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venerdì 20 agosto 2021

EDUCARE ALLA LIBERTA'

Dall’io al confronto

 per educare alla libertà

 Lo scrittore e insegnante Eraldo Affinati sarà all’incontro conclusivo del Meeting: «Nel momento in cui ci si esprime, si sceglie e si rinuncia a qualcos’altro. Questo è il processo educativo nella sua formulazione più classica: guidare alla conquista dell’autonomia attraverso una continua assunzione di responsabilità che permette di rapportarsi agli altri conoscendo prima se stessi» 

 - di ALESSANDRO ZACCURI 

- Anche gli scrittori, come gli insegnanti, dovrebbero essere anzitutto 'esperti in umanità'. Eraldo Affinati si richiama alla celebre definizione che Paolo VI diede della Chiesa per anticipare una parte della riflessione che si prepara a presentare al Meeting. Un appuntamento molto atteso, quello di cui il narratore romano sarà protagonista insieme con Susanna Tamaro e il filosofo Costantino Esposito alle ore 21 di mercoledì 25 agosto. «È l’incontro conclusivo – sottolinea Affinati –, quello in cui tradizionalmente si annuncia il tema che il Meeting affronterà l’anno successivo. Ed è un incontro sul tema dell’educazione». Sull’importanza di Educare alla libertà, per la precisione. Si può dire che, nella sua veste duplice e spesso convergente di scrittore e di insegnante, Affinati non si sia mai occupato d’altro. Lo ha fatto lavorando alle biografie di Dietrich Bonhoeffer ( Un teologo contro Hitler, 2002) e di don Lorenzo Milani ( L’uomo del futuro, 2016) e avviando la rete delle Scuole Penny Wirton, che in tutto il Paese offrono corsi gratuiti di italiano per stranieri. All’indomani del Meeting, il 26 agosto, sarà in libreria il suo romanzo, Il Vangelo degli Angeli, edito da HarperCollins. Per il momento, però, parliamo di libertà, parliamo di educazione. «Da quando abbiamo cominciato a misurarci con la pandemia – osserva Affinati –, la scuola ha lavorato a ingranaggi scoperti, entrando nelle case e rientrando nel dibattito pubblico. Molti genitori hanno seguito le lezioni a distanza a fianco dei figli e si sono resi conto di quanto sia delicato questo processo educativo. Veniamo da una stagione di fragilità e incertezze, è vero, ma questa coscienza rinnovata rappresenta un elemento positivo, che non va sprecato». 

Come riassumerebbe il valore di questa esperienza? Nel modo più semplice: adesso sappiamo veramente di essere fragili e di poterci salvare soltanto se restiamo insieme, facendoci forza gli uni con gli altri. 

Vale anche per la letteratura? La letteratura è di per sé è un’ammissione di finitudine e, nel contempo, il tentativo di andare oltre questo limite. Mi capita spesso di dire che un immortale non comporrebbe poesie, perché non ne avrebbe bisogno. Non ci sarebbero ferite da risanare, né integrità da ristabilire. Per noi, invece, non è così. Scriviamo per segnare una presenza, per lasciare una traccia della nostra avventura sulla terra. Se possibile, per passare il testimone a qualcun altro. 

E qui torna in gioco l’educazione? Non soltanto qui, ma in qualsiasi cir- costanza ci si debba pronunciare o, se si preferisce, si debba compiere una scelta. In questo senso, trovo illuminante l’espressione di Kierkegaard che dà il titolo al Meeting di quest’anno. 'Il coraggio di dire io', appunto. Nel momento in cui ci si esprime, si sceglie; nel momento in cui si sceglie qualcosa, si rinuncia a qualcos’altro. Questo è il processo educativo nella sua formulazione più classica: guidare alla conquista dell’autonomia attraverso una continua assunzione di responsabilità. In ultima analisi, l’educazione è questa scienza del limite che, una volta appresa, permette di uscire dall’indifferenza e di uscire in campo aperto. Ma prima di confrontarmi con l’altro, devo conoscere me stesso. Devo imparare a dire io. 

Un’impresa ancora possibile? Senza dubbio difficile, eppure necessaria. Specie per il credente, considerato che l’incontro è il gesto tipico del cristianesimo, direi addirittura il suo fondamento. La bellezza di questa dinamica sta nella sua componente di rischio. L’incontro non è mai solo rassicurante, in un modo o nell’altro ci trascina in quello che il poeta Mario Luzi definiva 'il fuoco della controversia'. Proprio per questa sua impegnativa carica dialettica, il dialogo non si esercita veramente se non tra personalità pienamente emerse e consapevoli. La coralità della convivenza deriva da questa svolta decisiva, grazie alla quale mi rendo conto che la mia libertà può essere messa al servizio degli altri, risolvendosi in un beneficio collettivo del quale, una volta di più, ciascuno di noi si assume la responsabilità. 

Quali consigli darebbe a un educatore? Non dimenticare mai di essere il primo soggetto dell’educazione. Anche l’adulto, infatti, è costantemente richiamato al compito di diventare sé stesso, di scegliere e di mettersi in discussione. Per quanto mi riguarda, cerco di avanzare con una specie di passo doppio. Non è bene rinunciare del tutto al proprio ruolo istituzionale, che conferisce autorevolezza, ma per essere credibile occorre trovare il modo di conquistarsi la fiducia degli adolescenti. Il procedimento è complesso e a sua volta rischioso, ma resto del parere che muoversi tra i banchi non sia meno efficace dell’insegnare dalla cattedra. L’educatore, insomma, deve imparare a essere insieme amico e maestro. 

Gli adulti sono all’altezza della sfida? Non tutti, purtroppo. Troppo spesso vedo genitori che, non accettando la propria fragilità, si sforzano di scimmiottare la condizione dei figli, lasciandoli spaesati. Per crescere un ragazzo ha bisogno di affrontare un ostacolo, senza il quale non proverà mai la vertigine della libertà. 

La pandemia è stata questo ostacolo? Anche questo, sì. Ed è stata un esperimento di libertà. La fase della didattica a distanza va chiusa al più presto, per evitare ulteriori fenomeni di dispersione e abbandono scolastico. Ma proprio con la Dad alla Penny Wirton abbiamo potuto fare cose straordinarie, per esempio mettendo in contatto tra loro un ragazzo disabile di Catania con un giovane egiziano di Torino. Il primo ha insegnato l’italiano all’altro, la sua fragilità fisica è venuta incontro alla fragilità linguistica dell’altro. Allo stesso modo, un profugo sordomuto iracheno ha potuto incontrare una volontaria specializzata nella lingua dei segni, che gli ha dato lezioni di italiano a distanza. 

Occorre ripartire da questi bisogni? L’educazione parte sempre dal basso: la fragilità è il vero punto di ingresso. Come diceva don Milani, la scuola non può essere un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Oggi le malattie sono tante, diverse l’una dall’altra. Noi per primi dobbiamo imparare a riconoscerle. 

www.avvenire.it

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