- di Giuseppe Savagnone *
La morte di
un essere umano è sempre un evento doloroso. In certi casi, però, a darle un
significato che va oltre la sua intrinseca drammaticità sono le reazioni che
suscita negli altri. È il caso della morte di Diego Armando Maradona. Giornali,
televisione, radio, social di tutto il mondo hanno dato a questa notizia un
risalto che ha oscurato per un momento i problemi legati alla pandemia e alle
elezioni americane. I mass media, peraltro, non hanno fato altro che dare
risonanza a un lutto reale, che ha profondamente scosso l’opinione pubblica mondiale.
Si sono viste immagini di persone che si abbracciavano piangendo, di gente che
usciva per le strade inneggiando al campione argentino e manifestando il suo
dolore.
Un nuovo
rito
Un’eco così
vasta merita forse qualche riflessione. Non tanto su Maradona, quanto sul vuoto
che sembra aver aperto la sua scomparsa. La prima che viene in mente è
l’importanza che lo sport – non tanto quello praticato, quanto quello
spettacolarizzato –, e il gioco del calcio in particolare, ha avuto nella
nostra storia recente, alimentando un business di proporzioni
immani e soprattutto polarizzando l’interesse di una società secolarizzata e
disillusa dalle ideologie.
Malgrado un
certo declino, registrato in questi ultimi anni, malgrado la crisi determinata
dalla pandemia, resta il ruolo che il calcio ha svolto, per decenni, riempiendo
– grazie anche alla radio, alla televisione, ai quotidiani sportivi – la
vita di milioni di persone e scandendo la loro settimana con un calendario
divenuto, con il moltiplicarsi delle “coppe”, sempre più ricco.
Un tempo la
domenica era il giorno del Signore, santificato con la partecipazione alla
santa Messa. Ormai, per molti, è diventata il giorno della partita. Nel declino
della partecipazione alle funzioni religiose, l’appuntamento con la “partita” è
diventato un nuovo rito.
Una “fede” e
i suoi “idoli”
Questa
assonanza con la sfera religiosa, che può apparire esagerata, è in realtà
evidente a chi ha modo di conoscere e frequentare tanti che non esitano a
definire il tifo per la propria squadra una “fede”. Si spiegano così anche gli
episodi di fanatismo e di violenza che purtroppo hanno a volte visto degenerare
la passione sportiva – al pari di ciò che può accadere alla fede religiosa – in
forme di intolleranza e di violenza.
Stando così
le cose, non può meravigliare che, come ogni religione, anche quella calcistica
abbia i suoi “santi”. O forse sarebbe meglio dire – in assenza di un vero e
proprio Dio unico – i suoi idoli. Anche qui siamo davanti a una terminologia
che può apparire a prima vista poco appropriata, ma che in realtà è stata resa
abituale dai mass media, per cui un campione è, appunto, un “idolo” delle folle
dei suoi tifosi, che non solo lo ammirano, ma lo venerano e lo glorificano come
solitamente i seguaci di una religione fanno con la divinità.
Un messia?
In questo contesto si può capire perché la vita e la morte di Maradona siano state così importanti, in primo luogo per milioni di suoi connazionali, che hanno riconosciuto nella sua persona una specie di “messia”, in grado di riscattare il paese dai suoi ricorrenti disastri economici e perfino di vendicare le umiliazioni subite sul piano militare nella guerra delle Maldive. Non è un caso che, a proposito del primo gol fatto dal “Pibe de oro” alla squadra inglese, nel campionato del mondo del 1986 – gol realizzato in effetti con l’aiuto di una mano –, si sia parlato di «mano di Dio» …
Ma dovremo
parlare anche del significato che Maradona ha avuto per i napoletani,
consentendo a una città (e a una intera regione) con immensi problemi
economici, sanitari, lavorativi, di sbaragliare – nel campionato di calcio – le
squadre di Milano e di Torino e strappando loro uno scudetto che sembrava il
simbolo della loro superiorità in ogni campo.
L’illusione
era già da tempo dissolta, per la verità. Ma il mito no. Non solo in Argentina,
non solo a Napoli, ma ovunque, in questo momento si piange, perfino la morte
del campione argentino potrà contribuire ad alimentarlo e a farne oggetto di
trasmissione di padre in figlio, facendo dimenticare i risvolti poco onorevoli
che le cronache di questi anni avevano rivelato.
Vera e falsa
religione
Viene in
mente la tesi di Marx secondo cui «la religione è l’oppio dei popoli»,
intendendo con questo che gli esseri umani tendono a chiudere gli occhi sui
loro reali problemi terreni, proiettandone la soluzione in un cielo immaginario
e rinunziando a cercarla su questa terra. Come accade a chi cerca nella droga
una via di fuga che lo esoneri dall’affrontare le difficoltà della sua vita.
Probabilmente
questa analisi si applica, più che alla religione come tale, a certe sue
contraffazioni, che della religione sono un surrogato e che subentrano quando
essa cessa di avere una reale incidenza nella vita personale e sociale. La
morte di Maradona, a questo punto di vista, più che aprire un vuoto, lo rivela.
Una società che ha bisogno di idoli ha già perduto qualcosa di più valido a cui
affidare il senso della sua vita.
E questo è
tanto più vero se il vero idolo, alla fine, non era Maradona, ma il mito del
successo e del denaro che irradiava dalla sua persona. Come del resto nel caso
di altre celebrità: di idoli, per definizione, ce ne sono sempre tanti e il
mondo attuale è politeista.
Il vuoto
delle ideologie
Questo
quadro di perplessità non sarebbe completo senza un riferimento al tema delle
ideologie. Anche di esse, come della fede religiosa, il nostro tempo ha già
ampiamente registrato il tramonto. Qualcuno in questi giorni ha indicato nel
campione argentino un ultimo sostenitore del comunismo, o almeno di quella sua
versione sudamericana che è stata incarnata da leader come Fidel Castro o Hugo
Chavez. Si è menzionata, a questo proposito, l’amicizia che legava Maradona a
questi due personaggi.
Ma la morte
del campione, così come svela il vuoto rappresentato da una falsa religione,
evidenzia anche l’illusorietà di una ideologia ridotta a mera proclamazione
velleitaria. Maradona non era Che Guevara. Non aveva, come lui, lasciato tutto
– il successo, i beni, il potere, la famiglia –, per andare a rischiare la vita
lottando contro governi dittatoriali e corrotti. E il suo unico impegno
politico sembra sia consistito nell’appoggiare un personaggio discutibile e
discusso – proprio dal punto di vista democratico – come la presidentessa
argentina Kirchner.
Un vero
campione
Maradona,
dunque, non era il messia – tanto meno un dio – né un modello di impegno
politico e sociale. Ma, negandogli un’aureola che non era sua, non lo si
svilisce. Era un vero, un grande campione e la sua bravura ha allietato tanti
che hanno gioito delle sue imprese sportive. Se non si trasforma in una
religione e in un surrogato della fede, l’affetto dei suoi tifosi è pienamente
legittimo. E le sue fragilità non hanno bisogno di essere nascoste, se lo si
considera per quello che semplicemente era: un uomo. Nei cui confronti, come
nei confronti di qualunque altro essere umano, vale il divieto evangelico di
giudicare l’intimo dei cuori.
Resta il
problema di una società che ha bisogno di avere idoli perché non riesce più a
trovare Dio e che deve appigliarsi alla parodia delle ideologie, perché non
riesce più neppure ad avere idee. Ma questo non è colpa di Maradona: è colpa nostra.
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