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sabato 4 settembre 2021

SORDI E MUTI


-  Ventitreesima domenica durante l’anno - Is 35,4-7/Gc 2,1-5/Mc 7,31-37

 - Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

 Commento di p. Paolo Curtaz

Balbuzie

 Essere sordi, nella Bibbia, significa non accogliere il messaggio di salvezza di Dio.

È Israele, di solito, a manifestare sordità, come ci ricorda la prima lettura di Isaia.

Anche noi, travolti dalle mille cose da fare, attorniati da rumori, da chiacchiere, da opinioni, storditi e diffidenti, impauriti e stressati dopo un anno e mezzo di pandemia, fatichiamo ad ascoltare il desiderio profondo di senso che portiamo nel cuore, fatichiamo a sollevare lo sguardo, fatichiamo a cercare Dio.

Basta farsi un giro sui social in cui tutti esprimono opinioni rabbiose, offensive, trancianti. Il confronto sulle idee si è trasformato in un clima di rissa continua, sostituendo alla fermezza una cattiveria rabbiosa, dando spazio a dietrologie, complottismi, sbandamenti.

Siamo sordi, verso Dio, verso i fratelli, verso noi stessi, incapaci di ascoltare la nostra anima.

Non sappiamo più comunicare, usando parole pesanti, urlando, insultando.

Sordi. E muti.

Proprio come il protagonista del vangelo di oggi definito, nel greco particolare di Marco, un sordo/balbuziente, che non riesce a farsi capire, che stenta a relazionarsi, destinato ad una chiusura al mondo esterno.

Immagine dell’uomo contemporaneo, solo e narcisista, smarrito e alla ricerca di una qualche visibilità, tutto incentrato nella propria (improbabile e sempre più inaccessibile) realizzazione.

L’insoddisfazione è la caratteristica principale dell’uomo post-moderno.

E la nostra. La mia.

Non riusciamo ad ascoltare, non riusciamo più a farci ascoltare.

Fuori dal recinto

Al tempo di Gesù, si credeva che la santità fosse inversamente proporzionale alla distanza da Gerusalemme. La Giudea poteva ancora salvarsi, ma la Galilea e la Decapoli, oltre la Samaria, zone di confine, abitate da popolazioni miste, erano decisamente perdute.

La scena è ambientata in una delle Decapoli, le dieci città a maggioranza pagana che Roma aveva voluto autonome dall’amministrazione ebrea, nella cinica politica del dividi et impera. I pii israeliti, per scendere a Gerusalemme, passavano oltre il Giordano, sulla strada che attraversava i territori pagani, ma senza mai entrare nelle città considerate perse per non contaminarsi.

Gesù, invece, inizia la sua predicazione proprio da lì, dalle tribù di Zabulon e Neftali, le prime a cadere sotto gli Assiri, seicento anni prima della sua venuta. Perché egli è venuto per i malati, non per giusti.

Non fugge gli impuri e li condanna, come fanno i Perushim, i farisei. Li salva.

La guarigione del Vangelo di oggi, fa esclamare alla folla: ha fatto bene ogni cosa, ha fatto vedere i ciechi, ha fatto udire i sordi!

Solo chi non si aspetta la salvezza sa gioire così tanto quando si scopre salvato!

Solo chi vive del giudizio altrui e della condanna, sa cosa significa scoprirsi improvvisamente accolto e amato. Solo chi è condannato a prescindere sa cosa significa essere amati per ciò che si è.

Guarigioni

È condotto da amici, il sordo/balbuziente.

Sono sempre altri a condurci a Cristo, a parlarci di lui, a indicarcelo.

La Chiesa, a volte incoerente e fragile, è la compagnia di coloro che conducono a Cristo.

Dei feriti guariti.

È questa la funzione della Chiesa, a questo “serve” la Chiesa: a rendere testimonianza al Maestro.

Ma, lo sappiamo, ci vuole umiltà per farsi condurre.

Il nostro mondo ha fatto dell’arroganza uno stile di vita: trovo molte persone che sanno tutto, che pontificano, che giudicano, specialmente nelle cose concernenti la fede, ma che non sanno davvero mettersi in discussione.

Del vangelo sappiamo già tutto: ci siamo sorbiti quattro anni di catechesi, cosa c’è altro da imparare?

Nulla, perché la fede è anzitutto incontro. E dopo l’incontro, l’amore spinge alla conoscenza.

Ma per incontrare occorre muoversi, uscire dalle proprie presunte certezze acquisite.

Siamo sordi all’invito della Parola. Sordi a quanto il Signore vuole farci capire.

Gesù porta il sordo/balbuziente in un luogo riservato.

In mezzo al caos quotidiano e alla folla non riusciamo davvero ad ascoltare.

La ricerca di fede avviene personalmente, cuore a cuore, in un atteggiamento reale di accoglienza. Dio ci parla ma, per accoglierlo, occorre zittirci. Lo allontana dal villaggio, lo porta in disparte.

Nel vangelo di Marco, spesso, la folla ha un ruolo ambiguo e negativo. Influenza il pensiero, irrigidisce, costringe. Pensiamo col pensiero degli altri.

Perciò, per incontrare veramente Dio, abbiamo necessità di isolarci, di rientrare in noi stessi.

Di restare soli con l’Assoluto.

Gesti

Gesù compie dei gesti di guarigione: sospira, tocca la lingua del malato.

Allora si pensava che la saliva contenesse il fiato, Gesù intende trasmettere il proprio spirito all’uomo, e vi riesce.

La nostra vita di fede ha bisogno di segni, di concretezza, di sacramenti.

La fede scoperta è vissuta e celebrata, fatta di gesti in cui riconosciamo l’opera del Signore per noi, per l’umanità. Ma, e accade, se siamo guariti è per annunciare agli altri la nostra guarigione profonda.

In Marco, però, Gesù impone il silenzio.

Perché?

Gli esegeti pensano che, forse, Gesù non voleva essere scambiato per un guaritore qualunque, per un santone. La guarigione è sempre segno ed esplicitazione di qualcosa di profondo.

Aggiungo io, birichino, che se dietro Marco c’è Pietro, allora forse ci vuole dire di non professare il messianismo di Gesù se prima non si è passati attraverso la croce.

Abbiamo bisogno di cristiani guariti, di annunciatori di speranza, di credenti riconciliati.

Credibili. Noi che abbiamo udito le meraviglie di Dio possiamo proclamare come la folla: ha fatto bene ogni cosa.

Sogno e son desto

È per questo che Isaia, il grande e tenero Isaia, spalanca gli occhi davanti a un popolo rassegnato, sfiancato da settant’anni di prigionia a Babilonia, ormai convinto che Dio non ci sia più, e sogna. Sogna un ritorno, una terra in cui la sofferenza non esiste più e l’abbondanza delle acque che riempie i cuori.

Un sogno che è anche quello di Dio e che si avvererà per Israele con il ritorno a Gerusalemme e, per noi, con la venuta del Regno.

Questa salvezza, questa buona notizia, questo gioioso annuncio, ammonisce Giacomo, deve essere visibile sin d’ora nelle nostre comunità.

Se l’asfalto del conformismo ha appiattito l’attenzione al povero e allo straniero, Giacomo ci richiama con forza alle nostre responsabilità di salvati.

La Chiesa, che è il popolo di chi è stato sanato dalle proprie ferite con l’olio della consolazione di Gesù, imita lo stesso gesto verso l’umanità fatta a pezzi e ferita dall’odio e dal peccato.

Noi siamo il volto di Dio per il fratello perduto.

 Lasciamoci toccare, lasciamoci guarire.

 

Cerco il tuo volto



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