Recalcati: "A Cacciari e Agamben dico: la
filosofia può rendere ciechi"
Il
più noto psicanalista italiano: nella polemica sui vaccini hanno piegato la
realtà agli interessi dell’ideologia.
Intervista di Davide D’Alessandro
È il più noto psicoanalista italiano, inutile girarci intorno. Chi
lo adora, chi lo detesta. Il successo, diceva qualcuno, bisogna farselo
perdonare e Massimo Recalcati non sembra affatto preoccupato del rumore di
fondo che accompagna il suo cammino. Continua a studiare, a scrivere, a
parlare. Gli ho chiesto, direbbe Lacan, di marcare l’inizio, di marcare
quest’anno che si annuncia, come i precedenti, molto complesso. E sono tanti,
forse troppi, ad affrontare la complessità con superficialità e insensatezza, a
ridurla a mera contrapposizione di dati, mentre si muove altro dentro l’essere
umano. Chiedo a lui, che ha percorso gli studi filosofici prima di approdare
alla psicoanalisi, a lui che era stato costruito per una carriera filosofica
prima di inciampare, prima di essere costretto a guardare dentro la propria
sofferenza e a seguire un’altra strada, una lettura del presente e una parola
per un futuro consapevole.
Con quale spirito entri nel 2022?
Come immagini sarà?
“Una luce. Siamo stati al buio per troppo
tempo. Adesso abbiamo bisogno di luce. Gli esseri umani sono fatti per nascere
e non per morire, diceva Hannah Arendt. Noi siamo fatti per la luce e non per
il buio. Eppure, sappiamo anche che il buio esiste e può cadere sulle nostre
teste in ogni momento. In questi tempi così duri ho citato spesso Franco
Basaglia. Diceva che la cura consiste nel riuscire a fare qualcosa del buio.
Bene, io penso che noi abbiamo bisogno di vedere la luce nel buio. Mi auguro
dunque più luce per l’anno che inizia”.
La pandemia ha segnato
profondamente gli ultimi due anni. Hanno parlato tutti, molto meno chi vede i
pazienti quotidianamente. Non pensi che sia mancata la parola della
psicoanalisi? Quale può essere la sua parola su questa tragedia epocale?
“Io ho parlato. Non ho disdegnato né di
parlare pubblicamente, né di scrivere su quanto ci è accaduto. Non è un compito
della psicoanalisi quello di provare a dire qualcosa di ciò che lascia senza
parole? D’altronde, non è proprio vero che gli psicoanalisti in generale non abbiano
preso la parola. I collegamenti da remoto imposti dalla pandemia ci hanno
riunito da Londra a Buenos Aires, da Barcellona a Città del Messico, da Roma ad
Atene, per parlare di ciò che stava avvenendo. Due i grandi temi: come
rispondere al trauma quando esso è collettivo, quando travolge intere
popolazioni? Che contributo ha potuto dare e può dare la psicoanalisi? Come si
è poi modificata la nostra pratica? Che cosa cambia nello svolgere una seduta
da remoto rispetto all’incontro in presenza? Si tratta solo di un’emergenza o
di un’emergenza che ha reso più elastico il nostro setting? Ci sono state anche
numerose iniziative cliniche nella città per mettere la psicoanalisi a
disposizione di chi ha sofferto di più la pandemia. Penso al personale sanitario
all’inizio della pandemia. Ma penso anche ai lutti rimasti sospesi e poi ai
sintomi che hanno avuto in questi due anni un’amplificazione evidente:
depressioni, attacchi di panico, somatizzazioni, dipendenze. Per non parlare
dei giovani. Insomma, non condivido il quadro che tu rappresenti, anche se
esiste nella psicoanalisi una tendenza a isolarsi dal mondo, dalla vita della
polis. È del resto una tendenza che ho contrastato sin da giovane”.
Attraverso alcuni libri
continui il confronto con il testo biblico. Guardi a quelle pagine come
rifugio, come speranza o come insegnamento perenne?
“Chi conosce, anche superficialmente, il
testo biblico sa che in primo piano non c’è l’esperienza del rifugio, ma quella
dell’esodo, del deserto, dell’erranza, della spada che separa. Io non sono un
biblista ma un semplice lettore della Bibbia; però, sono anche uno
psicoanalista e i grandi temi che attraversano la Bibbia sono gli stessi che
attraversano la psicoanalisi: il rapporto tra le generazioni, la fratellanza,
l’odio e l’invidia, l’idolatria, il narcisismo, il senso dell’esistenza, la
sofferenza, il rapporto tra Legge e desiderio, la vacuità dell’essere, la
libertà, la vita e la morte. Dunque, io non pretendo in nessun modo di
psicoanalizzare il testo biblico, ma ritrovo in quel testo le radici stesse
della psicoanalisi. L’ebreo Freud e il cattolico Lacan, quanto meno nella sua
formazione giovanile, sono stati del resto lettori molto appassionati della
Bibbia”.
Sei stato giustamente
critico con le posizioni assunte sulla pandemia da alcuni intellettuali. Perché
è così difficile comprendere la strada giusta da seguire?
“La filosofia può rendere ciechi. Pensa a
come Heidegger ha letto l’avvento terrificante del nazismo. Perché ha potuto
commettere un errore simile? Perché la filosofia rischia sempre di cadere
nell’ideologia, se per ideologia intendiamo, come ricorda Arendt, far prevalere
l’Idea sulla realtà. È quello che è accaduto a Heidegger: l’idea del destino
nichilistico dell’Occidente, della storia come oblio dell’essere, ha voluto
vedere nel nazismo una possibilità di ritornare a pensare gli dei, la verità
come aletheia, la resistenza di fronte al narcisismo umanistico
dell’Occidente. Un delirio ideologico. Lo stesso che ha accecato pensatori di
grande spessore, come Agamben e Cacciari. Con il riferimento ideologico alla
biopolitica, al biopotere, allo stato di eccezione, eccetera, hanno piegato la
realtà agli interessi dell’ideologia. A questo aggiungerei, se mi permetti, una
dose non irrilevante di vanità. Chi ha contatto quotidiano con la sofferenza sa
che ci sono momenti in cui la parola deve poter subordinarsi alle ragioni della
scienza medica. Nessuno, tra coloro che si sono sottoposti a interventi
chirurgici importanti, ha mai questionato sulla ratio dell’intervento che ha
dovuto subire. Ci siamo affidati al discorso medico come ci affidiamo ai piloti
quando saliamo su un aereo. Aggiungerei anche la miseria di un certo
giornalismo, soprattutto di destra, che ha cavalcato questa crisi in modo
indegno perseguendo un mero obiettivo di visibilità. È lo stesso che abbiamo
visto nei talk show, dove la presenza proliferante dei no vax è servita a
mantenere l’audience. Che pena!”.
Come ti sono parse le parole
e le azioni della politica?
“Penso che la politica sia stata travolta
da quanto accaduto. Non poteva essere altrimenti. I commentatori twitter del
nostro tempo hanno dato fiato ancora una volta all’antipolitica, mantenendosi
nella posizione innocente dell’anima bella che giudica senza mai interrogare la
propria responsabilità. In senso stretto, una svolta importante credo sia stata
quella del governo Draghi, non solo dal punto di vista della sua efficacia
operativa. Si trattava di restituire dignità alle istituzioni, travolte, prima
che dal covid, da anni di qualunquismo antipolitico e di cultura populista. Il
grillismo non poteva salvarci da questa crisi che esigeva innanzitutto un
recupero del valore delle istituzioni, che esso ha contribuito più di ogni
altro movimento a denigrare pesantemente. È stata la cultura che ha preceduto
il Covid: da una parte la purezza del popolo, della vita, dall’altra il marcio
e la corruzione delle istituzioni. Il populismo ha contrapposto, in modo
ideologico, la vita alle istituzioni, come se fossero il bene e il male. La
crisi legata alla pandemia ci ha invece insegnato che senza le istituzioni,
penso anche all’istituzione della famiglia e a quella ospedaliera, non solo a
quelle governative, le nostre vite sarebbero finite malissimo. La politica ha
oggi il compito primario di recuperare la dignità delle istituzioni, di
mostrare che le istituzioni non sono la faccia sporca della vita, ma il suo
fondamento”.
Non tutti hanno la stessa
resilienza al dolore e al trauma. I casi di depressione grave vengono dati in
aumento esponenziale. C’è chi si adopera per contenere questo dramma? Credi che
si debba fare di più?
“Noi facciamo l’impossibile. ‘Jonas’ ha
aperto le sue porte a tutti, abbattendo come fa da anni le tariffe delle sedute
e creando anche servizi domiciliari di assistenza psicologica. Notiamo che
molti giovani sono in difficoltà. Ma non evochiamo, per carità, la definizione
di ‘generazione covid’. Non ci sarà nessuna ‘generazione covid’, almeno che gli
adulti non la facciano esistere. I nostri figli hanno vissuto un’esperienza durissima,
che ha lasciato ferite. Non c’è dubbio. Ma identificare qualcuno con la sua
ferita è fomentare l’alibi torbido della vittima. L’etica della psicoanalisi va
in tutt’altra direzione; noi crediamo che il soggetto sia sempre responsabile.
Non ovviamente di ciò che gli accade, ma di quello che fa di ciò che gli
accade. Sarà importante anche l’azione della scuola: gli insegnanti dovranno
accompagnare i nostri figli in questa difficile elaborazione del trauma. A
questo serve, in fondo, la cultura, non credi? A rendere formative anche le
esperienze che appaiono solo negative. Anzi, proprio quelle esperienze sono,
come ogni educatore sa bene, le più formative”.
Il caro amico Enzo Bianchi,
dal suo nuovo eremo, continua ad accogliere tutti e a parlare con parole
d’amore. Come hai vissuto la sua triste vicenda?
“Male. Malissimo. È motivo di grande pena
per me. È stato il naufragio di una delle esperienze cristiane più
interessanti del nostro paese. Un disastro. Credo vi sia stato, come ho anche
scritto pubblicamente, un problema di eredità. Il carisma del padre non ha
accettato di tramontare; i figli volevano la sua pelle. Difficile poi ritornare
a pronunciare parole come dialogo, perdono e riconciliazione”.
Su cosa stai lavorando e
quale sarà il prossimo libro che ci regalerai?
“Due mesi fa è uscito un libro, di cui hai
anche scritto e a cui tengo molto. Un libro che interroga un grande tema della
riflessione di Lacan, quello relativo all’inesistenza del rapporto sessuale.
Esiste il rapporto sessuale? Questa domanda non avrebbe senso se non in un
ambiente lacaniano. La tesi che sviluppo è che il cinismo di Lacan coglie una
verità della struttura: i Due non potranno mai fare Uno. Ma che questa
impossibilità, come del resto anche Lacan accenna, è la radice della possibilità
dell’amore. Il desiderio amoroso, infatti, non mira affatto all’unificazione, a
rendere possibile il rapporto sessuale, a fare o a essere Uno con l’Altro, ma a
riconoscere il segreto inassimilabile dell’Altro. Dunque, è proprio il non
rapporto a rendere possibile l’amore come rapporto. Non è forse sempre così?
Cosa amiamo se non il segreto irraggiungibile dell’Altro? Anche su questo la
Bibbia avrebbe del resto molto da dire. Non a caso gli amanti del Cantico dei
Cantici si incontrano all’uscita da un deserto. È ciò che dice anche Lacan: gli
amanti sono senza patria, sono due esiliati”.
Nessun autore accetta di svelare il
contenuto di ciò che bolle in pentola. Ma qualcosa bolle. Sono certo che presto
Recalcati ci servirà la nuova pietanza, dove Bibbia e psicoanalisi,
psicoanalisi e Bibbia continueranno a dirci chi siamo, a indicarci le strade
possibili da seguire. Il cammino, come la scrittura, continua.
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