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giovedì 19 novembre 2020

MERITOCRAZIA E FRATERNITA'


 Contro il “dio incentivo” vinca la fraternità

La meritocrazia può anche essere un valore che crea conflitto e una società di classi. Il Vangelo invita a una conversione di mentalità e autentica giustizia.

Anticipiamo alcune pagine dal volume "Benedetta povertà? Provocazioni su Chiesa e denaro" (Emi, pagine 96, euro 11,00) di Erio Castelluci, arcivescovo di Modena-Nonantola.

 

 di Erio Castellucci 

 Il futuro della fede cristiana è legato anche alla capacità delle comunità cristiane di dare corpo al sogno di Gesù, il sogno del regno di Dio. Le intuizioni e le provocazioni devono diventare educazione, pena l’insignificanza del cristianesimo. Mi sembra che oggi le nostre comunità si giochino la loro forza profetica soprattutto in questo campo, nella relazione con i beni.

È indispensabile prima di tutto intensificare l’opera formativa a partire dai ragazzi e dai giovani, integrando questi argomenti nel normale itinerario dell’iniziazione cristiana e della catechesi. I percorsi sull’educazione affettiva e quelli sull’educazione economica ed ecologica procedono di pari passo, perché non sono altro che dimensioni del medesimo stile di dono e condivisione, reciprocità e gratuità.

La catechesi cristiana non può ignorare l’atteggiamento evangelico che sta alla base di entrambe le braccia dell’etica, quella cosiddetta individuale e quella sociale: distinzione che ormai dovrebbe peraltro essere superata, perché è “sociale” anche l’educazione sessuale ed è “individuale” anche l’educazione economica ed ecologica. Il rispetto per la vita nascente e morente va di pari passo con il rispetto per la vita emarginata e indigente; la pace e la nonviolenza nelle relazioni tra l’uomo e la donna vanno di pari passo con la pace nelle relazioni sociali e internazionali; la castità – cioè il rispetto dell’altro e il rifiuto dello sfruttamento – nelle relazioni sessuali va di pari passo con la castità nelle relazioni sociali, etniche, ambientali e interreligiose.

Una delle esperienze pastoralmente più dolorose è vedere le nostre comunità cristiane divise su ciò che dovrebbe rimanere unito, anzi profondamente intrecciato. Mi colpiva, prima come parroco e ora come vescovo, registrare nel popolo di Dio – e anche in noi ministri – una sorta di frattura verticale tra chi porta avanti i valori della persona e della famiglia, e chi invece i valori della società e dell’ambiente naturale. È proprio questo “invece” il problema. Se siamo davvero cattolici, non possiamo adottare l’aut-aut ma l’et-et. Finché la Veglia per la pace sarà di sinistra, e rigorosamente frequentata dai soli cattolici “progressisti”, e la Veglia per la vita sarà di destra, e riservata di fatto ai cattolici “tradizionalisti”, la Chiesa sarà divisa. Finché la Giornata del creato sarà di sinistra e la Giornata della famiglia di destra, continueremo a farci del male a vicenda. Una cosa è la maggiore sensibilità per l’una o l’altra dimensione etica cristiana – sensibilità che dipende dalle storie personali e dalle sfide della storia –, un’altra è l’assolutizzazione di una sola dimensione, trasformando inevitabilmente l’appartenenza cattolica in una battaglia «contro» altri cattolici.

Nemmeno questo stupisce, perché fin dai tempi di san Paolo le comunità erano divise, come dimostrano i partiti di Corinto (cfr. 1Cor 1,12); se non stupisce, però addolora. La divisione toglie forza interiore all’evangelizzazione. «Tutto è connesso», «tutto è in relazione », in una sorta di universale fraternità, come ripete la Laudato si’: relazione con Dio, sessualità, famiglia, poveri, giustizia, lavoro, pace, custodia del creato… Sono temi trasversali e interagenti.


Nello specifico, la formazione riguardante l’economia implicherà anche doveri e divieti: i doveri derivanti da un uso casto dei beni, che sono sempre mezzi e mai fini, e dalla necessità di una loro condivisione, del controllo dei propri investimenti perché non favoriscano commerci illeciti e immorali come quello delle armi, il divieto della speculazione e del gioco d’azzardo, il dovere di pagare le tasse, il dovere del rispetto per il creato, insieme a una visione critica della cosiddetta meritocrazia, del “dio incentivo”, del dogma dell’efficienza, produttività, redditività e competitività, i quali producono “gli scarti”; per affermare invece la cultura dell’onestà, del dono e della misericordia, che fa spazio anche a coloro che non sono vincenti e non sono in grado di competere.

Competitività, profitto, competenza: queste parole, che insieme formano il concetto di meritocrazia, non sono certo inique, ma lo diventano quando risuonano avulse dal contesto concreto. Una certa dose di competitività è necessaria e favorisce la qualità; il profitto, quando è proporzionato al lavoro, ne rappresenta un elemento di dignità, perché «l’operaio è degno del suo salario» ( Lc 10,7); la competenza, che fa leva sui talenti di ciascuno, è essenziale per un’equa e ordinata distribuzione ed efficacia del lavoro. Il problema sorge quando queste parole diventano discriminatorie verso coloro che non sono in condizioni di competere, non godono di alcun profitto e non hanno i mezzi per sviluppare i loro talenti. «Il merito può svolgere un buon compito in una società già giusta, ma nelle società ancora non giuste (e sono quelle reali), la meritocrazia, il governo del merito, amplifica le ingiustizie». Ed è proprio la fraternità a fare da ponte tra una povertà da combattere e una povertà da riscattare. Come scrive Edgar Morin: «La fraternità infrange la legge di qualunque regime che comporti discriminazione e oppressione».

 

www.avvenire.it

 

 

 

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