A ben vedere ciò che ci fuorvia è il linguaggio. In effetti,
anche riguardo alle tecnologie, non abbiamo un altro linguaggio da utilizzare,
all'infuori di quello che è applicato dagli esseri umani agli esseri umani
stessi. Ecco perché, nel caso di certi dispositivi tecnologici, parliamo di
“intelligenza”, sia pure “artificiale”. Si tratta di una tendenza
all’antropomorfizzazione, ben nota agli studiosi, che è carica di
conseguenze. Siamo spinti a omologare
l’essere umano, e più in generale l’essere vivente, alla
macchina. E dunque finiamo per ritenere che anche i nostri comportamenti
possano essere spiegati, ricostruiti e controllati sulla base delle stesse
procedure secondo cui funzionano le macchine.
Si verifica un cortocircuito argomentativo. In mancanza di
altre parole, per esprimere il funzionamento delle macchine, si usano
inizialmente gli stessi termini usati nel caso degli esseri umani. Ma i
processi degli apparati tecnologici possono essere spiegati e riprodotti,
programmati e controllati. Quando dunque queste parole vengono di nuovo usate
nel caso dell’essere umano, si verifica un effetto di retroazione. Ciò che
prima serviva a noi, in un’accezione metaforica, a farci comprende- re il
funzionamento delle macchine, adesso viene assunto in un senso letterale, ed è
finalizzato a spiegare il nostro stesso comportamento.
Tutto questo non è nuovo. Si tratta del punto di arrivo di un
progetto elaborato nel secondo dopoguerra. È il progetto della cibernetica
elaborato da Norbert Wiener: una scienza unica che, sulla base di una
determinata concezione del linguaggio, potesse unificare biologia e ingegneria,
e dunque l’attività dell’organismo e quella della macchina, e controllare
entrambe. Tale disegno ora è realtà: grazie agli sviluppi delle tecnologie
digitali, ma anche a seguito di quella tendenza a omologare ogni differenza che
si è ormai imposta oggi, in molti ambiti, nella mentalità comune.
Invece l’orizzonte umano è qualcosa di differente. L’essere
umano “funziona” infatti, potremmo dire, in una maniera analogica, non già
digi- tale. L’intelligenza è apertura di possibilità, è luogo di
creatività, è occasione di scelte, non già una serie di procedure
da applicare in sequenza. Al contrario della macchina
l’essere umano può retroagire sulle regole che sta
seguendo, modificarle, cambiare prospettiva: addirittura
farne a meno, far saltare il banco. Questo la macchina, anche
la macchina dotata di “intelligenza artificiale”, non può farlo. Insomma: nel
caso dell’essere umano è in gioco una riflessività dinamica, adattativa,
critica; una macchina, pur capace d’interagire con il proprio ambiente, pur
dotata di capacità di retroazione, ha bisogno di essere preventivamente
indirizzata, cercando di prevedere gli scenari possibili.
Ecco perché il problema che oggi dobbiamo affrontare in
ambito etico è quello della relazione, dell’interazione corretta tra uomo e
macchina. Ma perché ci sia una corretta relazione anzitutto bisogna aver chiara
la differenza fra i due ambiti. Bisogna capire che cosa significa che le
macchine sono «agenti morali» e entro quali limiti lo sono. In questo senso
occorre dare concrete indicazioni riguardo al modo in cui possiamo sviluppare
un’etica delle macchine sulla base di ciò che propriamente caratterizza
l’essere umano, e lui soltanto: il senso di responsabilità.
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