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di Giuseppe Matarazzo
Forse sì, ma potremmo anche rovesciare la prospettiva e dire
che siamo messi bene, se episodi come questo ci colpiscono. Vuol dire che c’è
ancora attenzione morale, c’è un terreno ricettivo su cui seminare.
Ma perché ci colpisce?
Perché il gesto, semplice in sé, risveglia il desiderio di un
mondo migliore, soprattutto in noi adulti. Sentiamo la nostalgia di quella
prontezza di quando eravamo piccoli, di quella disponibilità verso gli altri
che forse abbiamo perso nel tempo perché la vita ci ha feriti, rendendoci più
cinici. Allora una cosa così piccola giunge inaspettata e può sorprenderci.
Cosa succede poi? Ecco, la domanda è: riusciamo ad andare al
di là dell’episodio? Riusciamo a passare dalla reazione emotiva
all’elaborazione riflessiva? Se pensiamo alla pandemia e alla nostra reazione
iniziale, ci siamo detti: «Niente sarà come prima». Di fronte alla paura
collettiva, sono scattati meccanismi di solidarietà, i balconi,
#andràtuttobene, l’attenzione al vicino. Poi la situazione si è lentamente
normalizzata fino al riemergere dei modi di sentire e di pensare più soliti. È
riemersa la rabbia, il discutere irritato sulle priorità, l’idea di essere in
concorrenza gli uni contro gli altri. Nella fatica del prolungarsi
dell’eccezionalità, la solidarietà della prima ora si scioglie. Ora siamo nel
tempo dello scioglimento, ed è un tempo molto delicato.
La magia svanisce…
Se allarghiamo la visuale, dal nostro “condominio” allo
Stato, lo scandalo è sempre in agguato. Si può distinguere fra etica pubblica
ed etica privata?
Oggi il confine tra vita privata e vita pubblica sta
scomparendo. Specie sui social media tutti abbiamo un “pubblico” e lo invitiamo
costantemente a notare la nostra vita privata: non possiamo poi meravigliarci
se chi deve intrattenere con noi relazioni di lavoro cerchi di farsi un’idea di
chi siamo osservandoci a tutto tondo. Ma proprio questo genere di indagini ci
rivela l’intuizione antropologica: vizi e virtù ci accompagnano dal privato al
pubblico senza soluzione di continuità. Non può esserci una “doppia” morale.
Ma sui social si può mostrare un altro volto di sé, una
maschera… Il virtuale e il reale sono due aspetti speculari della nostra
esistenza. Questi due mondi prima o poi si raccordano. E se i due profili non
corrispondono, questo finirà per emergere. Per questo vanno usati con cura i
social, senza cedere alla tentazione di sovra-rappresentarsi.
Nel suo libro accosta etica pubblica e spiritualità, in che
modo sono legate?
Gli antichi hanno riservato molta attenzione al rapporto con
il denaro e con il potere. Pelagio faceva osservare che il desiderio di queste
due cose non conosce punto di saturazione. Significa che si può finire per
esserne catturati in modo totalizzante. Quindi sapendo di doversi occupare di
risorse pubbliche, e quindi di dover essere costantemente esposti al fascino
del potere e della ricchezza, occorre prestare particolare attenzione alle
dinamiche della lotta interiore. Anche Max Weber, nel suo celebre discorso
sulla Politica come professione in fondo giunge alla stessa conclusione: senza
la cura costante della vita spirituale difficilmente si riesce ad assolvere ai
compiti pubblici con responsabilità o, come scrive la nostra Costituzione, «con
disciplina e onore».
C’è anche un’etica nella comunicazione. Il web sembra un far
west, fra fake news, hater, hacker… Come si è arrivati a questa degenerazione?
La qualità delle piazze digitali dipende dai modi delle
persone che le frequentano, proprio come nella dimensione offline: così ci sono
luoghi splendidi e altri degradati. Però è vero che online percepiamo meno la
dimensione pubblica e aperta di questi contesti: spesso ci si esprime con
rabbia e toni accesi come se ci si stesse sfogando a tu per tu con un
confidente. E invece si è al centro della piazza, e ogni parola - specie poi le
più violente e sprezzanti - può scatenare o alimentare dinamiche di
aggressività e di offesa a crescita esponenziale. Con questo voglio dire che siamo
molto preoccupati degli “inquinatori” di professione, ma che invece dovremmo
anzitutto attrezzarci per non essere inquinatori ingenui o involontari.
Con l’associazione Parole O_Stili avete stilato un manifesto
per migliorare la comunicazione in rete.
Ci siamo chiesti precisamente come sostenere la maturazione
di un modo consapevole e eticamente avvertito di abitare le piazze digitali. Il
manifesto non dà delle prescrizioni, propone dei principi, punti su cui si può
sostare e interrogarsi: “il virtuale è reale”, “le parole sono un ponte”, “gli
insulti non sono argomenti”, “le parole ci rappresentano”... e così via fino
all’ultimo, “anche il silenzio comunica”. Sono spunti da cui avviare una
riflessione, dei laboratori, e certo anche delle attività formative, come è
stato fatto da Parole O_Stili con le Schede per l’Educazione Civica destinate
alle scuole.
Ora lancia anche un corso universitario. Qual è l’obiettivo?
Mettere in collegamento tre dimensioni: l’etica nelle
istituzioni; il mondo della comunicazione inteso non solo come risorsa di
strumenti ma anche come mondo di relazioni; la gestione dei conflitti.
Offriremo elementi per comprendere il panorama sociologico e antropologico, per
scegliere parole di qualità, ma anche per farsi carico delle situazioni
compromesse proprio a causa di fraintendimenti ed eccessi nell’interagire gli
uni con gli altri.
Il biglietto del bambino diventa così una lezione. Etici si
nasce, ma poi si diventa?
Si nasce etici perché la sensibilità al bene ci appartiene.
Ma questo intuito per il bene va poi tradotto in gesti possibili, nonostante le
ferite, le delusioni, le sconfitte. E va talvolta rinnovato, lasciandoci sorprendere
anche da piccoli episodi. La responsabilità va coltivata. Come una piccola
pianta, di cui provare a prendersi cura.
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