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sabato 21 novembre 2020

COSA RESTERA' DI QUESTO TEMPO INQUIETO E DOLENTE?


-  Dal Vangelo secondo Matteo - Mt 25,31-46

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti? E il re risponderà loro: In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?. Allora egli risponderà loro: In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l'avete fatto a me. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

 Commento di p. Paolo Curtaz

 Cosa resterà di questo tempo inquieto e dolente?

Cosa resterà di questa mia vita, fatta di sogni, di paure, di slanci e di frenate, di contraddizioni, di entusiasmi e sofferenza che si alternano, di desideri inespressi o irrealizzati, di delusioni e sconfitte? Cosa resterà della mia ricerca di fede, a volte entusiasta e travolgente, più spesso lenta e abitudinaria? Cosa rimane alla fine della vita? Della mia vita? Di ogni vita?

L’amore. Solo l’amore. Rimane quanto ho saputo amare. Quanto mi sono lasciato amare. Quanto ho desiderato amare. Perché l’amore dirige il mondo, perché l’Amore lo ha creato e plasmato e lo fa fiorire. Non i successi, i denari, i like rimangono ma l’amore che siamo riusciti a costruire nella concretezza del quotidiano. L’amore accolto da Dio, l’amante. Donato al meglio delle nostre possibilità, non come sforzo, ma come effusione di un amore ricevuto. Questo celebriamo in questa domenica che chiude l’anno liturgico e si avvia a concludere questo difficilissimo anno civile. Anno della prova, della verità, della manifestazione di quello che siamo e che siamo diventati. E la Parola sfida interpreta, scuote, consola, rapisce, illumina, indica, tormenta. E lo fa in un modo inatteso, decisamente fuori moda.

Regalità

Leggendo il vangelo conclusivo di Matteo restiamo sconcertati ed interdetti. Il clima è cupo, la visione di questo giudice implacabile come alcuni pittori ce l’hanno riportata, il possente Cristo di Michelangelo della cappella Sistina, ad esempio, fa paura.  Cosa ha che vedere questa pagina con il resto del vangelo? Matteo si è sbagliato? O ci siamo sbagliati noi quando continuiamo a professare il volto di un Dio compassionevole? I pastori, sul fare della sera, separavano le pecore dalle capre. Le capre, senza il “cappotto” fornito da madre natura, pativano il freddo proveniente dal deserto ed andavano ricoverate in un posto più caldo, come una stalla o sotto una roccia. Quest’immagine è lo sfondo del racconto di Gesù, una separazione che è una protezione, un’attenzione verso i soggetti deboli. Il pastore accoglie le pecore che lo hanno riconosciuto nel volto del povero, del debole, del perseguitato. Era prassi comune nel mondo ebraico, ma ne troviamo traccia anche in altre culture!, valorizzare i gesti di compassione verso i deboli.  Due sono le novità apportate dal vangelo di Matteo: Gesù lascia intendere che è lui che curiamo nel povero, identificandosi nell’uomo sconfitto. In secondo luogo questa identità è sconosciuta al discepolo che resta stupito nell’avere soccorso Dio senza saperlo. 

Gesù si identifica nel povero.  E afferma che il gesto di carità scaturisce da un cuore compassionevole, non necessariamente dal cuore di un credente. Il messaggio che Matteo ci rivolge è piuttosto chiaro: l’incontro con Dio cambia il tuo modo di vedere gli altri, riesci ad incontrarlo anche nel volto sfigurato del povero. Gesù non parla di “buoni” poveri o di carcerati vittime di un errore giudiziario!  Anche nel povero che ha sperperato tutto per colpa o nell’omicida (!) possiamo riconoscere un frammento della scintilla di Dio.

Siamo chiamati ad amare a prescindere perché amati a prescindere. Ad amare nella concretezza del gesto: cibo, bevanda, coperta, visita, accoglienza, conforto.

Ripetizione 

Gesù ripete la stessa idea, ma in negativo, questa volta. Come era consuetudine per i rabbini, che sempre ribadivano il proprio insegnamento una volta in positivo e una volta in negativo. Per calcare la mano Gesù conclude che colui che non lo riconosce brucerà nel fuoco della Geenna. Lasciate perdere le immagini orribili dell’inferno e il timore di Dio che non è paura del Padre ma paura di perdere il suo amore per nostra negligenza! La Geenna è una delle valli che circonda Gerusalemme, mai abitata perché, secondo la storia, lì i Gebusei praticavano sacrifici umani prima della conquista della città da parte del re Davide. Al tempo di Gesù nella valle della Geenna si bruciavano le immondizie. Se non sappiamo riconoscere il volto di Dio nel fratello siamo immondizia.  Gettiamo via la nostra vita, la sprechiamo.

Quindi

Alla fine dei tempi, davanti al Cristo in maestà che succederà?  Lo trovate scritto, leggete bene, e mettete da parte il taccuino su cui avete segnato puntigliosamente le ore di preghiera, le messe e le confessioni sopportate con cristiana rassegnazione e le eventuali giustificazioni da tirare fuori nel caso Dio fosse più esigente di quello che ci raccontavano.  Il Signore ci chiederà se lo avremo riconosciuto, nel povero, nel debole, nell’affamato, nel solo, nell’anziano abbandonato, nel parente scomodo. Sì: avete capito bene.  Il giudizio sarà tutto su ciò che avremo fatto. E sul cuore con cui lo avremo fatto.  Saremo giudicati sull’amore, con amore. 

La fede è concretezza, non parole, la preghiera contagia la vita, la cambia, non la anestetizza, la celebrazione continua nella città, non si esaurisce nel Tempio.  Allora, certo, la preghiera, l’eucarestia, la confessione, sono strumenti di comunione col Cristo e tra di noi per fare della nostra vita il luogo della fede.  Nel mio ufficio, alla mia facoltà, in casa a spadellare mi salverò. Se saprò portare la fede da dentro a fuori, da lontano a vicino, e riconoscere il volto del Cristo adorato nel volto del fratello che incontro ogni giorno, mi salverò. 

 La regalità di Cristo, oggi, si manifesta nei nostri gesti.  Cristo è Signore se sapremo sempre di più amare i fratelli, diventare trasparenza della misericordia, testimoni credibili della compassione.  Cristo è re se, in questi tempi oscuri, sappiamo conservare la speranza, costruire ponti, indicare sentieri.

Cristo vince se l’amore trionfa. Anche nella mia vita.


 

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