RELAZIONI VIRTUALI
- di Giuseppe Savagnone *
- Un paradosso
In questi due anni di pandemia stiamo assistendo a un curioso paradosso. Da
un lato il Covid ci ha insegnato che «nessun uomo è un’isola», perché nessuno
può dirsi esclusivo proprietario del proprio corpo e padrone di farne quello
che vuole, senza risponderne agli altri, come l’enfasi sui diritti
individuali ci aveva per lungo tempo portati a credere e come si ostinano oggi
a sostenere i no-vax.
Dall’altro, però, ci fa percepire questa evidente interdipendenza più nei
suoi aspetti negativi – come una minaccia reciproca di contagio – che in quelli
gioiosi e costruttivi. Dalla coscienza che la libertà è sempre anche
responsabilità sono emerse soprattutto la percezione della nostra reciproca
vulnerabilità e la paura del male che possiamo farci involontariamente a
vicenda trasmettendo il virus. Da qui la tendenza a rinunziare ai nostri
rapporti umani, o almeno a rarefarli e diluirli drasticamente, secondo la
formula del “distanziamento sociale”.
Il nuovo ruolo del virtuale nei rapporti
umani
Così, l’effetto più immediatamente percepibile della pandemia sulla
nostra vita è l’indebolimento delle relazioni, temporaneamente sospese o
trasferite su Internet. Persone legate da comuni interessi di affari
preferiscono vedersi e negoziare on line. Convegni culturali, originariamente
programmati “in presenza”, vengono trasformati in webinar. Perfino gruppi
e comunità spirituali trasferiscono i loro incontri su Zoom o altre
piattaforme dove vedersi senza pericolo. Emblematico il caso della
trasmissione online dell’eucaristia su Tv2000 o a cura delle singole
parrocchie. Non si è trattato solo delle assemblee liturgiche.
Smartworking, DaD, sono diventati termini di uso comune.
E sicuramente, nella misura in cui il virtuale, sotto l’impulso della
pandemia, tende a sostituire le relazioni umane “in presenza”, si hanno
dei guadagni. Ma vale la pena di interrogarsi anche sui rischi. Nella
consapevolezza che le modalità tecniche della comunicazione tra gli esseri
umani – come del resto tutti mezzi della tecnologia – non sono mai puramente
strumentali e non lasciano immutati i soggetti che se ne servono.
Noi siamo animali culturali e, a differenza di tutti gli altri, siamo
in grado, in una certa misura, di trasformare la nostra natura con i
prodotti della nostra creatività. In un tempo che ha visto
una impressionante accelerazione di questa produzione, la trasformazione
degli esseri umani diventa sempre più evidente.
«La domanda», perciò, come osserva acutamente Umberto Galimberti, «non
è più: “Che cosa possiamo fare noi con la tecnica?”, ma: “Che cosa la
tecnica può fare di noi?”». Riferita al virtuale e ai suoi effetti sulle
relazioni umane, questa domanda è particolarmente inquietante. Sappiamo
quali effetti decisivi per la nostra identità abbia avuto, nel remoto
passato, il passaggio dalla comunicazione orale a quella scritta.
L’avvento della scrittura come
rivoluzione antropologica
Per millenni l’oralità aveva determinato un approccio alla realtà che è
profondamente cambiato quando è subentrata la nuova tecnica della
scrittura. «Apprendimento e conoscenza in una cultura orale significano
identificazione stretta, empatica, con il conosciuto. La scrittura separa
chi conosce da ciò che viene conosciuto, stabilendo così le condizioni per
l’oggettività, il distacco personale» (W. Ong).
Chi vuol raccontare una storia, oppure semplicemente una barzelletta, tende
a identificarsi nei personaggi della narrazione, imitarne i toni di voce,
i gesti. Soggetto e oggetto non sono nettamente distinguibili. La
scrittura, invece, pone una chiara distanza tra chi comunica e ciò che sta
comunicando. Nascono così, allo stesso tempo, l’oggettività e la soggettività.
Nel momento in cui si distingue da ciò di cui scrive, il soggetto lo
coglie come diverso da sé e dotato di una propria specifica struttura.
Reciprocamente, nel fare questo, egli percepisce la
propria soggettività, sviluppando così un atteggiamento di introspezione
che nelle culture orali era assente. Secondo molti studiosi senza la
scrittura non sarebbe mai nata la scienza moderna, e neppure quel tipo di
interiorità, complessa e problematica, che ha caratterizzato tutto lo
sviluppo della civiltà occidentale.
Ma l’avvento della scrittura ha avuto un profondo influsso anche
sulle relazioni umane. Chi vuole raccontare qualcosa raduna intorno a sé
un piccolo crocchio di ascoltatori. Così era nel clan quando, la sera, gli
anziani, seduti vicino ai fuochi, ripetevano le antiche narrazioni che
avevano a loro volta ricevuto dai loro padri. Chi invece vuole
scrivere – una lettera, una relazione – o desidera leggerle, chiede che
per favore lo si lasci solo.
Qualcuno si è spinto fino ad affermare che l’individuo è nato con la
scrittura. Certo è che il diffondersi del mezzo scritto, con l’invenzione
della stampa, nel XV secolo, fornì uno strumento decisivo all’affermarsi
della dottrina luterana del libero esame e dell’individualismo
protestante, impensabile se non vi fosse stato una Bibbia disponibile per
ogni credente.
La problematicità del virtuale
Per fortuna, la scrittura non ha mai soppiantato la comunicazione orale.
Ma, ai nostri giorni, l’avvento del virtuale si presenta più problematico.
Lo è già per il fatto che, mentre sia la comunicazione orale che quella
scritta non nascondono il loro essere degli intermediari, e dunque dei
semplici mezzi, per accostarsi al mondo e agli altri, quella virtuale si
presenta come autoreferenziale, pretendendo di sostituire, e non di
rappresentare, ciò che comunica. Non per nulla si parla di “realtà”
virtuale.
Ad essere minacciata direttamente non è tanto la corporeità, che
viene comunque rappresentata sugli schermi, ma la sua fisicità. Su Skype o
su Zoom vediamo il volto dell’altro, anche se è lontanissimo fisicamente,
così come in televisione possiamo seguire eventi che si svolgono in altri
continenti. Il guadagno innegabile è l’abbattimento di tutte le barriere
spazio-temporali che, nel mondo fisico, impediscono o almeno ostacolano la
comunicazione tra gli esseri umani.
Al tempo stesso, però, questa apertura potenzialmente illimitata a persone
e a situazioni, che un tempo la lontananza spaziale rendeva
irraggiungibili, determina un eccesso insostenibile di stimoli. Partecipare
in diretta alle vicende di tutto il pianeta ci potrebbe fare
impazzire. Per questo il virtuale si avvale della mediazione dello
schermo. Con questo termine si può intendere sia la superficie su cui si
delineano delle immagini, consentendo la comunicazione, sia un filtro, un
riparo che si frappone fra i nostri organi sensoriali e qualcosa che
potrebbe ferirli (come quando si dice: “farsi schermo con la mani”).
Lo schermo della tv, del tablet, del computer o dello smartphone ci
fanno cogliere in modo immensamente più ampio la realtà. Ma, proprio per
questo, essi devono difenderci da essa, consentendoci di convivere con la
sua complessità e la sua violenza grazie al fatto che, dietro lo schermo,
ne siamo soltanto spettatori.
Il pericolo, però, è una specie di anestesia che alla lunga può
condizionare le persone nel loro atteggiamento di fondo verso la realtà,
spingendole ad affrontare tutta la vita come uno spettacolo o un
gioco. Questo è particolarmente vero quando sono in gioco i rapporti umani.
Non bisogna certo dimenticare i vantaggi che, specialmente in questo tempo
di pandemia, sono derivati ad essi dall’uso di Internet. Ma, così come sui
social si è “amici”, senza conoscersi se non per il volto che si è deciso
di assumere agli occhi degli altri, su Zoom si può evitare di essere visti
nascondendosi dietro una icona.
La “persona” ritorna ad avere il significato latino originario
di “maschera”. Il risultato può essere la banalizzazione del mistero
delle persone. Esposte in vetrina, esse diventano, paradossalmente,
invisibili. Come ha scritto Philippe Breton, oggi «si mostra tutto ciò che
è visibile, ma al tempo stesso non si vede mai nulla, o perlomeno nulla di
ciò che è essenziale»
* Scrittore ed editorialista. Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo.
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