La polemica che divampa negli Stati
Uniti, dopo l’approvazione, ai primi di settembre, della nuova legge dello
Stato del Texas, con cui si limita il diritto di aborto, ha un rilievo che va
oltre i confini americani e spinge a un confronto tra il modello di donna
adottato dall’Occidente e quello imposto dai talebani in Afghanistan. Un
confronto suggerito, peraltro, dall’appellativo di “Taliban State” attribuito
dai critici “liberal” al Texas.
A suscitare l’ondata di proteste – lo
stesso presidente Biden, ha definito quella del Texas una «legge estrema» che
«viola apertamente il diritto costituzionale» – è il fatto che la nuova legge
fissa in sei settimane il tempo massimo entro cui poter procedere
all’interruzione di gravidanza.
L’ira dei democratici in realtà si è
estesa anche nei confronti della Corte suprema che, dopo le tre nomine fatte da
Donald Trump, ha una maggioranza “conservatrice”, e che ha rifiutato di
sospendere la nuova legge texana. «Con il favore delle tenebre, scegliendo di
non fare nulla, la Corte suprema ha consentito che una legge incostituzionale
sull’aborto entrasse in vigore la scorsa notte», ha twittato Hillary Clinton,
da sempre decisa sostenitrice del diritto di aborto, dopo la decisione della
Corte.
Il principio di autodeterminazione
alla base del diritto all’aborto
Per capire la rivoluzione apportata
dalla legge del Texas bisogna ricordare la famosa sentenza Roe v. Wade con cui,
il 22 gennaio 1973, proprio la Corte Suprema degli Stati Uniti si è riferita al
XIV
Emendamento della Costituzione, che prevede il diritto alla libera
scelta per quanto riguarda le questioni della sfera intima di una persona,
stabilendo che l’aborto è legittimo per qualsiasi ragione la donna lo voglia (e
non solo per quelli di eugenetica o di salute), fino al momento in cui il feto
non sia in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero materno (in pratica,
entro i sette mesi di gravidanza).
La svolta del Texas appare
particolarmente problematica, perché restringe la possibilità dell’aborto entro
limiti temporali molto ristretti – i critici fanno notare che a sei settimane
molte donne non sanno neppure di essere incinte – e non prevede eccezioni
neppure in caso di incesto o di stupro. Però è chiaro che lo scontro non
riguarda tanto questi aspetti concreti, quanto il principio generale della
libera autodeterminazione della donna, sancito dalla sentenza del 1973 e ora
rimessa in discussione dalla legge texana con la implicita approvazione della
nuova Corte suprema.
Da questo punto di vista si capisce
che la questione non riguarda solo gli Stati Uniti. È tutto l’Occidente a
considerare ormai da tempo il diritto di aborto un principio di civiltà,
proprio in nome della libertà della donna.
Sarebbe un motivo in più per
denunziare la violazione dei diritti delle donne da parte dei talebani.
Nell’Islam, infatti, dove si ritiene che il feto riceva l’anima solo dopo
120 giorni dal concepimento, l’aborto dopo il quarto mese è considerato un
omicidio, salvo che quando sia in pericolo la vita della madre. Dobbiamo
indignarci anche per questo?
Prima di farlo è il caso, forse, di
chiederci se il “diritto di abortire” si possa allineare a quelli spesso citati
in questi giorni e violati dai talebani: il diritto a studiare, a svolgere una
professione, a fare sport…
Esseri umani e persone
A metterlo in dubbio, per la verità,
è uno degli studiosi più decisamente favorevoli alla legittimità etica e
giuridica dell’aborto, Peter Singer, il quale fa presente in un suo libro che
qui la variante è la presenza di un “altro”, che è l’embrione o il feto.
Perciò, egli osserva, appellarsi alla libertà della donna – come fa la sentenza
Roscoe v. Wade – «può essere una buona politica, ma certo è cattiva
filosofia. Presentare il problema dell’aborto come una questione di
libertà di scelta individuale (…) significa già di per sé presupporre che il feto
in realtà non conta nulla. Chiunque pensi che un feto umano ha lo stesso
diritto alla vita degli altri esseri umani non potrà mai ridurre il problema
dell’aborto a una questione di libertà di scelta, più di quanto possa ridurre
la schiavitù a una questione di libertà di scelta da parte degli schiavisti»
(P. Singer, Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più,
Milano 1996).
In realtà il famoso bioeticista
australiano è convinto che l’aborto sia lecito e vada legalizzato. Ma perché
pensa di poter dimostrare che gli embrioni/feti non hanno «lo stesso diritto
alla vita degli altri esseri umani». Biologicamente appartengono anch’essi, è
vero, alla nostra specie. Questo Singer, come del resto qualsiasi studioso
serio, non lo nega. C’è il Dna ad attestarlo e rifiutare l’identità umana
all’embrione sarebbe mettersi contro la scienza. E allora?
Per Singer, come per Engelhardt, per
Tooley, per Regan – per tutti i grandi bioeticisti che giustificano l’aborto –,
dobbiamo avere il coraggio di rimettere in discussione quella che spesso viene
considerata una certezza indiscutibile, e cioè il valore della vita umana come
tale. «Perché è moralmente sbagliato», si chiede Singer, «sopprimere una vita
umana? (…). Che cosa c’è di così speciale nel fatto che una vita sia umana?».
Per questi autori se mai il valore da
tutelare sono le persone. Ma, essi spiegano, “persone” si possono considerare
solo gli esseri umani dotati di autocoscienza. Perciò, come dice lapidariamente
un altro notissimo studioso, Engelhardt, «non tutti gli esseri umani sono
persone. Non tutti gli esseri umani sono autocoscienti, razionali e capaci di
concepire la possibilità di biasimare e lodare. I feti, gli infanti, i
ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono
esempi di non-persone umane» (H. T. Engelhardt, Manuale di bioetica,
Milano 1991). Questi esseri sono umani, ma, non essendo persone, possono essere
uccisi, o usati per esperimenti, senza violare in nulla l’etica.
Lo diceva già, in un suo famoso
articolo su Aborto e infanticidio, un altro noto bioeticista,
Tooley, che si chiedeva: «Quali proprietà si devono avere per essere una
persona, cioè per avere un serio diritto alla vita?» La risposta dell’autore è
che «un organismo possiede un serio diritto alla vita solo se possiede il
concetto di sé come soggetto continuo nel tempo di esperienze e altri stati
mentali, e crede di essere una tale entità continua nel tempo» (M.
Tooley, Aborto e infanticidio). Perché ci sia persona, insomma, si
richiede, secondo lui, quello che egli chiama «requisito di autocoscienza».
Ma siamo sicuri che distinguere
esseri umani e persone, subordinando il secondo titolo al possesso di certe
qualità diverse dall’appartenenza alla specie umana, sia una buona idea? Non
possono non ritornare alla mente le civiltà del passato, che in base a questa
distinzione hanno qualificato esseri umani, ma non-persone, gli schiavi, le donne,
gli indios…E forse non è un caso che i diritti umani si applichino a tutti gli
uomini e le donne, a prescindere dal possesso di altri requisiti.
Aborto e infanticidio
Si sarà notato, in Engelhardt, il
riferimento ad altre categorie di non-persone, oltre il feto, tra cui gli
infanti, i bambini piccoli. Questi autori sono unanimi nel ritenere che
anch’essi, pur avendo lo statuto biologico umano, nei primi mesi, non essendo
autocoscienti, non siano persone. Per Engelhardt «le persone in senso stretto vengono
in essere solo qualche tempo – probabilmente qualche anno – dopo la nascita».
Fino ad allora, un bambino, non essendo una persona, può essere eliminato senza
che questo crei un problema morale. Sulla stessa linea è Singer: «Sembrano
esserci solo due possibilità: opporsi all’aborto o consentire l’infanticidio».
Ed è logico, se la giustificazione
dell’eliminazione di un essere umano qual è il feto, è la mancanza di
autocoscienza. Come dice Tooley, «l’osservazione quotidiana chiarisce in modo,
credo, inoppugnabile, che un neonato non possiede un concetto di sé continuo
nel tempo, non più di quanto lo possieda un gatto appena nato. Se è così,
l’infanticidio per un breve intervallo di tempo dopo la nascita deve essere
moralmente accettabile».
Possibilità e potenzialità
A chi obietta che il feto e il
neonato, pur non potendo ancora esercitarla, per sono potenzialmente dotati di
autocoscienza, viene risposto che la potenzialità non è altro che una
possibilità; ma il fatto che l’autocoscienza sia possibile vuol dire
semplicemente che ancora non c’è.
In realtà la potenzialità è qualcosa
di molto diverso – già secondo Aristotele – dalla pura e semplice possibilità.
Quest’ultima, infatti, non comporta che vi sia qualcosa di reale. Qualunque CD
“può” contenere una rara esecuzione della settima sinfonia di Beethoven diretta
da Claudio Abbado. Resta il fatto che non la contiene ancora e che danneggiando
il CD non si cancella questa rara esecuzione. Allo stesso modo, un giovane che
non ha mai studiato l’inglese “può”, in linea di principio, parlare in questa
lingua, ma prima dovrebbe apprenderla e, a chi gli chiedesse in un colloquio di
lavoro, se la parla, dovrebbe onestamente rispondere di no.
La potenzialità, invece, comporta che
qualcosa sia già effettivamente presente, anche se ancora non in forma
esplicita. Se il CD contiene l’esecuzione della settima sinfonia, quest’ultima
– anche se si trova presente in potenza, perché non risuona effettivamente – è
già realmente in essa. E chi conosce bene l’inglese può rispondere
tranquillamente “sì” a chi glielo chiede perché, in potenza, lo parla. Allo
stesso modo implicito anche il feto ha, in potenza, l’autocoscienza.
Rimetterci anche noi in discussione
Viene spontaneo chiedersi: su queste
basi si può davvero parlare di un “diritto ad abortire”? È questo il modello di
libertà femminile che noi occidentali possiamo pretendere di far valere, contro
le evidenti assurdità della posizione islamica su altri punti? Francamente, non
lo penso. Anche noi dobbiamo rimetterci in discussione. E, a chi ritenesse
oscurantista e reazionario il mio dubbio, chiederei di criticare quanto ho
detto con delle ragioni. Lasciamo il fanatismo ai talebani.
*Pastorale
cultura Diocesi Palermo
www.tuttavia.eu
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