare che ci siano degli elementi che danno ragione a Francesco. Perché, pur senza sminuire di una virgola la preponderante responsabilità di Putin, neppure gli altri Paesi sono del tutto innocenti. Non lo sono, innanzi tutto, quelli della Nato – primo fra tutti gli Stati Uniti – che hanno ostinatamente rifiutato di dare al capo del Cremlino la garanzia che l’Ucraina non sarebbe entrata a far parte dell’Alleanza Atlantica.

Qualcuno obietterà che questo avrebbe voluto dire prevaricare il diritto di un Paese libero di fare le sue scelte diplomatiche e militari. Ma quando, nel 1962 – in seguito alla fallita invasione della Baia dei porci, avvenuta l’anno prima – , Cuba chiese all’URSS di dotarla di missili nucleari, per difendere la propria indipendenza, e il presidente degli Stati Uniti J. F. Kennedy pose un blocco navale per impedire l’arrivo di questi armamenti, che riteneva una minaccia, il premier russo N. Kruscev accettò di far tornare indietro le sue navi, dietro garanzia che il tentativo di invasione dell’isola non si sarebbe ripetuto. Quando sono in gioco le sorti del mondo, bisogna negoziare.

È questo che il presidente Biden non ha fatto, di fronte alla minaccia russa pur essendo l’unico assolutamente certo che la guerra, in mancanza di un suo impegno sulla neutralità dell’Ucraina (equivalente alla rinunzia di Kruscev di armare di missili Cuba), sarebbe inevitabilmente scoppiata. Perché non ha fatto nulla per impedirla? Si può anche sostenere che Putin non avrebbe per questo rinunziato all’invasione, spinto com’è dal sogno di ricostituire l’antico sistema di potere della Russia sovietica. Ma l’America avrebbe fatto il possibile per evitarla. Invece non ha mosso un dito.

Tornano alla mente le parole di Francesco sulla politica gestita dai grandi come un grande gioco di scacchi per affermare il proprio predominio. Magari sventolando la bandiera di grandi valori etici da difendere… Ma neanche la linea del presidente Zelens’kyi è al riparo da legittime perplessità. Nessuno può mettere in dubbio il suo coraggio e la sua capacità di porsi come simbolo e portavoce, a livello internazionale, del suo popolo

martoriato. Ma in questi suoi due anni di presidenza è stata innegabile la sua tolleranza verso le formazioni neonaziste di cui è espressione, per esempio, il battaglione Azov, e che hanno ampie infiltrazioni anche nell’esercito regolare.

Come lo è stata anche la politica di repressione delle province russofone del Donbass, secondo alcune fonti affidata proprio a questi nazionalisti estremisti. Su tutto questo forse sarebbe stato opportuno chiedere a Zelens’kyi di dare garanzie, già prima dello scoppio del conflitto, ma anche dopo, invece di sostenerlo incondizionatamente, assecondando le sue capacità di imporsi, da consumato attore, sulla scena dei parlamenti occidentali.

Per restare al presidente ucraino, non è rassicurante neppure la sua continua insistenza nel chiedere un sempre maggiore impegno della Nato, inclusa una no-fly zone che, come ripetute volte si è cercato di spiegargli, comporterebbe il serio rischio di una terza guerra mondiale. Ma Zelens’kyi dà l’impressione di considerare questa ipotesi un “danno collaterale” accettabile, pur di vincere la sua guerra.

Perché di vittoria ha più volte parlato, e forse non solo per sollevare il morale dei suoi soldati, se è vero che anche alcune sue proposte di negoziato sono state formulate mescolandole a inopportune minacce, nei confronti della Russia, che le hanno fatte apparire piuttosto delle provocazioni e che certamente non erano adatte a creare il clima adatto per un incontro. Tutto questo non diminuisce di una virgola la fondamentale responsabilità di Putin: gli errori e i limiti degli altri non possono fare dimenticare che è lui ad aver voluto questa guerra. Né si può perdere di vista il dramma di tre milioni di ucraini costretti alla fuga e ridotti alla disperazione per i sogni di grandezza del dittatore russo.

 Ma, guardando il quadro che abbiamo tracciato, si capisce la sofferenza del papa: governi aggressori e governi aggrediti rientrano comunque in una logica che è quella della guerra, combattuta o almeno accettata come prezzo per i propri obiettivi, nel misconoscimento delle esigenze reali dei rispettivi popoli. E di quelli di un’umanità sofferente, che avrebbe bisogno di ben altro che di conflitti e della corsa a procurarsi armi per combatterli. Ma questo è un messaggio che nessuno vuole ascoltare e che, perciò, non è stato messo dai giornali sule prime pagine.

 *Pastorale della Cultura, Diocesi Palermo

www.tuttavia.eu 


 

FAKE NEWS e VEROSIMILE

  

Lʼinganno del verosimile
le fake news degli amici

 -         di GIGIO RANCILIO

 Abbiamo un nuovo nemico. Anche se di fatto non è così nuovo. Ma andiamo con ordine. E partiamo da un dato. Soltanto quattro anni fa, secondo un rapporto di Infosfera, l’82% degli italiani non sapeva riconoscere una fake news, cioè una notizia deliberatamente falsa, costruita per infangare un nemico o a scopo di propaganda.

Oggi, secondo l’indagine «Media e fake news» che Ipsos ha realizzato per Idmo, «il 73% degli intervistati ritiene di essere in grado di distinguere un fatto reale da una bufala». Se così fosse, la percentuale delle persone ingannate, sarebbe crollata dall’82% al 27%. Il 55% in meno.

Quest’ultimo studio contiene però anche un altro dato, forse più importante. Dopo avere affermato «di saper smascherare una bufala», alla domanda su quanti sono gli italiani che sanno riconoscere una fake news, la risposta degli intervistati è che appena il 35% è capace di farlo.

Differenze così importanti si spiegano col fatto che un conto è ciò di cui siamo convinti (per la serie: io alle bufale non ci casco, sono gli altri quelli che ci credono) e un altro il nostro reale comportamento online (caschiamo nelle bufale molto di più di quello che crediamo). Spesso non lo facciamo apposta. Sono i cosiddetti bias cognitivi che ci ingannano e ci fanno sbagliare.

C’è poi un altro dato: in questi anni anche la disinformazione ha fatto passi da gigante. Non si usano più notizie completamente false, ma «distorsioni e mezze verità mischiate a frammenti di resoconti autorevoli di eventi reali». Al punto che il nostro nuovo nemico (eccoci al punto iniziale) non è il falso ma il verosimile. Molto più difficile da smascherare. Tanto più se conferma un nostro pregiudizio. Da tempo i neuroscienziati hanno scoperto che uno dei bias che più ci ostacola nel percorso vero la verità è il cosiddetto «bias di conferma». In pratica senza che ce ne accorgiamo diamo molto più credito alle informazioni che confermano una nostra idea o un nostro pregiudizio, mentre tendiamo a non vedere o addirittura rimuoviamo tutto ciò che mette in crisi le nostre idee.

Non è finita. Se da una parte, uno studio condotto da Merten in 36 Paesi, ha scoperto che «circa un quinto degli utenti dei social media ha smesso di seguire o ha bloccato account di utenti o pagine di organizzazioni a causa di ciò che avevano pubblicato», la pur grande preoccupazione comune per la diffusione delle fake news (ne ha paura quasi il 70% degli utenti social) non ci ha messo al riparo da alcuni comportamenti sbagliati (che facciamo senza accorgercene).

Per esempio, un recente studio apparso sul «The Journal of Communication», intitolato «Social influences on the spread of misinformation on social media» (Influenze sociali sulla diffusione della disinformazione sui social media») ha dimostrato che non tutti i nostri amici social hanno la stessa probabilità di essere bloccati o silenziati da noi a causa delle falsità che pubblicano. E non solo perché ciò che pubblicano in fondo non è così grave, ma soprattutto perché «li sentiamo più affini a noi e più vicini politicamente».

Banalizzo un po’. È come quando qualcuno commette un errore: con chi ci è più vicino (figli, amici, parenti) siamo più garantisti e tolleranti di quanto non lo siamo con chi non conosciamo o addirittura con chi percepiamo come una minaccia o un nemico. Per questo se un nostro amico che sentiamo affine posta sui social «una bugia» tendiamo a lasciar correre.

 www.avvenire.it