e un risultato deludente
Ora che sono stati nominati anche i 39 sottosegretari e la
squadra del nuovo governo è stata completata, è possibile darne una prima
valutazione “a caldo”. Nella consapevolezza che saranno i fatti a dire, in
ultima istanza, in che misura e in che direzione siamo in presenza di una
svolta rispetto al passato; ma anche che il comportamento futuro di coloro che
sono stati appena investiti del compito di governare il nostro Paese non può
prescindere dalla loro identità politica, frutto della loro storia personale, e
dal contesto in cui la loro scelta è stata fatta dai partiti.
Un contesto che, per quanto riguarda i ministri, era apparso
decisamente positivo, specialmente a confronto con le precedenti esperienze dei
governi Conte. Il capo dello Stato – favorito dal clima di “ultima spiaggia”
che caratterizzava il momento – ha garantito al presidente incaricato Draghi la
possibilità di scegliere i nomi dei titolari dei vari dicasteri in piena
autonomia.
Forse proprio per questo, quando la lista è stata resa
pubblica, non si è potuto evitare di provare quella che un equilibrato
editorialista ha definito «una punta di delusione». È vero che il governo
doveva essere – questa era l’unico vincolo – “politico”; è vero che la pretesa
di Berlusconi che fosse quello “dei migliori” appariva in partenza uno slogan
velleitario; ma forse era legittimo aspettarsi una maggiore discontinuità
rispetto al personale stantìo e, in qualche caso, squalificato dei passati
governi della Seconda Repubblica. È sembrato quasi che Draghi abbia preferito
rinunziare a esercitare il suo potere di andare oltre le logiche strettamente
partitiche – magari nominando personalità “di area”, gradite, ma non organiche
ai rispettivi apparati partitici –, per rispettare alla fine le preferenze di
questi apparati, limitandosi a far presidiare qualche posto chiave da alcuni
tecnici di propria fiducia.
La legge della jungla non favorisce l’«alto profilo»
E così ha fatto anche per la scelta dei sottosegretari, in
cui invece era esplicitamente previsto il ruolo decisivo dei partiti. Ma qui
già il contesto è bruscamente cambiato, trasformandosi in quello di una rissa
che ha paralizzato la vita del governo per diversi giorni. Non più tenute a
freno dal presidente del Consiglio – e forse incoraggiate dalla disponibilità
che questi aveva avuto nei loro confronti – le forze politiche sono uscite allo
scoperto, dando vita a una lotta senza esclusioni di colpi che ha avuto come
unica regola la legge della jungla. E questa volta Draghi ha dovuto far ricorso
alla sua autorevolezza non per agire in autonomia, ma per imporre la fine di
questi giochi di palazzo.
Il risultato finale, però, non è meno deludente di quello
registrato a livello ministeriale. Anzi. Tutti i giornali hanno ironizzato
sulla nuova sottosegretaria alla Cultura, la quale, quando ricopriva lo stesso
incarico nel governo Conte 1, aveva ammesso di aver letto l’ultimo libro tre
anni prima; o sull’altro, nominato sottosegretario all’Istruzione, che pochi
giorni fa ha postato sulla sua pagina Facebook la frase «chi si ferma è
perduto», attribuendola a Dante, mentre invece deriva da un albo di «Topolino».
Non si tratta di demonizzare nessuno, ma è chiaro che non
sono simili figure che possono aiutarci a veder realizzato l’auspicio del
presidente Mattarella che questo fosse, per usare le sue parole, «un governo di
alto profilo». E purtroppo non sono questi gli unici casi in cui il criterio
della scelta dei nuovi sottosegretari sembra essere stata la fedeltà ai
rispettivi leader di partito, più che la loro competenza e il loro spessore
culturale.
La mancanza di un progetto comune
Ma non è questo l’aspetto della formazione del nuovo governo
che appare più inquietante. Purché si faccia finta di non aver mai sentito
parlare di un “governo dei migliori”, il ricordo di altri governanti del
passato altrettanto discutibili ci potrebbe aiutare a sorvolare. Il guaio è
che, a questo limite, qui se ne aggiunge un altro, ben più gravido di
conseguenze politiche, perché relativo alla esigenza da cui l’attuale esecutivo
è nato, quello di esprimere «l’unità nazionale».
Già il clima che aveva accompagnato la scelta dei ministri
induceva a serie perplessità. Tra le forze politiche non sembrava esserci alcun
reale sforzo di dialogare tra loro per costruire un minimo progetto comune. Né
sembravano in grado di farlo, date le radicali distanze tra di loro e con lo
stesso indirizzo europeista del governo a cui aderivano, superate nel giro di
pochi giorni con una giravolta troppo improvvisata per non essere dubbia.
Il solo polo attrattivo, per tutti, erano i 209 miliardi del
Recovery Fund, su cui ognuno voleva avere le mani non per contribuire, con le
proprie specifiche sensibilità e competenze, a un unico percorso, ma per trarne
le risorse necessari ai propri piani, peraltro incompatibili con quelli degli
altri partner di governo. L’unità della compagine governativa veniva affidata
in modo esclusivo alla capacità del presidente Draghi di crearla dal nulla, con
i colpo di bacchetta magica del suo personale prestigio.
Ora, con la nomina dei sottosegretari, si accentua
l’impressione che questo governo, dietro l’etichetta della “unità nazionale”,
si avviato ad essere quello del tiro alla fune tra posizioni antitetiche. Si va
dal grillino Carlo Sibilia, che sulla sua pagina Facebook, nel febbraio 2017,
aveva addirittura scritto di Mario Draghi: «Andrebbe arrestato», e che ora farà
parte del suo governo come sottosegretario all’Interno, alla leghista Stefania
Pucciarelli, che nel 2017 mise “mi piace” su Facebook a un utente che scriveva
«la prima casa agli italiani, agli altri un forno» e l’anno dopo ha pubblicato
un video contro i migranti, denunciando di essere «l’unica italiana in un
vagone del treno». E non sono gli unici casi.
Qui il problema non è di competenza o meno, ma di identità e
di linea politica. Tutti convertiti dalla bacchetta magica di Draghi? Oppure
entrati a far parte di una compagine governativa che dichiaratamente va in
direzione opposta alla loro, con la speranza di poter contribuire a modificare
questa direzione?
Un passaggio di consegne simbolico
È un indebito processo alle intenzioni? C’è almeno un caso in
cui le intenzioni sono state esplicitate. È quello del nuovo sottosegretario
all’Interno Nicola Molteni, che ricopriva questa carica quando il ministro
degli Interni era Salvini e che è considerato l’ideatore dei famosi “Decreti
sicurezza”, che rendevano molto difficile non solo l’ingresso dei migranti nel
nostro Paese, ma anche quella integrazione che avrebbe loro consentito di
passare da “clandestini” a “regolari”. Molteni entra sostituendo il dem Matteo
Mauri, che aveva molto lavorato per smontare e modificare quei Decreti. Un
passaggio di consegne simbolico…
Il leader della Lega aveva preannunciato questa nomina. In
una intervista di qualche giorno fa aveva espresso le sue riserve sulla
conferma del ministro degli interni, Luciana Lamorgese, a suo avviso inadatta
fronteggiare il problema migratorio – in realtà su posizioni molto diverse
dalle sue – e aveva garantito che avrebbe provveduto a «metterle accanto
qualche persona in gamba, che avrebbe fatto cambiare passo». A rendere
problematica questa soluzione era il fatto che Molteni, nell’ultimo anno, aveva
inondato la sua pagina facebook con attacchi durissimi alla Lamorgese. Il Pd
perciò si era opposto e la stessa ministra aveva espresso la sua perplessità.
Ma la nomina è stata fatta.
È abbastanza evidente il preciso progetto di Salvini di
creare, all’interno del Ministero, un contraltare alla guida del ministro, per
riportare le politiche del governo sulla linea che la Lega ha sempre sostenuto
e, quando ha potuto, ha realizzato. A conferma di ciò, in queste ultime
settimane il leader leghista ha moltiplicato le denunzie dell’aumento degli
sbarchi, riprendendo temi che gli erano carissimi, ma che la sua lontananza dal
potere e la pandemia avevano contribuito a relegare in secondo piano.
Gli otri vecchi
Di questo gioco di contrappesi è un altro esempio la nomina,
come sottosegretario alla Giustizia, dell’ex avvocato di Berlusconi, artefice
di molte delle raffinate strategie giudiziarie che hanno consentito al leader
di Forza Italia di sfuggire a quasi tutte le azioni giudiziarie nei suoi
confronti. Difficile non vedere anche in questo caso una mossa volta a
controbilanciare la posizione del nuovo ministro, Marta Cartabia, certamente
estranea a queste logiche.
Ma si potrebbero citare anche altre nomine come quella di
Giuseppe Moles, vicinissimo a Berlusconi, come sottosegretario in un
ministro-chiave per gli interessi del “cavaliere”, quello all’informazione e
all’editoria, in collegamento con l’altro forzista, Gilberto Picchetto
Frattini, sottosegretario allo Sviluppo economico, importantissimo per il
problema delle frequenze TV.
L’asse Lega-Forza Italia esce dunque clamorosamente
vittorioso nella lotta per formare “il governo di unità nazionale”. L’unico neo
è che si tratta delle stesse forze che hanno dominato per vent’anni la Seconda
Repubblica (altro che “svolta”!) e che il loro progetto non è mai stato quello
che ora Draghi attribuisce a questo nuovo governo. Mentre gli altri partiti
sembrano privi di anima, come il Pd, o nel caos, come i 5stelle.
Dice il Vangelo che se si mette vino nuovo (il progetto del
premier) in otri vecchi (i partiti che dovrebbero realizzarlo) si rompe tutto.
L’altra ipotesi, non meno preoccupante, è che gli otri finiscano per cambiare
il vino. Speriamo che i fatti smentiscano questa triste previsione.
*Pastorale Cultura Diocesi Palermo
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