e un Manifesto
che mette a nudo il nodo da sciogliere
di EUGENIO MAZZARELLA
Un gruppo di docenti di diverse aree scientifiche dell’Università di Padova, al termine di un percorso di discussione in questi mesi di lockdown, ha pubblicato un Manifesto ('Università del futuro, università libera': https://www.universitadelfuturo. it) che vale davvero la pena leggere e sottoscrivere. Efficace sintesi del disagio intellettuale di molta università e ricerca italiane per un dibattito pubblico spesso viziato che coinvolge il loro lavoro, e soprattutto per le scelte politiche che da anni ne discendono in modo acritico. È un manifesto per un’università che non si rassegni a diventare un hub, cioè una piattaforma che raccoglie e distribuisce pacchetti di conoscenze, strategie di soluzione dei problemi e didattica per competenze. Per un’università che sia un pluriverso di saperi liberamente orientato, che assolva al vero paradigma dell’avanzamento delle conoscenze. Che non si riduce alla loro applicabilità per committenza, ma è sempre stato generato dalla loro 'criticità', che, pur nell’essenziale risposta alla domanda sociale di saperi esperti, è ancor più essenziale salvaguardia della loro capacità di «creare uno scarto temporale rispetto alle urgenze del contingente, in grado di immaginare, pensare, prefigurare, anticipare gli scenari futuri». Per farla semplice, l’università del futuro non può ridursi ad azienda sotto forma di 'agenzia' da cui «acquistare prestazioni e contenuti, regolata e definita dalle esigenze del mercato globale della conoscenza più che da quelle formative, culturali e scientifiche». Di qui la necessità di una sua struttura di finanziamento 'liberale', non immediatamente profittevole, per promuovere la libertà e il pluralismo della ricerca. E l’ancor più necessaria, di questi tempi, consapevolezza che sono le tecnologie a doversi porre a servizio della didattica e non viceversa, perché «l’insegnamento non può e non deve essere mera trasmissione di un sapere riproducibile come un bene di mercato e tracciabile come un prodotto economico 'lungo la filiera della conoscenza', replicabile all’infinito, sempre più standardizzato».
Idee semplici, ma fondamentali, che richiamano la nostra attenzione sulla vera criticità 'ecologica' della ricerca e della trasmissione del sapere oggi: un ambiente sempre più soffocato e intossicato dal principio aziendale della 'prestazione' (limitativo anche per la generatività della stessa impresa sociale dell’homo oeconomicus, come ben sa la migliore economia), a danno del principio di 'formazione' – quella che una volta si sarebbe detta la Bildung.
Che certamente nata come fatto di élite, storicamente, per
vari rivoli, ha fecondato e fornito un’ideale anche alla scolarizzazione e alla
formazione di massa, come sa chi ha letto almeno il libro 'Cuore' di quel
socialista di De Amicis. Un’idea di formazione che è l’anima che non rende
esercizio meccanico le pur necessarie competenze da acquisire nei processi di
apprendimento.
La dico pianamente: noi dobbiamo insegnare ai nostri ragazzi, anche ai livelli più avanzati della formazione e della ricerca, certamente 'qualcosa', che sia utile a loro e agli altri, ma dobbiamo insegnar loro ad essere ancor più 'qualcuno', persona non ridotta a quel che sa fare, ma attenta a quel che è e che deve essere. Il sapere - l’aura di sacerdozio con cui nasce - è sempre stato trasmissione, custodia, ampliamento del depositum humanitatis in cui siamo radicati. Togliere al sapere questa funzione, ridurlo a trasmissione di competenze che può svolgere (e già lo fa) una macchina ben impostata, ridurre l’intelligenza alla robotica della prestazione o alle prestazioni della robotica, è un rischio esiziale. Anche di una transizione ecologica che si riduca alla gestione del rischio ambientale del nostro agire. La transizione ecologica di cui abbiamo bisogno è ben più integrale: portare nel futuro il Noi ambientato che siamo. E il nostro ambiente è natura 'e' storia, un chiasmo sempre più a rischio, che tuttavia dobbiamo continuare a saper intrecciare, in quella che preti e filosofi (anziani) provano a pensare da tempo come un’ecologia dello spirito.
Se abbiamo bisogno di questo, abbiamo bisogno di
un’università che non sia un’università di prestazione, solo al servizio del
presente, tradotto in volgare: al servizio del modello socioeconomico dato, che
ha solo bisogno di competenze finalizzate alla sua autoriproduzione. Ma che,
come università di formazione, sappia liberamente coltivare, immaginare il
futuro, che non è semplicemente un 'brevetto'. Perché senza utopia, senza la
capacità di immaginare i luoghi che ancora non ci sono, non sapremo più vedere
le distoglie immanenti al presente, che è appunto quello che i gestori del
presente non vogliono che si sappia. La metto sul provocatorio: l’università
non può avere stakeholders (soggetti direttamente o
indirettamente coinvolti in un’attività aziendale). Sarebbe piacevole parlarne
in Confindustria. Così magari ci si comincia a capire.
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