e
con gli scritti della maturità?
È di questi giorni la presa di posizione
del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani il quale,
intervenendo al Tg2 Post si è chiesto se abbia ancora senso «fare tre o quattro
volte le guerre puniche nel corso di dodici anni di scuola», quando invece oggi
urge «impartire un tipo di formazione un po’ più avanzata, più moderna, a
cominciare dalle lingue, dal digitale. Bisogna cambiare l’assetto».
Non è la prima volta che Cingolani
mostra una certa avversione per le guerre puniche. Già in passato le aveva
assunte come esempio eclatante dell’arretratezza dei nostri programmi
scolastici. «Cosa hanno studiato a scuola i miei figli?», si era chiesto in
quell’occasione. «Le guerre puniche, come me che ho 56 anni ma che appartengo
alla generazione carta e penna». Si colloca sulla stessa linea la forte spinta
che in questi giorni viene esercitata sul ministro della Pubblica istruzione
Bianchi per mantenere anche quest’anno la formula adottata l’anno scorso per
gli esami di Stato: un’unica prova orale, a partire da un elaborato su un tema
in precedenza assegnato dal Consiglio di classe allo studente e riguardante una
disciplina caratterizzante l’indirizzo di studi.
Nei giorni scorsi è stata avanzata su
Change.org una petizione di studenti, che ha già superato le 40.000 firme, in
cui si dice: «Noi studenti maturandi chiediamo l’eliminazione delle prove
scritte all’esame di maturità 2022, poiché troviamo ingiusto e infruttuoso
andare a sostenere un esame scritto in quanto pleonastico, i professori
curricolari nei cinque anni trascorsi, hanno avuto modo di toccare con mano e
saggiare le nostre capacità. L’ulteriore stress di un esame scritto remerebbe
contro un fruttuoso orale indispensabile come primo passo verso l’età adulta».
Come si vede, non si invoca lo stato di eccezionalità legato agli impedimenti che la didattica ordinaria ha avuto in questi ultimi due anni di totale o parziale lockdown, ma l’inutilità intrinseca di un esame scritto come prova di maturità. Da parte sua il ministro non si è ancora pronunziato, ma ha lasciato capire che personalmente non vede alcun problema dal punto di vista culturale: «Il giudizio di quanto fatto lo scorso anno», ha dichiarato, «è buono. I ragazzi non hanno fatto tesine raffazzonate ma hanno colto questo momento di riflessione anche sulla loro condizione degli ultimi due anni». Bisogna dire che a insorgere contro questa ipotesi sono stati invece, i sindacati della scuola, i quali hanno unanimemente rivendicato l’importanza insostituibile almeno dello scritto di italiano.
Ripetitività degli studi e crescita umana degli
studenti
Sulla base di queste ultime notizie dal
fronte scolastico, non sembra azzardato osservare che il virus non è la sola
minaccia che incombe sulla scuola italiana. Per quanto gravi siano stati i
danni prodotti dalla pandemia e dalla conseguente necessità di ricorrere alla
didattica a distanza (DaD), essi sono ancora solo dei disturbi passeggeri
rispetto al pericolo di una radicale svalutazione culturale ed educativa che
ormai da tempo minaccia la nostra istituzione scolastica e che sembra acuirsi
ultimamente sotto la pressione dell’emergenza.
In realtà la polemica contro un sistema
di studi che trascuri il presente per privilegiare unilateralmente il passato
(le guerre puniche) sarebbe del tutto legittima. Ma supponiamo che il ministro
Cingolani sappia quanto lontano sia oggi il curriculum di qualunque corso di
studi da questo modello obsoleto. Le lingue e l’informatica sono da tempo
entrate a pieno titolo nella nostra scuola e contrapporle allo studio della
storia antica può avere solo il significato di una denunzia dell’inutilità di
quest’ultima.
Vero è che gli stessi eventi storici
vengono studiati più di una volta, via via che lo studente progredisce in età e
passa da un livello all'altro di istruzione. Ma questo è ovviamente dovuto al
diverso grado di maturità con cui egli si accosta allo studio del passato.
Ritenere superfluo riprendere un argomento al superiore, dopo averlo studiato
alla scuola primaria, sarebbe come pensare che sia inutile visitare da adulto
una città dopo esserci stato da bambino con i genitori.
Peraltro il problema non si pone solo
per la storia. Tutto il corso di studi è segnato da una apparente ripetitività
che consente, in effetti, il progressivo adeguarsi dei ragazzi alla ricchezza
di significato delle discipline che studiano. Qui la questione di fondo è se
valga la pena dedicare tanto tempo a queste discipline.
Ciò che è utile e ciò che è importante
Perché nessuno può negare che, come ha
detto il ministro Cingolani, oggi sia più utile studiare le lingue e l’informatica
che non la storia, la lingua e la letteratura greca, la filosofia e che, se
vogliamo adeguarci agli standard europei e del mondo occidentale, la scuola
debba sempre più dare spazio alle prime rispetto alle seconde.
La questione è se davvero ciò che è più
utile sia anche più importante. Oggi siamo portati a far coincidere i due
concetti: qualcosa è importante se è utile. Il denaro, per esempio. Ma siamo
sicuri che sia davvero così? Basta, per dubitarne, prendere semplicemente atto
che qualcosa è utile se “serve” a qualcos'altro. Ma proprio ciò implica che non
valga di per sé, bensì per quello a cui è funzionale.
Utili sono i mezzi. Una cosa importante,
invece, deve esserlo di per sé, come lo è un fine. Siamo in una società dove
domina quella che Max Horkheimer, uno dei fondatori della Scuola di
Francoforte, definiva «ragione strumentale», vale a dire una razionalità tutta
volta a conseguire dei risultati pratici, a scapito della valutazione della
verità e del valore intrinseco della realtà. Oggi spesso le nostre vite si
modellano su questo tipo di “ragione”, che ci permette di calcolare come fare
ad ottenere un risultato o a raggiungere uno scopo, ma non di valutare se quel
risultato o quello scopo valgano davvero la pena di essere perseguiti.
La ragione strumentale è cieca di fronte
ai fini, perché è specializzata negli strumenti ed è essa stessa solo una
strumento. Vediamo tutti gli effetti di questa deriva. Essa è particolarmente
evidente nel predominio della tecnica, che si occupa appunto di elaborare i
metodi e le procedure per raggiungere degli scopi, facendoli prevalere sulla
capacità degli esseri umani di individuare e valutare, dal punto di vista del
bene e del male, questi scopi. Che la scoperta dell’energia atomica sia utile è
fuori questione. Ma può esserlo per distruggere una città – come è accaduto a
Hiroshima e Nagasaki – , oppure per illuminarla.
Allo stesso modo l’abilità
nell’utilizzazione dell’informatica è preziosa, ma può servire
indifferentemente a scopi di pace o di guerra, a migliorare la vita di tutti o
alla egoistica affermazione personale. La tecnica, essendo per sua natura
fondata sulla razionalità strumentale, non può dire nulla, per definizione, su
quale sia l’uso migliore da fare dei suoi prodotti.
Qualcosa di analogo vale per le lingue
moderne, soprattutto per l’inglese, che sono una preziosa risorsa per la
comunicazione, ma possono servire a comunicare qualunque cosa, sia messaggi
d’amore che minacce di morte.
Naturalmente le si può studiare, come
quelle antiche, nella loro valenza logica e nelle loro espressioni letterarie,
ma non è certo in questo senso che ne parlava il ministro Cingolani e che oggi
molti ne caldeggiano un ruolo sempre maggiore nella scuola. Dietro la loro
posizione c’è la constatazione che l’economia ha bisogno di “capitale umano”
qualificato nello svolgere certi ruoli e che l’Italia è ancora indietro,
rispetto ad altri Paesi, nella formazione di questo “capitale”. Di passaggio
sarebbe il caso di ricordare che con quest’ultimo termine si sono sempre indicati
degli strumenti per produrre – denaro, macchinari, materie prime – , cose
“utili”. È così sicuro che una persona possa essere ridotta a “capitale”?
Ancora una volta siamo davanti al problema di ciò che è utile e ciò che è
importante.
Un essere umano vale solo perché “serve”
a qualcosa? Qualcuno obietterà che è solo un modo per intendersi. Ma il
linguaggio ci plasma e a forza di dire che la scuola deve produrre “capitale
umano”, invece di parlare della sua funzione educativa, stiamo finendo per
credere che studiare certe discipline “inutili” (ma importantissime) sia tempo
perso.
Per una scuola che aiuti i ragazzi a “nascere”
Non si tratta solo di nozioni. Le guerre
puniche, come qualunque altra vicenda storica, sono da studiare come punto di
partenza di una riflessione critica che colga il senso degli eventi del passato
per educare alla lettura di quelli del presente. Nella scuola l’insegnare
(letteralmente: l’imprimere in qualcuno una conoscenza, un’abilità) è
fondamentale, ma deve sempre essere finalizzato all’educare (dal latino
e-ducere: condurre fuori, metafora dell’opera dell’ostetrico durante il parto).
La scuola dovrebbe educare a pensare e,
attraverso questa riflessione, ad instaurare un corretto rapporto con se
stessi., paragonabile alla nascita E su questo terreno il nostro sistema
scolastico ha perduto negli anni molta della sua incisività.
Lo sbandamento umano a cui i nostri ragazzi sono in larga misura soggetti –
non certo solo per colpa della scuola, ma senza che essa riesca ad arginarlo –
si manifesta in molti modi, ma è spietatamente evidenziato dalla percentuale di
neet («Neither in Employment or in Education or Training»), i giovani che non
studiano e neppure lavorano, che nel nostro Paese, nella fascia tra i 18 e i 24
anni, nel 2020 è stata del 24,8%!
Qualcuno si chiederà che cosa c’entri in
tutto questo l’eventuale abolizione dello scritto di italiano. La scrittura ha
una funzione fondamentale nella formazione di una capacità di oggettivare i
problemi, in una certa misura, anche il proprio mondo interiore. In un clima
culturale che esalta l’emotività fino ai limiti dell’irrazionalità, è
importante che si impari a fissare in un discorso organico sentimenti e
pensieri per imparare a guardarli, per così dire, dal di fuori.
Altrimenti capita che la sola esperienza
di scrittura sia quella che si realizza sui social, dove essa diventa
espressiva di stati d’animo incontrollati e nebulosi. L’esame non è solo lo
sbocco degli studi, ne è anche il punto di riferimento durante tutto il loro
svolgimento. Un esame che include la prova scritta esige che negli anni di
formazione gli studenti si esercitino a scrivere, per raccontare se stessi, le
cose che studiano, il mondo.
Sopravviverà la nostra scuola al virus
della sua “modernizzazione”? Dipende da tutti noi. Sarebbe ora che l’opinione
pubblica si interessasse della sua sorte un po’ di più di quanto abbia fatto in
questi ultimi anni. E che, invece di andare a dare pugni sul naso ai docenti, i
genitori stringessero con loro un patto per aiutare i propri figli a nascere.
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