20 febbraio
2022
-VII domenica del Tempo ordinario, anno C-
- Lc 6,27-38
²⁷Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, ²⁸benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. ²⁹A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l'altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. ³⁰Da' a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro. ³¹E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro. ³²Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. ³³E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. ³⁴E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. ³⁵Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell'Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. ³⁶Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. ³⁷Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. ³⁸Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».
Commento di Enzo Bianchi
Alla proclamazione delle beatitudini, nel
vangelo secondo Luca come in quello secondo Matteo, segue da parte di Gesù un
discorso indirizzato a quella folla che era venuta ad ascoltarlo quando era
disceso con i Dodici dalla montagna (cf. Lc 6,17). In Luca questo insegnamento
è più breve e ha una tonalità diversa. In esso non è più registrato il
confronto, anche polemico, con la tradizione degli scribi di Israele, ma emerge
piuttosto la “differenza cristiana“ che i discepoli di Gesù devono saper vivere
e mostrare rispetto alle genti, ai pagani in mezzo ai quali si collocano le
comunità alle quali è rivolto il vangelo.
“A voi che ascoltate, io
dico…”. Sono le prime parole di Gesù, che introducono una domanda, un comando,
un’esigenza fondamentale: “Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi
odiano”. Certo, queste parole sono collegate alla quarta beatitudine
indirizzata ai discepoli perseguitati (cf. Lc 6,22-23), ma appaiono rivolte a
ogni ascoltatore che vuole diventare discepolo di Gesù. L’amore dei nemici non
è dunque soltanto un invito a un’estrema estensione del comandamento dell’amore
del prossimo (cf. Lv 19,18; Lc 10,27), ma è un’esigenza prima, fondamentale,
che appare paradossale e scandalosa. I primi commentatori del vangelo con
ragione hanno giudicato questo comando di Gesù una novità rispetto a ogni etica
e sapienza umana, e gli stessi figli di Israele hanno sempre testimoniato che
con tale esigenza Gesù andava oltre la Torah.
Per questo dobbiamo chiederci: è possibile per noi umani amare il nemico, chi ci fa del male, chi ci odia e vuole ucciderci? Se anche Dio, secondo la testimonianza delle Scritture dell’antica alleanza, odia i suoi nemici, i malvagi, si vendica contro di loro (cf. Dt 7,1-6; 25,19; Sal 5,5-6; 139,19-22; ecc.) e chiede ai credenti in lui di odiare i peccatori e di pregare contro di loro, potrà forse un discepolo di Gesù vivere un amore verso chi gli fa del male? Diamo troppo per scontato che questo sia possibile, mentre dovremmo interrogarci seriamente e discernere che un amore simile può solo essere “grazia”, dono del Signore Gesù Cristo a chi lo segue. Anche nel nostro vivere quotidiano non è facile relazionarci con chi ci critica e ci calunnia, con chi ci fa soffrire pur senza perseguitarci a causa di Gesù, con chi ci aggredisce e rende la nostra vita difficile, faticosa e triste. Ognuno di noi sa quale lotta deve condurre per non ripagare il male ricevuto e sa come sia quasi impossibile nutrire nel cuore sentimenti di amore per chi si mostra nemico, anche se non ci si vendica nei suoi confronti.
Con questo comando, che
lui stesso ha vissuto fino alla fine sulla croce chiedendo a Dio di perdonare i
suoi assassini (cf. Lc 23,34), Gesù chiede ciò che solo per grazia è possibile
e, significativamente, è sempre Luca a testimoniare che con questo sentimento
dell’amore verso i nemici è morto il primo testimone di Gesù, Stefano, il quale
ha chiesto a Gesù suo Signore di non imputare ai suoi persecutori la morte
violenta che riceveva da loro (cf. Lc 7,60). Gesù, dunque, qui rompe con la
tradizione e innova nell’indicare il comportamento del discepolo, della
discepola: ecco la giustizia che va oltre quella di scribi e farisei (cf. Mt
5,20), ecco la fatica del Vangelo, ecco – direbbe Paolo – “la parola della
croce” (1Cor 1,18). Amare (verbo agapáo) il nemico significa andare
verso l’altro con gratuità anche se ci osteggia, significa volere il bene
dell’altro anche se è colui che ci fa del male, significa fare il bene, avere
cura dell’altro amandolo come se stessi. E Gesù fornisce degli esempi, indica
anche dei comportamenti esteriori da assumere, espressi alla seconda persona
singolare: non fare resistenza a chi ti colpisce e neppure a chi ti ruba il
mantello; dona a chi tende la mano, chiunque sia, conosciuto o sconosciuto,
buono o cattivo, e non sentirti mai creditore di ciò che ti è stato sottratto.
Ciò non significa però assumere una passività, una resa di fronte a chi ci fa
il male, e Gesù stesso ce ne ha dato l’esempio quando, percosso sulla guancia
dalla guardia del sommo sacerdote, ha obiettato: “Se ho parlato bene, perché mi
percuoti?” (Gv 18,23).
A questo punto Gesù formula la
“regola d’oro”, che riporta il discorso alla seconda persona plurale: “Come
volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro”. Regola formalizzata
in positivo, nella quale la reciprocità non è invocata come diritto e tanto
meno come pretesa, ma come dovere verso l’altro misurato sul proprio desiderio:
“fare agli altri ciò che desidero sia fatto a me”. Pochi anni prima del
ministero di Gesù rabbi Hillel affermava: “Ciò che non vuoi sia fatto a te, non
farlo al tuo prossimo”. Ma Gesù conferisce a tale istanza una forma positiva,
chiedendo di fare tutto il bene possibile al prossimo, fino al nemico.
Solo così, amando gli altri senza reciprocità, facendo del bene senza
calcolare un vantaggio e donando con disinteresse senza aspettare la
restituzione, si vive la “differenza cristiana”. In questo comportamento c’è il
conformarsi del discepolo al Dio di Gesù Cristo, quel Dio che Gesù ha narrato come
amoroso, capace di prendersi cura dei giusti e dei peccatori, dei credenti e
degli ingrati. Se Dio non condiziona il suo amore alla reciprocità, al ricevere
una risposta, ma dona, ama, ha cura di ogni creatura, anche il cristiano
dovrebbe comportarsi in questo modo nel suo cammino verso il Regno, in mezzo
all’umanità di cui fa parte.
Dopo aver ribadito il
comandamento dell’amore dei nemici, Gesù fa una promessa: ci sarà “una
ricompensa (misthós) grande” nei cieli ma già ora in terra, qui, i
discepoli diventano figli di Dio perché si adempie in loro il principio “tale
Padre, tale figlio”. Imitare Dio, fino a essere suoi figli e figlie: sembra una
follia, una possibilità incredibile, eppure questa è la promessa di Gesù, il
Figlio di Dio che ci chiama a diventare figli di Dio. Se nella Torah il Signore
chiedeva ai figli di Israele in alleanza con lui: “Siate santi, perché io sono
Santo” (Lv 19,2), e questo significava essere distinti, differenti rispetto
alla mondanità, in Gesù questo monito diventa: “Siate misericordiosi, come il
Padre vostro è misericordioso”. Nella tradizione delle parole di Gesù secondo
Matteo il comando risuona: “Siate perfetti (téleioi) come è perfetto il
Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48). Qui invece ciò che viene messo in
evidenza è la misericordia di Dio; d’altronde, già secondo i profeti, la
santità di Dio era misericordia, si mostrava nella misericordia (cf. Os 6,6;
11,8-9). La misericordia, l’amore viscerale e gratuito del Signore che è
“compassionevole e misericordioso” (Es 34,6), deve diventare anche l’amore
concreto e quotidiano del discepolo di Gesù verso gli altri, amore illustrato
da due sentenze negative e due positive.
Innanzitutto: “Non
giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati”, perché
nessuno può prendere il posto di Dio quale giudice delle azioni umane e di
quanti ne sono responsabili. Si faccia attenzione e si comprenda: Gesù non ci
chiede di non discernere le azioni, i fatti e i comportamenti, perché senza
questo giudizio (verbo kríno) non si potrebbe distinguere il bene
dal male, ma ci chiede di non giudicare le persone. Una persona, infatti, è più
grande delle azioni malvagie che compie, perché non possiamo mai conoscere
l’altro pienamente, non possiamo misurare fino in fondo la sua responsabilità.
Il cristiano esamina e giudica tutto con le sue facoltà umane illuminate dalla
luce dello Spirito santo, ma si arresta di fronte al mistero dell’altro e non
pretende di poterlo giudicare: a Dio solo spetta il giudizio, che va rimesso a lui
con timore e tremore, riconoscendo sempre che ciascuno di noi è peccatore, è
debitore verso gli altri, solidale con i peccatori, bisognoso come tutti della
misericordia di Dio.
Al discepolo spetta dunque – ecco le
affermazioni in positivo – di perdonare e donare: per-donare è fare il dono per
eccellenza, essendo il perdono il dono dei doni. Ancora una volta le parole di
Gesù negano ogni possibile reciprocità tra noi umani: solo da Dio possiamo
aspettarci la reciprocità! Il dono è l’azione di Dio e deve essere l’azione dei
cristiani verso gli altri uomini e donne. Allora, nel giorno del giudizio, quel
giudizio che compete solo a Dio, chi ha donato con abbondanza riceverà dal
Signore un dono abbondante, come una misura di grano che è pigiata, colma e traboccante.
L’abbondanza del donare oggi misura l’abbondanza del dono di Dio domani. La
“differenza cristiana” è a caro prezzo ma, per grazia del Signore, è possibile.
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