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giovedì 30 settembre 2021

SCUOLA MEDIA, IL GRANDE VUOTO



Fondazione Agnelli: in 10 anni cresciuti i ritardi nella formazione dei ragazzi e le disuguaglianze sociali Tra i nodi da sciogliere, il ruolo dei docenti: 3 su 10 sono precari, solo l’1% in cattedra prima dei 30 anni.

Per Andrea Gavosto, il modello educativo «è pensato per studenti più grandi, quasi fosse un miniliceo. Non preadolescenti che hanno bisogno di lavorare in gruppo»

“Bisogna riportare la scuola secondaria di I grado al centro dell’attenzione pubblica per farle ritrovare una missione che garantisca efficacia ed equità: consentire a tutti gli studenti di acquisire apprendimenti di qualità, fare crescere la loro capacità di studiare in autonomia, orientare a scelte più consapevoli degli studi successivi”.

 

-         di PAOLO FERRARIO

Dare una “missione” alla scuola media, la grande dimenticata del nostro sistema d’istruzione. Negli ultimi dieci anni, la scuola secondaria di primo grado non soltanto non è migliorata ma ha perso ulteriore terreno, risultando sempre meno attraente per alunni e insegnanti e cessando di rappresentare il ponte verso l’età matura, caratteristica che ha avuto fino all’innalzamento dell’obbligo scolastico. L’analisi impietosa dello stato in cui versa questo segmento importante della scuola italiana, che dovrebbe rappresentare il “trampolino” verso le scelte future, anche professionali, degli adolescenti, è firmata dalla Fondazione Agnelli che, a dieci anni di distanza dal primo Rapporto sulla scuola media del 2011, è tornata ad indagare sul “triennio di mezzo”, tra elementari e superiori, oggi più che mai simile a un limbo senza un chiaro obiettivo. Ma soprattutto, stando ai dati della ricerca 2021 (che può essere consultata, gratuitamente, sul sito www.fondazioneagnelli. it), la scuola media italiana è un luogo dove «gli studenti imparano meno dei loro coetanei europei e degli altri Paesi avanzati» e le «disuguaglianze sociali e i divari territoriali si accentuano rispetto alla scuola primaria».

A preoccupare è soprattutto quella che il direttore della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto, chiama la «caduta degli apprendimenti tra scuola primaria e scuola media». Stando alle ultime rilevazioni internazionali Timss (matematica e scienze), gli alunni italiani di quarta elementare raggiungono 515 punti, superiori alla media Ocse, mentre in terza media il dato scende a 497 punti, sotto la media dei Paesi industrializzati. Inoltre, si legge nel Rapporto della Fondazione Agnelli, «la scuola media non riesce a ridurre e spesso accentua disuguaglianze sociali, divari territoriali e di genere, differenze di origine già evidenti nei risultati della scuola primaria». Il divario diventa ancora maggiore per gli studenti figli di genitori con un basso titolo di studio (licenza elementare o media) e per chi vive nelle regioni Meridionali.

«Le disuguaglianze dovute all’origine sociale, misurate in base al titolo di studio dei genitori – sottolinea la curatrice del Rapporto, Barbara Romano – sono ben visibili già alla scuola primaria, con una differenza media di 26 punti tra uno studente figlio di laureati e uno che ha genitori con la licenza elementare. Ma poi deflagrano alla scuola media, arrivando fino a 46 punti, che equivalgono a una differenza di quasi tre anni di scuola».

Non sorprende, dunque, che, se questo è il contesto, tanti adolescenti dichiarino apertamente di non trovarsi bene, di non “stare bene” alla scuola media. «È terribile», nota amaramente Gavosto. Già in prima media, non più del 30% delle ragazze e non più del 25% dei ragazzi dà un giudizio “molto positivo” all’ambiente scolastico. Al termine della terza media, il pieno gradimento si riduce ulteriormente, non superando il 10%. Grande è anche la fatica accumulata dagli studenti, nel passaggio dalla scuola elementare alla media che, sottolinea Gavosto, per come è strutturata, con tante materie e numerosi insegnanti, «è pensata per studenti più grandi, quasi fosse un mini-liceo e non per preadolescenti che, per esempio, hanno bisogno di lavorare in gruppo». Così, a partire dalla prima media, 4 su 10 si sentono stressati dal carico di lavoro, condizione che, in terza, riguarda il 48,4% dei maschi e 56,9% delle femmine.

Le cose non vanno bene nemmeno sul fronte degli insegnanti: quasi il 30% è precario, quota che arriva al 60% del totale nel caso dei docenti di sostegno. «A dispetto delle attese – prosegue il Rap- porto della Fondazione Agnelli – nonostante le numerose assunzioni in ruolo della legge della Buona Scuola del 2015 e il recente aumento dei pensionamenti, non si è verificato in questi anni il ringiovanimento dei docenti di ruolo della secondaria di I grado che auspicavamo nello scorso Rapporto: l’età media era poco più di 52 anni nel 2011, ora è poco meno. Mentre 1 docente su 6 ha 60 anni e oltre, coloro che vanno in cattedra prima di 30 anni sono invece un minuscolo drappello: 1 su 100. La scuola media, inoltre, è anche il grado più soggetto alla “giostra degli insegnanti”: da un anno all’altro soltanto il 67% dei docenti rimane nella stessa scuola (83% nella primaria, 75% nelle superiori, dati del 2017-18), con le prevedibili conseguenze negative per la qualità didattica».

Per affrontare le tante criticità evidenziate dal Rapporto, la Fondazione Agnelli avanza una serie di proposte, la prima delle quali riguarda proprio la «valorizzazione degli insegnanti» per «attirare all’insegnamento i migliori laureati». In secondo luogo, «la didattica va modellata alle esigenze specifiche della scuola media», pensandola «come percorso di orientamento al futuro, attraverso strumenti e metodologie didattiche che favoriscano la valorizzazione delle inclinazioni personali e diano indicazioni per le scelte successive ». Infine, la Fondazione Agnelli «sostiene la necessità di un’estensione del tempo scuola alla secondaria di I grado, con la scuola del pomeriggio come scelta ordinamentale», con laboratori e attività sportive, artistiche ed espressive, musicali e coreutiche, teatrali. «Non sembra invece necessaria, in questa fase – conclude il Rapporto – una ristrutturazione dei cicli che porti al superamento della media: se ne è parlato spesso, ma non c’è evidenza convincente che la riorganizzazione possa da sola, senza un intervento sulla qualità della didattica e dei docenti, portare a benefici significativi».

 www.avvenire.it

RAPPORTO 2021 - SCUOLA MEDIA



 

 

mercoledì 29 settembre 2021

EDGAR MORIN: L'ILLUSIONE DELL'UOMO "AUMENTATO"


Noi, la pandemia e il futuro che ci aspetta:

 a colloquio con il filosofo e sociologo francese conosciuto in tutto il mondo per i suoi studi sul "pensiero complesso"

                                                                             Hélène Destombes – Città del Vaticano

Conosciuto in tutto il mondo per i suoi lavori sul “pensiero complesso”, Edgar Morin (pseudonimo di Edgar Nahoum) è nato l’8 luglio 1921 in una famiglia ebrea. Amante della poesia, negli ultimi decenni ha partecipato agli eventi più significativi della nostra storia, ha conosciuto il lutto — ha perso la madre quando aveva solo 10 anni — la guerra e numerose crisi politiche, economiche e sociali. Dall’inizio della pandemia di Covid-19, ha proposto una riflessione sulle lezioni di questa recente crisi, che ha gettato il mondo nell’incertezza, e sui cambiamenti necessari per edificare una società più giusta e fraterna. Ho avuto l’opportunità di incontrare, a Roma, un centenario sempre appassionato dell’umanità e delle sue vicissitudini, che ha conservato la capacità di meravigliarsi e di lasciarsi affascinare dalla realtà.

Che ne pensa della crisi attuale legata alla pandemia di covid-19 che interessa il mondo intero?

Questa pandemia a carattere virale ha suscitato un fenomeno mondiale multidimensionale che non riguarda solo la salute, ma anche la vita quotidiana, con i lockdown che hanno posto il problema del rapporto con il lavoro e hanno cambiato lo stile di vita che avevamo in precedenza. C’è anche il problema della crisi economica e di una crisi della globalizzazione che ha mostrato di non avere creato solidarietà internazionale.

Questa crisi obbliga a quello che io chiamo “un pensiero complesso”, capace di collegare aspetti diversi e di non separare quello sanitario da quello economico, piscologico, o addirittura religioso. Sono implicati tutti gli aspetti della vita umana. È quindi necessario un pensiero molto ampio, che non sia unilaterale, è un punto fondamentale.

Bisogna pure abbandonare un modo di pensare lineare che consisteva nell’avere l’impressione che la storia progredisse e che si potessero prevedere fin da ora gli anni 2030 o 2050, senza tener conto delle enormi incertezze. C’era il regno di un pensiero lineare, di un pensiero puramente quantitativo, che vedeva i problemi umani solo attraverso il calcolo, mentre il calcolo non capisce niente delle nostre emozioni e della nostra vera vita. Il modo di pensare di cui disponiamo non è perciò adeguato a pensare non solo il mondo e noi stessi, ma anche la pandemia.

Quale deve essere il cambiamento di paradigma?

È necessaria una riforma della conoscenza. Non bisogna solo cambiare vita, occorre anche cambiare via. Bisogna non solo rinunciare al consumo di oggetti futili, dal valore puramente immaginario, ma bisogna anche ritornare all’essenziale, a ciò che è umano, ossia le relazioni, lo stare insieme. C’è una riforma della vita che dovrebbe essere attuata e che, purtroppo, ancora non lo è. È necessaria una riforma politica. Bisogna introdurre il gigantesco problema ecologico nella politica: la lotta contro ogni forma d’inquinamento, contro il degrado del suolo, la distruzione della biodiversità e contro il cambiamento climatico. Tutto ciò può dare lavoro, mobilitare forze e creare un’economia che, tra l’altro, avrebbe un carattere sociale e farebbe regredire il potere enorme del profitto sul mondo di oggi. Abbiamo di fronte problemi enormi e la pandemia deve risvegliarci. Purtroppo non ci è ancora riuscita.

Lei ha osservato l’essere umano per decenni, le sue ombre e le sue luci. Crede nella sua capacità di ripensare il nostro modo di vivere, di consumare, ma anche d’interagire?

Un certo modo di consumare sta emergendo molto lentamente in seno a una piccola porzione della popolazione, con l’abbandono di tutto ciò che inquina, ma sta cominciando in forma sparsa. Non c’è una forza politica coerente che consenta di offrire questa prospettiva e di coinvolgere ampiamente le popolazioni. Siamo agli inizi esitanti di quella che potrebbe essere una riforma di vita.

Papa Francesco nei suoi auguri, in occasione del suo centenario, ha reso omaggio alla sua volontà di edificare una società più giusta e più umana. Quale sono i punti chiave per realizzarla?

Le premesse consistono nella presa di coscienza della comunanza di destino di tutti gli esseri umani nell’epoca della globalizzazione, ossia dei pericoli nucleari, dei pericoli della follia fanatica, del pericolo del dominio del profitto. L’umanità è in una fase della sua storia piena di pericoli e al tempo stesso piena di promesse tecniche o scientifiche. Ma persino le sue promesse hanno un duplice volto. Favoriscono l’idea, che ha dominato la civiltà occidentale, pessima a mio avviso, di dominare la natura e di dominare il mondo. E il transumanesimo riprende i concetti attuali della tecnica, dell’informatica, dell’intelligenza artificiale per creare un uomo cosiddetto immortale che dominerà il mondo e i pianeti. È una follia!

Oggi non bisogna fare l’uomo aumentato ma l’uomo migliorato, a partire delle risorse buone che ha in sé. Non siamo ancora a questo punto. La coscienza della comunanza di destino sarebbe un elemento fondamentale per andare verso un altro mondo perché, a quel punto, le nazioni potrebbero federarsi e si potrebbe giungere a quello che è un sogno, ma possibile, ossia la pace sulla terra. Esiste quindi un insieme di condizione che consentirebbe questo cammino. Bisogna continuare ad avanzare sì con problemi, con conflitti, ma facendo in modo che quelle che io chiamo le forze di Eros abbiano sempre più la meglio sulla forza di Polemos e di Thanatos. Occorre rinforzare Eros rispetto a Polemos e a Thanatos.

Lei ha costellato la sua vita di poesia. È stata la poesia ad aiutarla a superare le numerose prove che ha attraversato?

La poesia non consiste solo nei poemi che amo e che continuo a recitare, che mi sostengono e che sono importanti. C’è anche la poesia della vita. Colgo la verità profonda di quello che dicevano i surrealisti della poesia, che non è solo una cosa scritta ma una cosa vissuta. Nella mia concezione dell’umano, trovo che la nostra vita sia bipolarizzata tra prosa e poesia. La prosa sono le cose che facciamo per costrizione, che non ci piacciono, che facciamo per obbligo, per sopravvivere, mentre la poesia è vivere veramente, e vivere è dischiudersi, è comunicare, è ammirare, è meravigliarsi ed è gioire del piacere di una bella musica, come pure del piacere di una relazione amorosa, o di bel paesaggio o di una partita di calcio.

La poesia della vita permette sempre la comunione con gli altri o la comunione con il mondo, con le cose. Si dimentica spesso che ci sono tantissime persone che sono condannate alla prosa e che meriterebbero di poter accedere alla poesia. Io non ho mai cercato la felicità. La felicità è arrivata per caso, per un insieme di circostanze che all’inizio non avevo immaginato. E quella felicità è durata qualche mese o qualche anno, ma alla fine si è dissolta con la morte delle persone care. La felicità, rappresentata da quei periodi meravigliosi, non è duratura. Ma la poesia è qualcosa che si può coltivare tutta la vita e che dà una sensazione di felicità.

La bellezza salverà il mondo, suggerisce Dostoevskij. Lei pensa che la poesia possa salvare il mondo?

Salverà il mondo se verrà davvero applicata, perché ha in sé la parola bellezza.

A quali fonti possiamo attingere oggi per riacquistare la capacità di meravigliarci?

Le fonti sono molteplici perché riacquistare la capacità di meravigliarsi  viene da  fatto di vivere poeticamente. E ciò si può vivere anche attraverso le relazioni con gli altri, quando sono intense, aperte, piene di fraternità e di amore. Credo inoltre che occorra nutrirsi di cultura: di letteratura, di musica, di poesia, di belle arti. Le fonti sono quindi nelle nostra potenzialità di esseri umani che si manifesta fin dall’infanzia, con la capacità di meravigliarsi.

Il grande problema è che la vita presenta crudeltà, orrori. Quando si guarda, per esempio, a quello che sta accadendo oggi in Afghanistan non ci si può meravigliare, al contrario si prova un sentimento terribile. In questo momento in Francia si sta svolgendo il processo ai terroristi che hanno compiuto un massacro nella sala del Bataclan (e nelle terrazze di Parigi, come pure a Saint-Denis, ndr). È una cosa orribile che ti segna, anche se non senti il desiderio di vendetta, che io non ho mai sentito, ma provi una sensazione terribile. Ma se si è capaci di meravigliarsi, si attinge da lì la forza per ribellarsi contro queste crudeltà, questi orrori. Non bisogna quindi perdere la capacità di meravigliarsi.

 Vatican News

SPRECHI ALIMENTARI . GIORNATA MONDIALE

- Italia virtuosa, 

più educazione nelle scuole 

- Oggi è la Giornata mondiale contro gli sprechi alimentari. Waste watcher ha diffuso i dati del suo Rapporto sulla fruizione del cibo in otto Paesi. Il direttore Segrè: il Papa ci è stato di grande guida con la Laudato Si'Ci ha confermato nel lavoro di prevenzione per rimettere l'ecologia integrale al suo posto.

 -         di Antonella Palermo - Città del Vaticano

         

Alla vigilia della seconda Giornata mondiale di consapevolezza delle perdite e degli sprechi alimentari, sono stati presentati questa mattina a Roma i dati dell’Osservatorio internazionale sul cibo e la sostenibilità. Un confronto sulle abitudini di acquisto, gestione e fruizione del cibo a livello planetario. L’indagine, condotta in otto Paesi - Usa, Cina, Regno Unito, Canada, Italia, Russia, Germania e Spagna - ha evidenziato una maggiore attenzione degli europei rispetto ai nordamericani, e il primato dell’Italia come nazione ‘virtuosa’ con 'solo' 529 grammi a settimana di spreco pro capite. Che lo spreco sia 'immorale' lo afferma il 77% degli italiani. Il Rapporto vuole essere un punto di partenza per promuovere iniziative finalizzate a concretizzare gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile che prevedono di dimezzare gli sprechi alimentari entro il 2030. Ma perché si spreca? Lo abbiamo chiesto ad Andrea Segrè, direttore scientifico dell’Osservatorio, meglio noto come Waste Watcher .

Le ragioni dello spreco

"Sono tanti i motivi che inducono allo spreco alimentare - spiega Segrè - dall'acquistare troppo rispetto ai consumi alla la lettura superficiale delle etichette delle scadenze. Questa scarsa consapevolezza può essere colmata con più educazione alimentare. Infatti, alla domanda dei nostri questionari, in tutti gli otto Paesi, se si è d'accordo a introdurre più corsi di educazione alimentare nelle scuole c'è stato un plebiscito". Segrè precisa che gli strumenti per prevenire gli sprechi ci sono, bisogna ricorrervi. La questione di fondo è che il cibo non viene ritenuto una risorsa preziosa, non se ne riconosce il valore, si pensa poterlo 'rottamare' con grande facilità. Nemmeno le inchieste giornalistiche, che paiono in aumento, e le campagne informative su ciò che c'è dietro la produzione di cibo sotto il profilo, per esempio, dei diritti umani dei lavoratori sembra far crescere la sensibilità verso una riduzione dello spreco: "Non pensiamo che il cibo si produce con risorse naturali limitate - dice Segrè - a questo proposito Waste watcher, che vuol dire sentinella dello spreco, vuole portare all'attenzione del mondo e della politica questo problema. Sicuramente in un prodotto alimentare viene convogliato tutto ciò che ha contribuito a metterlo sul mercato. Se si considerasse questo aspetto, la consapevolezza dei cittadini che sono nella condizione di poter accedere liberamente al cibo come bene - non per tutti è così, purtroppo, fa notare il professore - dovrebbe aumentare". 

 Gli inviti del Papa a non scartare il prossimo

'Spreco', 'scarto' sono parole che tornano moltissimo nei discorsi di Francesco. "Il Papa ci è stato di grande guida - osserva Segrè - pensiamo solo alla Laudato Si' che ci ha ispirato e ha confermato il nostro lavoro di prevenzione nel rimettere l'ecologia integrale al suo posto. L'azione che abbiamo messo in campo con lo spin off dell'università di Bologna, alla base dei nostri studi con la campagna Spreco zero, porta ad analizzare lo scarto nelle sue varie declinazioni. Perché sprecare il cibo a causa della sua imperfezione, o per la scadenza ravvicinata, o per una confezione danneggiata, vuol dire scartare l'altro, il diverso, l'anziano... il passo è brevissimo". E scandisce: "Mangiare bene dovrebbe essere un diritto".

Recovery food: il recupero di cibo a fini caritativi 

Sei anni fa l'evento a Milano di Expo ha contribuito a creare piattaforme di riflessione anche sui temi della sostenibilità e della condivisione del cibo verso coloro che difficilmente hanno accesso. "Credo che abbia avuto un importante significato moltiplicatore. In quei sei mesi ci sono stati tanti eventi a cui abbiamo partecipato anche noi - conclude Segrè - e questa attenzione deve rimanere accesa guardando al fatto che il numero dei poveri economici sta aumentando in modo esponenziale. Il recupero del cibo, avviato fin dagli inizi del 2000, va accentuato. Infatti, abbiamo fatto una proposta alcuni mesi fa, l'abbiamo chiamata 'recovery food', per rendere obbligatorio il recupero di cibo a fini caritativi soprattutto negli anelli della filiera che possono donarlo". Ricorda che siamo ormai attorno al 10% di poveri assoluti in Italia e che di proposta opportuna si tratta. "Sappiamo bene che i problemi della fame non si risolvono recuperando il cibo in eccedenza ma intanto servono a tamponare un bisogno". 


Non sprecare cibo, ma educare al rispetto di ciò che ci viene donato

 

Vatican News



 

martedì 28 settembre 2021

POVERA LINGUA E POVERO PENSIERO: POVERI NOI !


COMPLESSITÀ (POVERTÀ) DELLA LINGUA = COMPLESSITÀ (POVERTÀ) DEL PENSIERO


′′ La graduale scomparsa dei tempi (congiuntivo, passato semplice, imperfetto, forme composte del futuro, partecipa passato...) dà luogo a un pensiero al presente, limitato al momento, incapace di proiezioni nel tempo.
La generalizzazione del tu, la scomparsa delle maiuscole e della punteggiatura sono altrettanti colpi mortali portati alla sottigliezza dell'espressione.
Cancellare la parola ′′ signorina ′′ non solo è rinunciare all'estetica di una parola, ma anche promuovere l'idea che tra una bambina e una donna non c'è nulla.
Meno parole e meno verbi coniugati sono meno capacità di esprimere le emozioni e meno possibilità di elaborare un pensiero.
Studi hanno dimostrato che parte della violenza nella sfera pubblica e privata deriva direttamente dall'incapacità di mettere parole sulle emozioni.
Senza parole per costruire un ragionamento, il pensiero complesso caro a Edgar Morin è ostacolato, reso impossibile.
Più povero è il linguaggio, meno esiste il pensiero.
La storia è ricca di esempi e gli scritti sono molti di Georges Orwell in 1984 a Ray Bradbury in Fahrenheit 451 che hanno raccontato come le dittature di ogni obedienza ostacolassero il pensiero riducendo e torcendo il numero e il significato delle parole .
Non c'è pensiero critico senza pensiero. E non c'è pensiero senza parole.
Come costruire un pensiero ipotetico-deduttivo senza avere il controllo del condizionale? Come prendere in considerazione il futuro senza coniugare il futuro? Come comprendere una temporanea, un susseguirsi di elementi nel tempo, siano essi passati o futuri, nonché la loro durata relativa, senza una lingua che distingua tra ciò che sarebbe potuto essere, ciò che è stato, ciò che è, cosa potrebbe accadere, e cosa sarà dopo che ciò che potrebbe accadere? Se un grido di raduno dovesse farsi sentire oggi, sarebbe quello rivolto a genitori e insegnanti: fate parlare, leggere e scrivere i vostri figli, i vostri studenti, i vostri studenti.
Insegna e pratica la lingua nelle sue forme più svariate, anche se sembra complicata, soprattutto se complicata. Perché in questo sforzo c'è la libertà. Coloro che spiegano a lungo che bisogna semplificare l'ortografia, scontare la lingua dei suoi ′′ difetti ", abolire generi, tempi, sfumature, tutto ciò che crea complessità sono i becchini della mente umana. Non c'è libertà senza requisiti. Non c'è bellezza senza il pensiero della bellezza ".

Cristoforo Clavé




lunedì 27 settembre 2021

IL PATTO EDUCATIVO GLOBALE


LE LINEE GUIDA 

Cos’è il Patto Educativo Globale? Papa Francesco il 12 settembre 2019 ha lanciato «l’invito a dialogare sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta e sulla necessità di investire i talenti di tutti, perché ogni cambiamento ha bisogno di un cammino educativo per far maturare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente». Per questo scopo ha promosso l’iniziativa di un Patto Educativo Globale «per ravvivare l’impegno per e con le nuove generazioni, rinnovando la passione per un’educazione più aperta e inclusiva, capace di ascolto paziente, dialogo costruttivo e mutua comprensione». Si tratta di «unire gli sforzi in un’ampia alleanza educativa per formare persone mature, capaci di superare frammentazioni e contrapposizioni e ricostruire il tessuto di relazioni per un’umanità più fraterna».

MESSAGGIO di S. Em. il card. Versaldi, Prefetto della Congregazione 

Cari educatori, è urgente il bisogno di umanizzare l’educazione, mettendo al centro la persona e creando le condizioni necessarie per uno sviluppo integrale. Dando ai bambini e ai giovani una giusta autonomia e il necessario protagonismo sarà possibile che ognuno cresca interiormente, in mezzo ad una comunità viva, interdipendente e fraterna. Nella condivisione di un destino comune la complessità della realtà verrà letta attraverso le lenti di un nuovo Patto Educativo, che ci conduce a riscoprire la bellezza dell’umanesimo ispirato al Vangelo. In un contesto di difficoltà e polarizzazione, noi adulti dobbiamo fare un passo indietro, dire meno e ascoltare di più le esigenze dei ragazzi al fine di permettere ai loro talenti individuali di manifestarsi e fiorire liberamente. Qui si colloca il vero significato dell’inclusione, che “è parte integrante del messaggio salvifico cristiano” (Papa Francesco, Discorso ai partecipanti all’Assemblea Plenaria della Congregazione per l’Educazione Cattolica, 20 febbraio 2020). Educare è molto più che insegnare. In un processo tanto delicato quanto articolato si possono costruire progetti condivisi di cambiamento per trasformare concretamente i contesti reali. Diamo loro fiducia, senza timore… Ci sorprenderanno! 

+ Giuseppe Versaldi

PRESENTAZIONE di S. E. Mons. Zani, Segretario della Congregazione

Questo vademecum è una guida preparata per attuare il Patto Educativo ed è destinato soprattutto agli educatori che hanno il compito di accompagnare i ragazzi e i giovani, attraverso percorsi formativi scolastici ed extrascolastici, formali ed informali, nella costruzione della casa comune. Papa Francesco da tempo insiste sulla necessità di investire i talenti di tutti per fare maturare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente. Con i suoi numerosi messaggi, e soprattutto quello lanciato il 15 ottobre 2020, egli ha rinnovato l’invito a stringere un Patto Educativo che permetta di trovare la convergenza globale per un’educazione che sappia farsi portatrice di una alleanza tra tutte le componenti della persona: tra lo studio e la vita; tra le generazioni; tra i docenti, gli studenti, le famiglie e la società civile con le sue espressioni intellettuali, scientifiche, artistiche, sportive, politiche, imprenditoriali e solidali a sostegno delle giovani generazioni. Di fronte alla “catastrofe educativa”, provocata dalla pandemia, che ha aumentato un divario educativo già allarmante, non bastano ricette semplicistiche, ma occorre credere nel potere trasformante dell’educazione. Educare è scommettere e dare al presente la speranza che rompe i determinismi e i fatalismi; educare è sempre un atto di speranza che invita alla co-partecipazione e alla trasformazione della logica dell’indifferenza in una cultura dell’incontro e dell’inclusione. L’educazione deve aiutarci a costruire un futuro che non sia più segnato dalla divisione, dall’impoverimento delle facoltà di pensiero e di immaginazione, ma fondato sull’ascolto, sul dialogo e sulla mutua comprensione. Il vademecum riprende i sette obiettivi indicati da Papa Francesco, ognuno dei quali può diventare un percorso educativo da sviluppare attraverso le tappe della riflessione, della elaborazione di progetti rispondenti alle varie sfide locali e della loro attuazione concreta. Potranno nascere storie ed esperienze personali e comunitarie capaci di ispirare anche altri a condividerle e così intraprendere un processo di cambiamento, ispirato alla cultura della cura, all’ecologia integrale, alla costruzione della fraternità e della pace. Le esperienze potranno essere raccolte dalle Commissioni delle Conferenze Episcopali e inviate anche alla LUMSA. Occorre avere fiducia e investire nelle potenzialità dei giovani perché siano aiutati a guardare avanti insieme e con coraggio. 

                                                                                                       + Angelo Vincenzo Zani 

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sabato 25 settembre 2021

SE IL SALE DIVENTA INSIPIDO

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 - 26 settembre 2021 -

- Mc 9,38-50


- XXVI Domenica nell’anno


- Commento di Luciano Manicardi

- In quel tempo 38Giovanni disse: a Gesù «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». 39Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: 40chi non è contro di noi è per noi. 41 Chiunque, infatti, vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa. 42Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. 43Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. [ 4445E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. [ 4647E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, 48doveil loro verme non muore e il fuoco non si estingue. 49 Ognuno, infatti, sarà salato con il fuoco. 50Buona cosa è il sale; ma se il sale diventa insipido, con che cosa gli darete sapore? Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri»

Il brano evangelico di questa domenica si apre in modo improvviso presentando in primo piano sulla scena Giovanni che si rivolge a Gesù parlando alla prima persona plurale, dunque a nome del gruppo dei discepoli. Gesù ha appena tenuto il discorso sul farsi ultimo di tutti e servo di tutti da parte di chi volesse essere il primo nella comunità, ha appena parlato di accoglienza (Mc 9,35-37), e Giovanni, dando prova di quella che un esegeta ha chiamato “una sordità assordante”, esibisce come un vanto davanti a Gesù l’impresa di aver tentato con insistenza e ripetutamente di impedire a uno sconosciuto di cacciare dei demoni perché lo faceva nel nome di Gesù, ma non facendo parte del gruppo dei Dodici (Mc 9,38). I discepoli hanno appena ascoltato parole sull’accogliere e compiono gesti di esclusione e rifiuto. Giustificati, nelle parole di Giovanni, dal fatto che quest’uomo usurperebbe il nome di Gesù. Ma dalle parole di Giovanni emerge anche un’altra motivazione. Giovanni dice che quest’uomo “non ci seguiva” (Mc 9,38). Dove la sequela è intesa non solo in rapporto a Gesù, ma ai discepoli stessi. I quali mostrano così la pretesa di impadronirsi della comunità, di farla loro, di rendersene signori, di renderla una loro personale impresa. Rischio sempre presente nelle vite comunitarie da parte di chi sente di poter avanzare titoli di qualche tipo. Ma io penso che dietro alle parole di Giovanni ci sia anche un’altra motivazione. Non detta, anzi, indicibile, nascosta. I discepoli si sono appena rivelati incapaci di scacciare un demonio da un ragazzo posseduto da uno spirito muto e sordo (Mc 9,14-29; soprattutto la dichiarazione di impotenza del v. 28: “Perché noi non siamo riusciti a scacciarlo?”). E questo è avvenuto a loro che seguono Gesù e costituiscono la sua comunità. Ebbene, costoro adesso vedono che uno sconosciuto riesce là dove loro hanno fallito. Emerge la dinamica invidiosa, anch’essa una piaga tipica delle vite comunitarie e in genere delle vite associate. L’invidia è una passione sociale perché abbisogna sempre di altri o almeno di un altro. L’invidia si chiede: perché lui sì e io no? E vedendo l’impossibilità per sé di essere o di fare come l’altro, ecco che essa cerca di proibire all’altro di essere ciò che è o di fare ciò che fa. Se noi non siamo stati capaci di scacciare un demonio e costui, che nessuno sa chi sia, ci riesce, noi possiamo abbassare lui al nostro livello, possiamo impedirlo, possiamo dirgli che non può fare ciò che fa. L’invidia nasce sempre da un’impotenza. L’invidioso dice: restando me stesso, io voglio ciò che tu hai e che tu sei, e che hai e sei in virtù del fatto che tu sei tu e non me. Così, l’impotenza da cui scaturisce l’invidia diventa l’impossibile del suo scopo. All’origine dell’invidia vi è l’impotenza, come fine vi è un impossibile; il percorso non può che essere una sofferenza indicibile. L’invidioso, in verità, non accetta di essere ciò che è, rifiutando di accogliere i propri limiti. L’invidia vede nella riuscita dell’altro una diminuzione di sé; ciò che l’altro ha o è viene sentito come sottrazione a sé e come impossibilità di raggiungere lo stato in cui l’altro è installato. L’invidia poi si nutre anche di attrazione quasi irresistibile nei confronti dell’oggetto invidiato e verso cui si prova anche avversione e odio. Sì, in Giovanni sembrano emergere elementi significativi di un vissuto interiore di frustrazione e di invidia.

Ma Gesù stronca sul nascere questi sentimenti che nelle parole di Giovanni si rivestono di sentimenti pii verso Gesù, di difesa del suo santo nome, e di zelo e di rigore verso chi è fuori dal giro della comunità. In verità, dietro sembra esserci anche la pretesa di essere gli unici detentori di quel nome, di averne l’esclusiva e usarlo come un potere e un diritto. Del resto, è strano anche il modo in cui Giovanni si presenta a Gesù a dirgli ciò che lui e i discepoli facevano. Non gli chiede nulla, ma solo gli racconta un episodio: perché? Con quale scopo? La risposta di Gesù che proibisce di proibire, mostra che Gesù non si sente minimamente minacciato dalla presenza di un uomo che fa riferimento al suo nome per compiere il bene. Con la sua risposta, Gesù chiede ai discepoli di aver fiducia, di non aver paura. Per lui non è decisivo il criterio dell’appartenenza al gruppo dei Dodici per l’abilitazione a compiere il bene nel suo nome. È talmente aperta la sua concezione della comunità che arriva a dire che chi non è contro è per (Mc 9,40). La non opposizione è già vista da Gesù come aperto favore. Criterio posto da Gesù è il parlare bene o male di lui: “Chi nel mio nome compie il bene non può subito dopo parlare male di me” (cf. Mc 9,39). Dunque, questi non sarà un detrattore della via percorsa da Gesù, del cammino cristiano, un bestemmiatore del nome. Gesù mostra fiducia nella potenza del nome come forza benefica che agisce ben oltre i confini comunitari. Il nome ha una forza benedicente che influenza chi lo pronuncia, il quale non potrà, almeno subito, parlar male di Gesù. Così, con poche parole, Gesù capovolge la logica e lo sguardo dei discepoli, di Giovanni in specie: dal noi contro gli altri, si passa agli altri che, non essendo contro di noi, sono per noi. Di più. Gesù mostra i discepoli come beneficiari della bontà e dei gesti di carità degli altri (“Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome …”: Mc 9,41). Insegnando così a cambiare sguardo: a vedere se stessi non come centro del mondo a cui gli altri si devono piegare, ma come destinatari del bene che altri fanno loro. Ecco, dunque, che Gesù presenta gli altri non come persone da cui guardarsi, ma come coloro che possono testimoniare l’amore e la gratuità di Cristo ai seguaci di Cristo stesso. Ciò che viene chiesto da Gesù è un mutamento dello sguardo. Passare dallo sguardo invidioso allo sguardo capace di gratuità e amore. Invidiare (in-videre) significa proprio guardare torvo, guardare di traverso, ma significa in profondità non vedere più correttamente né la realtà né gli altri né se stessi. Significa avere una visione alterata della realtà, dunque anche della comunità e della vita. Dal nostro testo emerge con forza una dimensione diappartenenza e identità del gruppo dei discepoli giocate in maniera esclusiva ed escludente. E affiora immediatamente, infatti, anche la dimensione dell’inimicizia: i discepoli, di fatto, vedono nell’esorcista sconosciuto, un nemico. Da punto di vista ermeneutico possiamo affermare che il rapporto chiesa-nemico si situa all’interno di una fondamentale polarità. Da un lato, se la chiesa vive la radicalità evangelica e lo spirito delle beatitudini, non può non conoscere persecuzioni e inimicizie a causa del Nome di Cristo; dall’altro, la stessa radicalità evangelica impedisce alla chiesa di fabbricarsi dei nemici, di entrare in regime di inimicizia con gli uomini non credenti o di dar nome di nemico ad “altri”, a categorie di persone o a gruppi umani che semplicemente sono segnati da diversità o estraneità. Sul problema dell’inimicizia la chiesa gioca la sua capacità di assumere e gestire, positivamente o meno, il problema dell’alterità e della differenza al proprio interno e di fronte a sé.

Il discorso sullo scandalo (Mc 9,42-48), che segue il dialogo di Gesù con Giovanni e i discepoli, di fatto indica il rischio per il gruppo dei discepoli, quindi per la chiesa stessa, di divenire scandalo e inciampo per altri. In particolare per “i piccoli che credono in me” (Mc 9,42) e che non sono i bambini, ma i credenti dalla fede debole, dalla fede semplice. Per evitare lo scandalo il cristiano ricordi che la Potenza e la Presenza del Signore non sono suo monopolio, ma sono suscitate dallo Spirito e noi, afferma il Vaticano II, “dobbiamo ritenere che lo Spirito santo dia a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale” (GS 22). L’espressione “nel modo che Dio conosce” dice che nemmeno la chiesa può pretendere questa conoscenza, pena il ridurre Dio a idolo e il divenire occasione di scandalo, cioè inciampo e ostacolo al cammino dell’uomo verso Dio. Certamente la prima accezione delle parole di Gesù sullo scandalo è comunitaria, e intravede la possibilità che un corpo comunitario si opacizzi al punto da non essere più trasparenza della presenza di Cristo. Ma tali parole hanno anche una valenza personale: occorre vigilare sul proprio agire (mani: Mc 9,43), sul proprio comportamento (piedi: Mc 9,45) e sulle proprie relazioni (occhi: Mc 9,47) per non divenire un ostacolo alla vocazione e al cammino di fede dell’altro.

Il discorso di Gesù, che si svolge sul registro del paradosso, afferma che occorre il coraggio della rinuncia a ciò che può ostacolare l’ingresso nel Regno, ingresso che avviene non a partire da un di più o da un pieno, ma da un vuoto, da una mancanza, da una povertà. Abbiamo qui l’esigenza di un’ascesi, di una lotta, di un duro combattimento contro le tendenze che portano l’uomo a un comportamento e una relazionalità antievangelici. Tagliare e cavare (lett. “gettare”) non sono disumane direttive da applicarsi letteralmente, ma indicazioni realistiche di una lotta da combattere ogni giorno per purificare il proprio cuore e vivere il vangelo con maggiore libertà. C’è un perdere la vita che è essenziale per trovarla in Cristo (cf. Mc 8,35).

Monastero di Bose


 

SCUOLA ALL'APERTO. UNA SCUOLA DA SALVARE


 Arriva in Parlamento il caso del maestro Monaca, che ha lanciato ad Asti il progetto 'Bimbisvegli' Fornaro (Leu): è un modello, ma non rientra nei piani. Bianchi: tocca al dirigente muoversi.

Il progetto, centrato tra l’altro sulle attività manuali nella natura e la partecipazione sociale, ha trovato crescente consenso tra esperti e genitori tanto che gli alunni nel piccolo istituto di Serravalle sono triplicati

  

-         di MARIANNA NATALE

Dopo l’autosospensione dal servizio del maestro astigiano Giampiero Monaca, ideatore del progetto educativo 'Bimbisvegli' che negli ultimi 4 anni è stato attuato con successo nella piccola scuola elementare di Serravalle, una frazione di Asti, mercoledì la sua metodologia didattica è stata al centro di un’interrogazione a risposta immediata del deputato Federico Fornaro (Leu) al ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi.

«Nonostante 'Bimbisvegli' sia stato considerato un modello educativo da cui prendere esempio dallo stesso ministero – ha detto Fornaro –, per scelta della dirigenza scolastica non fa parte del Piano triennale dell’Offerta formativa della scuola di Serravalle. Eppure nel 2017, all’arrivo del maestro Monaca, in quella scuola c’erano 21 iscritti mentre oggi sono 60 gli alunni e altrettante le famiglie che hanno scelto Serravalle, a patto che il progetto 'Bimbisvegli' possa essere attuato».

«La sperimentazione di iniziative innovative va autorizzata – ha risposto Bianchi – ma la Direzione generale non è stata interpellata a esprimere un parere tecnico, quindi attendiamo. Si può fare una segnalazione a Indire, agenzia che sostiene le 'avanguardie educative'. L’ufficio scolastico regionale del Piemonte ha accertato con un’indagine che l’esperienza didattica 'Bimbisvegli' non appare in contrasto con l’ordinamento vigente, ma va inserita dai competenti organi collegiali nel piano triennale dell’offerta formativa della scuola. È stata invitata la dirigente a valutare nuovamente la possibilità di fare segnalazioni e supportare gli insegnanti che adottano tale approccio didattico».

È solo l’ultimo capitolo di una complessa vicenda che – dopo la scomparsa nel 2019 dai progetti scolastici approvati dal collegio docenti del circolo di cui fa parte la piccola scuola primaria 'Piero Donna' di Serravalle – ha visto tra l’altro uno sciopero della fame 'a staffetta' durato oltre 60 giorni, una raccolta firme da parte di genitori e cittadini della frazione, la solidarietà espressa dal noto missionario Alex Zanotelli (che ha paragonato Monaca a don Milani e al pedagogista Paulo Freire) e l’inserimento di 'Bimbisvegli' tra le 25 realtà migliori durante il Festival dell’innovazione scolastica a Valdobbiadene. Il progetto didattico è basato tra l’altro sull’attività all’aperto, sulla manualità e sull’educazione alla cittadinanza attiva, oltre a un coinvolgimento delle famiglie e dell’intera comunità sociale. Ora però Monaca, ritenendo superato il livello di mutilazione del progetto, si è allontanato dalla sua scuola e sta adesso formalizzando la richiesta di aspettativa.

«C’è ancora uno spazio, c’è ancora una possibilità – ha commentato il deputato Fornaro dopo la risposta del ministro –. Una interrogazione simile era stata da me presentata lo scorso 16 giugno. Forse sarebbe stato necessario dare prima delle risposte. Nell’approccio 'Bimbisvegli' non c’è alcun attacco alla gerarchia scolastica e al mondo della scuola. C’è sperimentazione, c’è passione, e anche una sana utopia. Monaca è una persona intelligente che ha aggregato attorno a sé una comunità, in uno spirito che fa bene alla scuola di Serravalle e alla scuola in generale. Ministro Bianchi, credo che adesso il progetto sia nelle sue mani», ha concluso Fornaro. La dirigente Graziella Ventimiglia, per parte sua, continua a non voler commentare. Così come gli insegnanti che hanno 'raccolto il testimone' di Monaca. Per voce di Samantha Brigo, il gruppo di docenti fa infatti sapere che «si ritiene che in questo momento siano più proficui i silenzi e le attese, che permetteranno di concentrarci sul benessere dei bambini».

Il progetto, centrato tra l’altro sulle attività manuali nella natura e la partecipazione sociale, ha trovato crescente consenso tra esperti e genitori tanto che gli alunni nel piccolo istituto di Serravalle sono triplicati.

 

www.avvenire.it

 

 

STATO E MAFIA, UNA VICENDA CHE C'INTERROGA

- di Giuseppe Savagnone *


 Alterne vicende giudiziarie

Ha destato reazioni contrastanti l’assoluzione piena dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, da parte della Corte d’assise d’appello di Palermo. Nella sentenza di primo grado, tre anni e mezzo fa, l’ex collaboratore e “braccio destro” di Berlusconi era stato condannato a dodici anni di carcere come «cinghia di trasmissione» tra i clan e gli interlocutori istituzionali, nella cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, volta a convincere la mafia a desistere dalla strategia stragista, in cambio di un’attenuazione dell’art. 41-bis che prevedeva il carcere duro per i boss.

Perplessità o in qualche caso sdegno si registrano nei commenti della sinistra, mentre esultano i giornali di destra.  «Una sentenza di verità», titola uno di essi. Altri parlano di una «bufala» finalmente smascherata e della fine di una «persecuzione».

Non sono molti, stranamente, a ricordare che in realtà Dell’Utri è appena reduce da una condanna a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, inflittagli nel 2013 dalla Corte d’Appello di Palermo e confermata nel 2014 dalla Corte di Cassazione, perché ritenuto il mediatore di un patto tra Berlusconi e la mafia siciliana. Pena ridotta a poco più di cinque anni e scontata in parte in carcere, in parte agli arresti domiciliari. L’ulteriore condanna, ora annullata, si aggiungeva a questa, ormai passata agli atti e consegnata alla storia.

Siamo dunque davanti a una vicenda giudiziaria da leggere in un contesto più ampio, che peraltro va ben al di là degli anni della Seconda Repubblica e che è il caso di ricostruire, senza fermarsi alle polemiche contingenti, alla luce di una storia che comincia con l’unità d’Italia. Perché in questo caso, come in tanti altri, il presente si capisce meglio alla luce del passato e una società senza memoria, come la nostra, rischia di non cogliere il senso più profondo di quello che sta vivendo.

Le radici del problema: come gestire l’unità d’Italia?

È la storia a dirci che, dopo l’unità, il problema dei rapporti tra Nord e Sud diventò drammatico. I governi della cosiddetta “Destra storica”, formati, dopo il 1861, da piemontesi e toscani, non capivano nulla della mentalità e delle esigenze del Meridione e concepivano l’unificazione come una proiezione su di esso della legislazione del Piemonte. Si era fatta l’Italia ma, secondo l’espressione di D’Azeglio, bisognava ora «fare gli italiani». Solo che si stentava a rinunziare a un modello univoco di unità e di cittadinanza, che era indigeribile da Roma in giù. Senza parlare dei disastrosi effetti che l’unità ebbe per le manifatture del Sud, travolte dal mercato unico, che le esponeva alla concorrenza vincente di quelle settentrionali.

Da qui il brigantaggio meridionale, affrontato con tremenda durezza grazie alla legge Pica. Da qui la ribellione di Palermo, nel 1866, repressa a cannonate dalla flotta italiana.

Il modello rigido di unità voluto dalla “Destra storica” costava insomma troppe lacrime e sangue e non funzionava. Da qui la proposta fatta dalla “Sinistra” (anche questa liberale), che vinse le elezioni del 1876 alleandosi con le classi dirigenti meridionali, a cui si prometteva un ampio campo autonomo d’azione, in cambio di una fedeltà sostanziale al nuovo Regno.

Si deve a questa alleanza se un ampio sottobosco di malavitosi al servizio dei notabili siciliani poté fiorire e consolidare il proprio potere incuneandosi tra la popolazione e lo Stato, percepito al Sud come lontano e minaccioso. Siamo alle origini prossime (quelle remote risalgono alla dominazione spagnola) del potere della mafia, che poté avvalersi anche di una tacita “alleanza” con la Chiesa, anch’essa emarginata dal nuovo sistema politico.

«Il ministro della malavita»

Tutto questo, naturalmente, richiedeva il mantenimento di un compromesso costante fra i governi liberali di Roma e questi centri di potere che operavano spesso oltre i margini della legalità, e che però erano utili per convogliare i voti e appoggiare i partiti di governo. Uno scambio di favori che funzionò. Al punto che ben due primi ministri del Regno, dopo la svolta, Crispi e Di Rudinì, furono siciliani. In un contesto che però si basava sull’abbandono del Meridione alle sue tendenze più regressive.

Si spiega così perché Giolitti, il più importante, forse, tra i nostri presidenti del Consiglio, autore di una politica innovativa che ha segnato una svolta nella nostra storia, sia stato però definito da Gaetano Salvemini, nel titolo di un suo libro, «il ministro della malavita» proprio per la sua compromissione con casi di clientelismo e di corruzione verificatisi nell’Italia del Sud.

La tacita convivenza tra Stato e Mafia, dal dopoguerra in poi

Non si può non tenere presente questa storia quando si parla di quella, già molto più vicina a noi, dei governi democristiani del dopoguerra. È famoso il caso dell’on. Andreotti, più volte presidente del Consiglio, finito sotto processo per associazione mafiosa. Tra le accuse rivolte all’uomo politico c’era quella di avere baciato, durante un suo viaggio in Sicilia, il boss Riina. Non so se l’accusa fosse vera – come è noto Andretti alla fine fu assolto (in parte per sopravvenuta prescrizione) –, ma è certo che il suo uomo di fiducia nell’Isola, Salvo Lima, svolgeva la funzione di “proconsole” e aveva stretti rapporti con la mafia (da cui infatti venne ucciso in un agguato, probabilmente per non aver rispettato gli accordi).

Non si trattava, peraltro, di un problema legato a una sola persona. Ancora una volta una stupefacente mancanza di memoria storica fa sì che si riversino solo su Andreotti le responsabilità di questa collusione con la mafia e non si ricordi che Lima, prima di essere andreottiano, aveva fatto parte, insieme a Vito Ciancimino e Giovanni Gioia, di un terzetto di spregiudicati politici legati ad Amintore Fanfani (anch’egli una grande personalità della storia della Democrazia cristiana).

A rendere più facile questa convivenza pacifica e perfino collaborativa tra uomini di governo e mafia sono state, a lungo, la sottovalutazione della gravità del fenomeno mafioso e una certa tendenza a valorizzarne, addirittura, la pretesa funzione di “forza d’ordine”, in una società come quella siciliana, in cui lo Stato non riusciva spesso ad avere il controllo del territorio.

È impressionante che ancora nel gennaio del 1955, il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Giuseppe Guido Loschiavo, in occasione della morte di Calogero Vizzini, ritenuto il vertice della gerarchia mafiosa, abbia potuto tranquillamente scrivere su una rivista giuridica: «Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge (…) ha affiancato addirittura le forze dell’ordine (…) Oggi si fa il nome di un autorevole successore nella carica tenuta da Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto alle leggi dello Stato e del miglioramento sociale della collettività». Lascio immaginare a chi legge cosa accadrebbe oggi se un alto magistrato scrivesse qualcosa di simile.

Non c’è da stupirsi, perciò, che una certa forma di “collaborazione” tra Stato e mafia si sia a lungo mantenuta e abbia dato luogo a una logica ricorrente, di cui naturalmente, finita l’era democristiana, ha verosimilmente fruito il nuovo potere berlusconiano. Qui il “proconsole” è stato – secondo la sentenza del 2014 – Marcello Dell’Utri. Con ottimi risultati: nelle elezioni del 2001 la Casa delle libertà fece, in Sicilia, un impressionante en plein, vincendo in tutti i sessantun collegi uninominali in ballo (20 al senato e 41 alla Camera). Un risultato che, per chi conosce l’ambiente umano dell’Isola, sarebbe inspiegabile senza l’aiuto dei “poteri forti” che controllano il territorio.

L’urgenza di un reale cambiamento culturale

Tutto questo, ovviamente, non implica alcuna critica alla sentenza della Corte d’assise d’appello di Palermo. C’è una “verità processuale”, che risulta da un complesso di fattori emersi nel giudizio, di cui il giudice deve tenere conto – carte, testimonianze, etc. – e che, in uno Stato di diritto, deve prevalere sulle convinzioni extragiudiziali presenti nell’opinione pubblica o nella mente degli stessi giudici.

La verità – nel nudo significato di questo termine, che implica una aderenza ai fatti reali – può non coincidere con quella accertabile nel processo. Ed è giusto che sia così. Solo negli Stati totalitari si può condannare qualcuno prescindendo dalle prove che si hanno contro di lui.

Peraltro, al di là del caso Dell’Utri, da quanto detto nascono domande inquietanti che riguardano il Meridione – in particolare ho presente la Sicilia –, il suo passato, ma soprattutto il suo presente e il suo futuro. Quella che emerge è la storia di un popolo che, pur con le sue grandi qualità umane, non è mai riuscito ad avere una vera coscienza del bene comune ed è rimasto in una certa misura prigioniero di logiche feudali e familiste, di cui la mafia è sta l’espressione criminale.

Il problema, perciò, non è solo Cosa Nostra, ma una mentalità, una cultura che l’ha alimentata e continua a essere presente, in forme meno eclatanti, nell’amministrazione pubblica, nell’esercizio dei diritti politici, nella vita quotidiana dei privati.

È da questa cultura che derivano molti mali del Sud. Non possono bastare i soldi del Recovery Fund a superarli – quanti finanziamenti, in passato (si pensi alla Cassa per il Mezzogiorno) sono andati a vuoto, sperperati o finiti nelle tasche dei mafiosi! –, se non sopravvengono un atteggiamento e uno stile diverso da parte delle persone.

Non mancano, per fortuna, persone e gruppi che lottano con tutte le loro forze per il cambiamento. Ma bisogna riconoscere che è una battaglia ancora lontana dall’essere vinta. È su questa battaglia culturale che oggi più che mai bisogna concentrarsi. Perché la politica, in Sicilia e in tutto il Sud, non sia più inquinata da logiche perverse che produrranno sempre, se non vengono corrette, i frutti avvelenati che nessuna sentenza di assoluzione può nascondere.

 

*Ufficio Cultura Diocesi Palermo

 

www.tuttavia.eu

 

 

venerdì 24 settembre 2021

UN'EUROPA SOLIDALE

 Bassetti: sogno un'Europa solidale. Serve un autentico cristianesimo, non di facciata

Il presidente della Cei  alla plenaria della CCEE per il 50.mo dell'istituzione. A Vatican News, illustra le sue aspettative per il Sinodo della Chiesa italiana: "Come cristiani dobbiamo dare risposte fondamentali alle esigenze degli uomini. Andiamo nel luogo in cui verranno tutti e ascoltiamo ciò che dice chi è arrabbiato e non frequenta più la Chiesa". Sul Green pass: "Non sarà necessario per le Messe"

 -         di Salvatore Cernuzio

-          “Una nuova Europa solidale che sappia essere veramente una casa comune, e non solo un insieme di strutture, e che si fondi su un nuovo umanesimo europeo basato sulla centralità della persona umana, la cui dignità è sempre inalienabile”. È il “sogno” personale del cardinale Gualtiero Bassetti che il presidente della Cei ha voluto condividere questa mattina con i partecipanti alla plenaria a Roma della Ccee, il Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa che celebra i 50 anni della sua istituzione. Nel suo intervento in assemblea, il cardinale – dopo aver detto di aver sentito al telefono il presidente del Ccee, il cardinale Angelo Bagnasco, contagiato dal Covid - ha rievocato la “visione profetica” dei fondatori, già richiamata ieri dal Papa nella Messa a San Pietro. Ovvero la visione di un’Europa che “sia soprattutto un luogo dell’anima con una storia profonda, antica, complessa”.

Eminenza, cosa significa un’“Europa solidale” e come si concretizza quello che lei ha definito un suo “sogno”? 

L’Europa per essere solidale deve ritrovare la sua identità e le sue radici. Vale per l’Europa quello che in genere dico per il Mediterraneo, e cioè che bisogna ritrovare i tre valori fondamentali: ora et labora e l’aratro, quindi lo spirito cristiano. L’Europa deve recuperare le sue radici cristiane che sono arricchite dal mondo romano, dal mondo greco, da tutto un pensiero di civiltà mediterranee di cui il cristianesimo è la sintesi. Quindi, quando dico radici cristiane non lo dico solo in senso clericale ma in senso globale. Soprattutto è importante la dimensione di un umanesimo basato sull’aspetto contemplativo, sull’aspetto del lavoro, dei mezzi della tecnica, necessari perché si sviluppi la società.

Il Papa, nella messa di ieri con i membri Ccee, ha sollecitato i cristiani europei ad agire e non restare chiusi nelle case e nelle Chiese. Perché è facile preoccuparsi per la secolarizzazione e i vari “ismi”, ma poi non sempre ce ne occupiamo. I cristiani italiani come possono agire, in vista anche del prossimo Sinodo?

Bisogna ritornare a vivere un cristianesimo autentico, che non sia soltanto di corteccia e tradizione, ma in grado di dare risposte fondamentali alle esigenze degli uomini. “Ma io al mondo che ci sto a fare?”: tante persone mi rivolgono questa domanda. Se come cristiani, non a parole ma col nostro modo di comportarci e con la testimonianza di tutta una comunità, non riusciamo a dare tali risposte, vuol dire che il nostro è un cristianesimo sterile. Per questo credo che sia stata un’intuizione fondamentale che il Papa abbia insistito sul Sinodo. Poco prima ho fatto una battuta al confratello dell’America latina: “Noi il Sinodo lo predichiamo in Europa, ma lo facciamo poco perché abbiamo il nostro tipo di mentalità. Voi, invece, siete una Chiesa sinodale per come avete impostato i vostri rapporti, la collegialità coi vescovi e le comunità”. Bisogna allora recuperare questo spirito di cui ci parla il Papa: quello dell’Europa con un’anima. O l’Europa ha un’anima, che per me è quella cristiana in senso globale, oppure l’Europa non sussiste.

Concretamente la sinodalità come può essere d’aiuto in un’epoca profondamente frammentata tra Covid, divisioni sui vaccini, e la questione migranti che rimane un tema sempre dibattuto? 

Con quella intuizione che ha avuto il Papa, quando la prima volta ha parlato di sinodalità… Il Santo Padre non ha fatto discorsi teologici, ha detto: “Dal basso, dal basso, dal basso”. Ecco, bisogna cominciare a riascoltare la gente. Io ho detto nella mia diocesi convocando i preti: non cominciate a rifare le riunioni nei soliti teatrini parrocchiali o nelle sale perché verranno le stesse 30-40 persone che sono addette ai lavori e che ci sono sempre. Bisogna rivoltare la situazione, andare nel luogo dove siamo sicuri che possano venirci tutti. In questo momento abbiamo bisogno di partire dalle ragioni e da quello che ci dicono coloro che non frequentano più la Chiesa, coloro che sono arrabbiati, per capire quali sono veramente i bisogni di fondo e per dare una risposta. Una risposta secondo Gesù Cristo, secondo il Vangelo. Questo è il Sinodo.

Guardando alla cronaca di questi giorni e alle proteste per il Green Pass, a che punto è la trattativa della Chiesa italiana con il governo sulla questione? Occorrerà il certificato verde per le celebrazioni liturgiche?

Non voglio entrare nel problema delle proteste sul Green Pass, è troppo delicato e bisogna entrarci in maniera un po’ articolata, è una questione molto complessa. Chiedo comunque che si usino tutti i mezzi per conservare la nostra salute, per prevenire. Al momento attuale il vaccino è ancora la più grande garanzia che abbiamo. Quanto alle celebrazioni, la certificazione verde non è richiesta per parteciparvi: si continua a osservare quanto previsto dal Protocollo Cei-Governo del 7 maggio 2020, integrato con le successive indicazioni del Comitato tecnico-scientifico. Quindi, mascherine, distanziamento tra i banchi, comunione solo nella mano, niente scambio della pace con la stretta di mano, acquasantiere vuote. Questi sono gli accordi che noi, come tutte le altre religioni abbiamo firmato. E finora nelle Chiese sono state rispettate tutte le regole che ci siamo posti.

 

Il Papa: l'Europa malata di stanchezza torni alla visione lungimirante dei fondatori

 

VaticanNews