Le novità di questo Sinodo
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di Giuseppe Savagnone*
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Si è aperto
solennemente, lo scorso 9 ottobre, il Sinodo dei vescovi di tutto il mondo,
indetto per riflettere proprio sulla sinodalità. Un termine che – dal
greco syn (insieme) e odos (cammino) – indica
un modo di essere Chiesa al tempo stesso comunitario e dinamico, del tutto
abituale nella tradizione ecclesiale più antica, ma via via smarrito, nel corso
dei secoli, con il progressivo irrigidirsi di strutture verticistiche e con il
degenerare della distinzione fra gerarchia e laicato in un netto dualismo.
Dopo il
Concilio Vaticano II, l’esigenza di tornare a uno stile sinodale si è
concretizzata nell’istituzione di periodici momenti di confronto tra
rappresentanti dei vescovi di tutto il mondo, come quello che si è appena
inaugurato.
Esso, però,
presenta due peculiarità, che lo distinguono da quelli precedenti. La prima è
che il tema su cui è chiamato a riflettere è la stessa sinodalità. In questo
modo la caratteristica di questo Sinodo è che esso raggiungerà l’obiettivo
della sua ricerca nel suo stesso modo di condurla. Il cammino e la meta qui
coincidono.
Ma c’è una
seconda novità che rende questo Sinodo unico, ed è il fatto che esso non
coinvolgerà soltanto i vescovi, ma tutto il popolo di Dio. Già il primo Sinodo
sulla famiglia era stato preceduto da uno sforzo di ascolto capillare della
base. Ora però questo momento di confronto fa parte organicamente del cammino
sinodale, di cui l’incontro finale tra i vescovi, nel 2023, costituirà solo il
sigillo conclusivo.
Il
“corto-circuito” virtuoso fra il percorso e la meta, per cui la sinodalità non
è solo il tema di un’astratta riflessione, ma lo stile concreto con cui essa
deve essere condotta, investe perciò non soltanto i padri sinodali che
parteciperanno alla sessione finale, ma tutti i membri del popolo di Dio.
In questo modo,
però, la sinodalità cessa di essere un oggetto particolare di indagine e viene
proposta come un metodo, una prassi della comunità cristiana a tutti i suoi
livelli. Come dice il Vademecum, «la sinodalità non è tanto un evento o uno
slogan quanto uno stile e un modo di essere con cui la Chiesa vive la sua
missione nel mondo» (n.1.3).
In una simile
ottica, essa, da innocuo argomento teologico, si trasforma nel criterio per un
coraggioso esame di coscienza delle comunità cristiane – diocesi, parrocchie,
gruppi e movimenti – e, al tempo stesso, in una prospettiva ineludibile per il
futuro: «L’interrogativo fondamentale che guida questa consultazione del Popolo
di Dio è il seguente: Una Chiesa sinodale, annunciando il Vangelo, “cammina
insieme”: come questo “camminare insieme” si realizza oggi nella vostra Chiesa
particolare? Quali passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere nel
nostro “camminare insieme”?» (Documento Preparatorio n.26).
Non sarà facile
condurre con coerenza e fedeltà questo impegno. Esso costringe tutti – vescovi,
presbiteri, religiosi e laici – a rimettersi in discussione e forse a compiere,
come all’inizio della celebrazione eucaristica, un serio atto penitenziale.
Perché lo stile di gran parte delle nostre comunità – a cominciare dalle
parrocchie e dalle diocesi – è lontanissimo dalla logica sinodale.
I rischi
Naturalmente è
necessario, qui, evitare generalizzazioni. Ma sicuramente questa diagnosi vale
per la situazione della Chiesa nel nostro Paese. Forse è per questo che papa
Francesco ha fortemente voluto, vincendo le resistenze della maggior parte
degli stessi vescovi italiani, che al Sinodo mondiale se ne affiancasse uno
specifico per l’Italia. Esso nel primo anno coinciderà con quello dei vescovi,
per poi svilupparsi però, nel corso di altri tre anni, con esclusivo
riferimento alla situazione della Chiesa italiana.
E valgono
sicuramente per quest’ultima i rischi segnalati dal Pontefice nel suo discorso
di apertura del Sinodo mondiale: il formalismo, l’intellettualismo,
l’immobilismo.
Formalismo e
intellettualismo: il pericolo dell’aridità e dell’astrattezza
Il primo grande
rischio di una esperienza come questa del Sinodo, che implica comunque un
impegnativo aspetto organizzativo, è di esaurirsi in una serie di procedure.
Già nel vademecum esso è bene individuato: «Più che rispondere semplicemente a
un questionario, la fase diocesana ha lo scopo di offrire al maggior numero
possibile di persone un’esperienza veramente sinodale di ascolto reciproco e di
cammino percorso insieme, sotto la guida dello Spirito Santo» (Vademecum 4.1).
L’esperienza di
altre iniziative che in passato hanno mirato a rinnovare la pastorale – penso
al “Progetto culturale” varato alla metà degli anni Novanta del secolo scorso –
insegna che è una tentazione dei protagonisti della pastorale ordinaria
relegare tutte le novità in uno spazio di puri adempimenti formali – in questo
caso nomina di referenti diocesani, di animatori di gruppi di ascolto, di diffusione
di questionari – che in realtà non incidono affatto sulla sostanza delle
pratiche abituali.
Il problema è
anche legato alla carenza di tempo e di forze. Opportunamente, perciò, si
precisa nel Vademecum che la sinodalità «non deve essere vista come un peso
opprimente che fa concorrenza alla pastorale locale», ma «dovrebbe esprimersi
nel modo ordinario di vivere e di operare della Chiesa» (1.1 e 1.2). Non si
tratta di “aggiungere” qualcosa alla pastorale ordinaria di parrocchie e di
diocesi, ma di cambiarne la qualità. Proprio questa – non il fare “cose” – è la
sfida più difficile.
«Un secondo
rischio» – ha detto il papa aprendo il Sinodo – «è quello
dell’intellettualismo – l’astrazione, la realtà va lì e noi con le nostre
riflessioni andiamo da un’altra parte –: far diventare il Sinodo una specie di
gruppo di studio, con interventi colti ma astratti sui problemi della Chiesa e
sui mali del mondo». Il pericolo è reale e corrisponde a una pratica della
ricerca teologica che a volte ignora e sorvola i reali problemi del popolo di
Dio.
Anche se forse
è bene ricordare che l’impegno volto a rendere la Chiesa portatrice di una
nuova cultura – impegno per cui il ruolo degli intellettuali è fondamentale,
anche se non esclusivo – appare decisivo per far nascere nel mondo
contemporaneo un “nuovo umanesimo”, alternativo alla disumanità dilagante del
nostro tempo, e fa certamente parte degli obiettivi sinodali.
L’immobilismo
e il clericalismo
Il terzo
pericolo segnalato da papa Francesco è l’immobilismo: «Siccome “si è sempre
fatto così” – questa parola è un veleno nella vita della Chiesa, “si è sempre
fatto così” –, è meglio non cambiare». O, peggio, moltiplicare i restauri di
facciata, senza mutare la sostanza. È la minaccia di ogni sforzo mirante al
rinnovamento della Chiesa come della società: ostentare di “cambiare tutto”,
perché in fondo nulla cambi.
Anche
l’insistenza sul tema dell’annuncio del vangelo al mondo contemporaneo da parte
della Chiesa rischia di mascherare la ben più impegnativa questione della
identità e dei problemi della Chiesa stessa.
Se si entra in
questa scomoda problematica, si è costretti a fare i conti con deformazioni
consolidate, ben difficili da smontare. Una di esse, radicatissima, riguarda il
rispettivo ruolo dei presbiteri e dei laici. «La Chiesa tutta» – dice il
Documento preparatorio, citando papa Francesco – «è chiamata a fare i conti con
il peso di una cultura impregnata di clericalismo, che eredita dalla sua
storia, e di forme di esercizio dell’autorità su cui si innestano i diversi tipi
di abuso (di potere, economici, di coscienza, sessuali)» (n.6).
L’importanza
della partecipazione
Il solo
antidoto possibile è la partecipazione. «È impensabile “una conversione
dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del
Popolo di Dio”» (Documento preparatorio n.6, che cita ancora papa Francesco).
Bisogna «sconfiggere la piaga del clericalismo: la Chiesa è il Corpo di Cristo
arricchito di diversi carismi in cui ogni membro ha un ruolo unico da svolgere»
(Vademecum 2.3).
Su di essa ha
insistito il pontefice nel suo discorso di apertura del Sinodo. Partendo dalla
constatazione che il termine “partecipazione” si colloca tra gli altri due
“comunione” e “missione”, Francesco ha sottolineato che esso è essenziale per
dare loro un vero contenuto ecclesiale. «Se manca una reale partecipazione di
tutto il Popolo di Dio», ha detto, «i discorsi sulla comunione rischiano di
restare pie intenzioni». Quanto alla missione, rischia di essere delegata solo
al clero e ai religiosi.
E partecipazione
significa dialogo: «Tutti sono invitati a parlare con coraggio e parresia, cioè
integrando libertà, verità e carità. Come promuoviamo all’interno della
comunità e dei suoi organismi uno stile comunicativo libero e autentico, senza
doppiezze e opportunismi? E nei confronti della società di cui facciamo parte?
Quando e come riusciamo a dire quello che ci sta a cuore? Come funziona il
rapporto con il sistema dei media (non solo quelli cattolici)?» (Documento
preparatorio n.30).
Soprattutto
però, nel dialogo, è fondamentale il momento dell’ascolto. «La capacità di
immaginare un futuro diverso per la Chiesa e per le sue istituzioni all’altezza
della missione ricevuta dipende in larga parte dalla scelta di avviare processi
di ascolto, dialogo e discernimento comunitario, a cui tutti e ciascuno possano
partecipare e contribuire» (Documento preparatorio n.9).
Sono solo
alcuni spunti che fanno emergere, però, la problematicità del percorso che la
Chiesa universale, e quella italiana in particolare, si accingono a
intraprendere. È evidente lo stretto intreccio fra i rischi e le opportunità
che il cammino sinodale, come ogni viaggio nell’ignoto, implica. Ma anche
l’evento del parto è un rischio. E noi possiamo sperare che anche per la Chiesa
questo Sinodo sia una rinascita.
*Pastorale
Cultura Diocesi Palermo
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