Occorre una nuova libertà analogica
La digitalizzazione crescente di ogni aspetto della nostra vita è un’incognita che grava sul futuro della società Ma il finale della storia non è già scritto. La «cultura digitale» è il prodotto della sterminata produzione quotidiana di dati da parte di ciascuno di noi Ma sono davvero indispensabili, o stanno diventando una minaccia per uno sviluppo equo? Occorre introdurre dispositivi che permettano di abbracciare la realtà tutta intera e non una sua «fotografia» solo numerica.
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di LUCA GAMMAITONI
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Non passa giorno che non ci venga ricordato che viviamo nella
società dell’informazione e che questa è forgiata dalla cultura digitale: una
cultura che è nata in America circa cinquant’anni fa, grazie all’introduzione
di tecnologie basate sull’elettronica, inventate a loro volta trent’anni prima,
sempre lì, nei campus universitari delle due coste Usa. Il funzionamento della
società dell’informazione e i rischi a essa connessi sono al centro della
riflessione di Shoshana Zuboff, docente all’Harvard Business School, che al
tema ha dedicato un libro, Il capitalismo della sorveglianza (Avvenire
ne ha parlato qui: https://bit.ly/3tRAXlv ) e un articolo
pubblicato sul New York Times del 19 gennaio ( The
Coup We Are Not Talking About).
Zuboff mette in guardia il lettore circa il crescente
pericolo del controllo operato da pochi soggetti economici: «Forti delle loro
capacità di sorveglianza e spinti dalla necessità di accumulare profitti, i
nuovi imperi hanno architettato un colpo di stato cognitivo, basato su una
concentrazione senza precedenti di informazioni sul nostro conto e sul potere
incontrollato che deriva da questo patrimonio di conoscenza».
È solo uno dei molti allarmati appelli che negli ultimi anni si sono levati verso un crescente rischio di manipolazione delle regole democratiche grazie alla pervasività delle tecnologie digitali. Il rischio per la nostra civiltà esiste perché esistono i dati, e i dati esistono perché esiste la tecnologia digitale. Ovviamente, le informazioni su di noi e sulle nostre abitudini esistevano anche prima e i polverosi archivi dei servizi segreti ci sono da tempi immemori. Tuttavia la straordinaria capacità di aggregare, analizzare e utilizzare dati è una chiara conseguenza dell’esistenza di quella che chiamiamo cultura digitale. Senza le enormi quantità di dati prodotti ogni giorno, soprattutto grazie a Internet e al nostro uso degli strumenti software che ci mette a disposizione, come i social network (Facebook, Instagram, Twitter...) e i programmi di comunicazione ( WhatsApp, Messenger...), la cultura digitale non esisterebbe e non esisterebbe nemmeno la minaccia incombente di una società della sorveglianza, così come delineata da Zuboff. Nei commenti che circolano a proposito di questa minaccia, fattore comune è l’ineluttabilità dei dati, la loro onnipresenza e indispensabilità per garantire uno sviluppo della conoscenza e della qualità di vita del genere umano. Ma non è così. I dati non sono indispensabili, al contrario: sono un intralcio e, come abbiamo visto, sono la causa principale della crescente minaccia a uno sviluppo equo e democratico.
Il primo passo per capire perché i dati non sono indispensabili è comprendere che sono semplicemente un prodotto tecnologico: non c’erano appena cent’anni fa e, molto probabilmente, non ci saranno più tra cent’anni. Come tutti i prodotti tecnologici, ai dati succederà quello che è successo ai testi scritti sulle pergamene che affollavano la biblioteca di Alessandria. Le biblioteche rinascimentali, a loro volta, pullulavano di libri a stampa (altro prodotto della tecnologia) e scarseggiavano di pergamene. Le biblioteche contemporanee hanno sempre meno libri a stampa e sempre più testi digitali. Quelle del futuro avranno qualcosa che non abbiamo ancora inventato ma, inevitabilmente, scarseggeranno di testi digitali. I dati, in quanto prodotto tecnologico, vengono creati mediante un processo chiamato digitalizzazione, che dovrebbe essere un processo molto familiare perché viene effettuato da ciascuno di noi, molte volte al giorno, senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Stiamo digitalizzando, ad esempio, ogni volta che infiliamo un termometro elettronico sotto l’ascella. Dopo pochi secondi compare un numero – ovvero un dato – che ci informa sulla nostra temperatura. Similmente, quando pesiamo la farina per fare un dolce leggiamo sul display della bilancia elettronica il valore del peso: un altro dato. La produzione di dati è una nostra decisione perché, ad esempio, potremmo scegliere di utilizzare un termometro analogico per controllare se abbiamo la febbre e leggeremmo allora il valore della temperatura su una scala graduata dove un liquido colorato si è espanso fino ad avvicinarsi ad una certa linea. In questo modo non abbiamo fatto alcuna operazione di digitalizzazione, ovvero non abbiamo prodotto alcun dato, ma abbiamo lo stesso ottenuto l’informazione che cercavamo. S i pensa che i dispositivi del passato abbiano molti difetti e pochi vantaggi, a cominciare dalla lentezza, l’ingombro, la scarsa precisione. Anche in questo caso le cose non stanno così. Gli strumenti analogici sono sempre in grado di darci un’informazione più corretta di quelli digitali. Il motivo è che in ogni nostra operazione di digitalizzazione inseriamo un inevitabile errore. Nei corsi di analisi dei dati gli studenti universitari imparano che questo si chiama “errore di quantizzazione”, e per quanti sforzi si facciano possiamo solo cercare di diminuire l’entità dell’errore ma mai di eliminarlo del tutto. Però – mi direte – i computer sono digitali, e chi, sano di mente, oggi si sentirebbe di rinunciare agli enormi benefici che ci portano? Risposta: nessuno, perché non bisogna certo rinunciare ai computer. Non solo, sono esistiti computer analogici ben prima di quelli digitali (qualcuno ricorda il calibro ventesimale?). Ma i computer del futuro, nell’accezione di computer quantistici, sono macchine intrinsecamente analogiche, e dal pieno sfruttamento delle loro capacità potremmo ottenere potenze di calcolo oggi inimmaginabili. Anche la memorizzazione delle informazioni può sopravvivere alla scomparsa dei dati: informazioni vengono immagazzinate in modo analogico dai tempi dei primi graffiti nel paleolitico superiore, e oggi esistono metodi molto più efficienti.
Detto questo, cosa c’è da fare? Non sto
proponendo di assaltare le banche dati o di ritirarsi
in montagna tagliando i ponti con il resto della società. Vorrei
però che si diffondesse l’idea che il realizzarsi della società dei dati,
dove il controllo sulle informazioni con cui abbiamo a che fare ogni giorno è
in mano a un numero limitato di soggetti non proprio disinteressati, non è
inevitabile ma è piuttosto la conseguenza di scelte politiche fatte a livello
nazionale e internazionale, che hanno quel controllo come obiettivo e la grande
disponibilità di dati come mezzo. Come si supera allora la società dei dati?
Per cominciare bisogna ridurre il numero di dati che produciamo ogni giorno e
che rendiamo facilmente disponibili. Alessandro Baricco nel suo recente libro The
Game ricorda che la cultura digitale, alla base del capitalismo della
sorveglianza, nasce dall’azione più o meno consapevole di un gruppo di hippies
californiani con l’istinto degli affari che progressivamente si insinua nelle
pieghe della società moderna non a suon di proclami, manifesti o rivoluzioni,
come si sarebbe fatto nel secolo precedente, ma mediante l’introduzione di
piccoli dispositivi ( tool) digitali che con aspetto
amichevole e innocuo ci promettono una vita più facile: musica dove vuoi e come
vuoi; il telefono che fa anche le foto, la possibilità di controllare la casa a
distanza, il sistema per rimanere in contatto sempre e ovunque con chi ti
pare... È costituito da questi oggetti il bagaglio del rivoluzionario
digitale. È sotto gli occhi di tutti come in pochi anni questa
trasformazione si sia ampiamente imposta fino a creare quella che oggi
chiamiamo società dei dati. Per superare questo stato di cose, per liberarci
della società dei dati e della sua pericolosa minaccia al futuro della nostra
democrazia, bisogna essere in grado di proporre nuovi tool che
anziché digitali siano analogici, ovvero capaci di superare le limitazioni
dovute ai processi di digitalizzazione, per abbracciare la realtà tutta intera
e non la sua pallida rappresentazione in termini di dati. Dispositivi analogici
che possano elaborare l’informazione senza produzione di dati che altri possano
accumulare e utilizzare per manipolare la nostra vita. Sostituire i tool analogici
a quelli digitali, aumentando la libertà dei singoli e promuovendo una società
più equa e democratica è il compito difficile ma irrinunciabile che attende le
nuove generazioni di cittadini scienziati. E il lavoro è appena
cominciato.
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