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venerdì 26 febbraio 2021

CONOSCERE E' COLLABORARE


 Parla lo studioso David Weinberger: «Per l’evoluzione delle biblioteche in piattaforme sono fondamentali la condivisione e il confronto dei dati» «I sistemi di apprendimento automatico accrescono la nostra responsabilità nella ricerca di un senso da dare alla realtà»

-                                                                          --di ALESSANDRO ZACCURI

 A forza di occuparsi del futuro, David Weinberger si è convinto che sia più prudente astenersi dalle previsioni. Il suo ultimo libro, Caos quotidiano, edito in Italia da Codice nella traduzione di Massimo Durante (pagine 304, euro 24,00), è un invito a venire a patti con la natura magmatica dei cambiamenti in atto e, se possibile, a trarne vantaggio. È l’esito di una riflessione sviluppata nel corso degli anni, a partire dal celebre Cluetrain Manifesto del 1999 con il quale Weinberger – oggi ricercatore senior presso il Berkman Klein Center for Internet & Society di Harvard – aveva individuato la tendenza che da lì a poco sarebbe stata sviluppata dai social network. Di recente il suo lavoro si è concentrato sui temi dell’apprendimento automatico (il cosiddetto Machine Learning) e delle nuove forme di condivisione del sapere. Oracoli, biblioteche e Intelligenza Artificiale è il titolo della relazione che lo studioso terrà oggi alle 14.30 in apertura del convegno online su “La biblioteca, piattaforma della conoscenza”. Niente previsioni, d’accordo. Il presente, del resto, fornisce già materiale in abbondanza.

«Il punto – spiega Weinberger ad Avvenire – è che il web e l’Intelligenza Artificiale stanno mettendo in discussione la concezione tradizionale della conoscenza, che nella cultura occidentale era rappresentata dalla convinzione che la verità derivasse dal raggiungimento di un accettabile grado di certezza. Si trattava di stabilire un consenso: di conseguenza, ciò su cui si continuava a dibattere non poteva ancora essere considerato come oggetto di conoscenza. Ma questo prevedeva una conoscenza precedente, in un percorso a ritroso che arrivava fino alle basi del sapere. Raggiunte e consolidate le quali, si poteva procedere a elaborare altra conoscenza».

Un processo del genere è ormai superato?

Al contrario, riveste ancora grande importanza. Ma in questa fase chi va in cerca di conoscenza si trova ben presto all’interno di una rete di idee tra loro interconnesse, che continuamente espandono, spiegano o contraddicono la loro stessa interconnessione. Se ne potrebbe dedurre che, ora come ora la conoscenza, non si trovi più nei libri o nelle nostre menti, ma in queste reti instabili e in continua discussione. La conoscenza, insomma, sta avvenendo.

L’idea è suggestiva quanto pericolosa, ma va comunque presa in considerazione. Se la conoscenza è attualmente più instabile che stabile, allora siamo chiamati ad apprendere, trasmettere e favorire nuove modalità collaborative, capaci di restituire significato al mondo.

Quale può essere il ruolo delle biblioteche?

Le biblioteche non si sono mai limitate a conservare informazioni, ma sono sempre state a loro volta produttrici di conoscenza. Oggi però la loro evoluzione in piattaforme dovrebbe incentrarsi sull’obiettivo di rendere proficua la condivisione delle informazioni che le stesse biblioteche generano: gli elenchi delle consultazioni e dei prestiti, le richieste di opere non presenti nelle collezioni, le valutazioni degli utenti, tutti i metadati disponibili nei cataloghi cartacei eccetera. Molto si può ricavare da questo patrimonio, specie comparando tra loro i comportamenti ricorrenti dei lettori di biblioteche diverse. Un’analisi di questo tipo sarebbe di grande aiuto per i bibliotecari, che potrebbero così interagire con gli utenti, aiutandoli a sviluppare prospettive più ampie. Il fatto che la ricerca su un determinato argomento conduca regolarmente alla consultazione di un certo libro rivela parecchio di una comunità e permette di valutarne le decisioni anche in altri contesti. Tutto questo, si capisce, nel rispetto della privacy delle singole persone.

In che cosa il Machine Learning differisce dall’apprendimento tradizionale?

Mentre i libri contengono una rappresentazione linguistica della conoscenza, di per sé i modelli di apprendimento automatico non contengono alcuna conoscenza, pur essendo in grado di produrre informazioni altrimenti inaccessibili. In un certo senso, sono come una macchina per contare le monte costruita in modo follemente complicato da un inventore che non sappia nulla di monete: scivoli, scambi e interruttori sono assemblati a casaccio con l’unico scopo di verificare, uno scossone dopo l’altro, se il conteggio risulti appena appena più accurato. Funzionare funziona, alla fine, ma di monete continua a non capire nulla. Allo stesso modo, i sistemi di apprendimento automatico possono dare risultati eccellenti nella gestione dei dati immessi, ma restano letteralmente privi di conoscenza specifica. Intendiamoci, non sto svalu- tando il Machine Learning. Al contrario, queste osservazioni non fanno altro che rendere ancora più sorprendente il fatto che un sistema del genere riesca a svolgere mansioni che hanno parvenza cognitiva. Semmai, dovremmo interrogarci come mai questi aggeggi sembrino cavarsela tanto bene.

Come può essere garantita l’accessibilità a una conoscenza sempre più vasta?

Stanno venendo meno i comportamenti e le istituzioni che attribuivano un valore alle informazioni. Non esiste più un unico flusso dei media, non esistono autorità universalmente rispettate né meccanismi di protezione contro le idee offensive ed estremiste.

Certo, tutto questo aveva un prezzo: c’erano molte voci che non riuscivamo a sentire, perché restavano fuori dagli schemi dell’informazione. In un mondo interconnesso, invece, siamo in grado di ascoltarle. Siamo davanti a un cambiamento epocale, che ci permette di sperare. Nello stesso tempo, però, la fine di quel flusso univoco ci obbliga a andare in cerca di un senso da attribuire alla realtà. Nell’ultimo quarto di secolo il web ci ha insegnato che questa compito non può essere affrontato se non attraverso la collaborazione. Nessuno può farcela da solo, dobbiamo lavorare gli uni con gli altri. Insieme abbiamo scoperto che esistono trappole molto insidiose, insieme abbiamo adottato strumenti sempre più sofisticati ed efficaci per evitare di caderci. Questa attitudine collaborativa è, a mio avviso, la più importante conquista dell’era digitale.

Ma è proprio sicuro che sia meglio non fare previsioni?

Le scoperte più innovative degli ultimi anni sono legate alla consapevolezza che è più conveniente non farsi un’idea troppo precisa del futuro. Oggi come oggi, anziché costruire un prodotto a partire dalle presunte esigenze degli utenti, si mette a disposizione una versione di base, così da capire in che modo viene utilizzata, e con quali aspettative. In altri termini, il nostro rapporto con il futuro consiste non nell’intestardirci su una singola possibilità che vorremmo realizzare, ma nel predisporre una serie di possibilità innumerevoli, che troveranno poi una loro applicazione. Il nostro motto dovrebbe comporsi di queste parole: “fare – futuro– di più”.

 

www.avvenire.it

 

 

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