Intervista al prof. p. Carmelo Raspa
-di Mari Cortese
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Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, viene celebrato in tutto il mondo
dalla politica, dalle scuole, dalle associazioni e dal mondo della cultura da
oltre quindici anni.
A dire il vero, sembra trascorso un tempo più longevo dalla sua istituzione. Invece, il ricordo istituzionale di eventi tragici come l’Olocausto e la Shoah del popolo ebraico ha solo varcato la soglia dell’adolescenza. Ciò è evidente non solo a causa di una questione “anagrafica” quanto perché la portata di tale eredità storica, con le sue brutture ma anche con il senso di quanto avvenuto, non è ancora stata raccolta nel profondo all’unanimità, nel nostro quotidiano. Ne abbiamo parlato con don Carmelo Raspa, parroco di San Giovanni Bosco (Acireale), docente di ebraico biblico presso la facoltà Teologica di Sicilia e lo Studio Teologico S.Paolo di Catania, profondo conoscitore della cultura e delle tradizioni legate al mondo complesso e affascinante dell’ebraismo.
Si parla tanto di Shoah anche se, purtroppo, solo durante il periodo che
ruota intorno alla ricorrenza del 27 gennaio. Qual è, secondo lei, l’eredità
storica e umana che ci ha lasciato questa tragedia?
La Shoah è stata, nel passato, un punto di partenza da parte del mondo
cattolico e protestante per avvicinarsi maggiormente all’ebraismo. A
testimonianza di ciò, finita la guerra ebbero luogo gli incontri di Seelisberg,
dove cristiani ed ebrei si riunirono per stilare un documento contro
l’antisemitismo; ricordiamo, negli anni Sessanta, lo storico incontro fra papa
Giovanni XXIII e Jules Isaac, a suggellare il dialogo interreligioso; poi il
Concilio Vaticano II col documento Nostra aetate: sono tutti
passi fatti per una mutua conoscenza. Inoltre, Il fatto di ricordare la Shoah
affinché certe ferocie non si ripetano più già rende la memoria “luminosa”.
Ricordiamoci, infatti, che il male è sempre all’opera nel mondo e va
contrastato con la forza del ricordo.
Come si inseriscono le comunità ebraiche all’interno dell’Italia odierna?
Oggi realtà come l’UCEI o l’UNEDI, il Gran Rabbinato e l’UGEI agiscono per il dialogo ebraico-cristiano sia a livello istituzionale che
territoriale. Ciò avviene soprattutto nel Nord. Noi in Sicilia purtroppo
soffriamo di ciò perché non abbiamo una presenza numericamente massiccia di
ebrei come a Roma, Milano o Napoli.
Cosa, eventualmente, un cattolico potrebbe imparare da un ebreo che pratica
l’ebraismo?
Com’è noto, fra gli ebrei troviamo praticanti ortodossi ma anche moderati,
laici e atei. Tutti però, anche i più lontani dalle pratiche religiose
conoscono le scritture e la tradizione d’Israele: aspetto che a noi manca a
livello di formazione. Bisogna ammetterlo: la nostra fede a volte si fonda su
devozionalismi e sentimentalismi che ci allontanano dall’essenza della
spiritualità. Invece, una conoscenza delle fonti, dai padri della Chiesa ai
teologi alla lettura dei documenti del concilio, aprirebbe a una visione della
religione senza pregiudizi, anche da parte dei non praticanti.
Malgrado il carico di malvagità che ha segnato le deportazioni di massa del
popolo ebraico e il suo sterminio, una fetta di ragazzi nelle scuole non smette
di fare ironia su questi accadimenti storici. Quali le responsabilità del mondo
dell’istruzione e della Chiesa per educare i giovani al senso di quanto
accaduto?
È chiaro come oggi i nostri ragazzi risentano di una trasmissione valoriale
mancata ed è per questo che cadono spesso nell’indifferenza. Parlerei perfino
di un diffuso sospetto nei confronti della cultura che porta inevitabilmente a
leggere e osservare poco o nulla. Ecco perché è necessaria la presenza di
testimoni della Shoah, come la senatrice Liliana Segre. La scuola
ha il dovere di educare i ragazzi all’ascolto e all’amore per la memoria
storica. Tutto fuorché semplice, in questi tempi del consumo e del “tutto
e subito”.
Invece, per custodire la memoria una fetta della Chiesa dovrebbe rivedere
omelie e catechesi, dove purtroppo si evidenzia poco l’ebraicità di Gesù e se
ne parla com’egli fosse un cristiano nato. Per non parlare di pregiudizi che
danno “i farisei come i cattivi” e la Chiesa come nuovo Israele.
Ciò è frutto di una tradizione antisemitica cristiana che attribuisce
agli ebrei segni come la stella gialla, il cappello a punta, il naso adunco, la
figura dell’usuraio. Abbiamo bisogno di convertire la nostra conoscenza verso
ilo popolo ebraico ma affinché questo sia possibile è necessario formarsi e
formare tutto l’anno.
Eppure parte della Chiesa italiana e dei cattolici ha fatto tanto per gli
ebrei durante il rastrellamento del ghetto di Roma.
Chiaramente una fetta della Chiesa, dei cattolici e degli istituti
religiosi ha aiutato molti ebrei a salvarsi, addirittura facendoli passare per
sacerdoti o consacrati o falsificandone i documenti. Nel contesto, la “politica
prudente” di Pio XII ha impedito che si scatenasse una rivolta contro la
Chiesa, che ha in tal modo avuto la possibilità di salvare vite umane lontano
dai riflettori. Quindi, dal mirino dei nazifascisti. Molti ebrei fanno
testimonianza di come siano stati nascosti o fatti emigrare. Purtroppo, c’era
anche qualche cristiano delatore che spiava della loro presenza ai nemici.
Domanda che, invero, potrebbe sorgere nel cuore di chiunque: “Dio dov’era?”
In quell’oscurità si levano voci bellissime: Bonhoeffer, a esempio,
arrestato dai nazisti e ucciso in un campo di concentramento, si è posto il
problema di Dio non come un’entità tappabuchi ma come quel Dio che si incarna
in un Cristo che soffre. Oppure, ricordiamo di Hetty Hillesum col suo Diario,
in cui il principio di gravitazione non è di Dio intorno all’uomo ma il contrario. “E
se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio” è il
principio di responsabilità degli uomini per far emergere l’immagine
dell’Altissimo dai cuori in cui questa è stata sepolta.
Nel buio più profondo i deportati professavano la Fede, come si evince da pezzettini di preghiere ricopiate dai detenuti nei pochi stralci che riuscivano a trovare nei campi di concentramento. Oppure da piccoli oggetti legati al culto dello Shabbat. Ancora, da libri di preghiere rinvenuti in quei luoghi di atroci torture. È stata la professione di Fede nell’oscurità che ha consentito un ritorno di molti alla normalità.
Alcuni non trovano un equilibrio fra il rispetto per il popolo ebraico e il
suo vissuto e un’idea politica contraria all’operato governativo israeliano
nella questione israelo-palestinese.
Sono gli ebrei i primi a criticare l’operato dello Stato di Israele, così
come i palestinesi fanno verso i terroristi. Ciò che emerge poco dalla nostra stampa,
però, è la collaborazione fra ebrei e palestinesi all’interno di iniziative
comuni che non vengono propagandate, come Neve Shalom o il
teatro di Angelica Edna Calò Livne. Sono elementi che creano ponti
e non muri, per citare papa Francesco. Suggerirei di apprendere la
questione israelo-palestinese da giornali del luogo, possibilmente tradotti in
lingua inglese, come il Jerusalem Post, per una visione più ampia e senza
pregiudizi su un tema così complesso, dove la morte si palesa sa entrambi i
lati.
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