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mercoledì 23 settembre 2020

TECNOLOGIA ED ETICA. LA RESPONSABILITÀ' DELLE MACCHINE

La rivoluzione digitale sta cambiando la nostra relazione con la tecnologia alla quale spesso si attribuiscono poteri salvifici, ma scelta morale e discernimento non possono appartenerle

 di ADRIANO FABRIS

 Qual è l’orizzonte in cui si muove l’essere umano nella nostra epoca, caratterizzata dalla cosiddetta “rivoluzione digitale”? Come cambiano i nostri comportamenti e la nostra mentalità, interagendo con dispositivi sempre più autonomi e dotati di “intelligenza artificiale”? Quali sono le sfide che l’etica, come disciplina chiamata a regolamentare le nostre azioni e a giustificarne i principi, deve oggi affrontare? Sono i temi che affronto nell’intervento al LXXV Convegno del Centro Studi Filosofici di Gallarate sul tema: La natura e l’umano: quale rapporto (24–26 settembre 2020). Per inquadrarli dobbiamo aver chiaro, anzitutto, che cosa sono le tecnologie e quali sono i modi in cui ci possiamo rapportare a esse. Si contrappongono infatti due concezioni, entrambe parziali. Da una parte crediamo che si tratti di un insieme di dispositivi che possiamo controllare e considerare al nostro servizio. Dal-l’altra li pensiamo come qualcosa in grado di sostituirci, dal momento che le loro prestazioni sono più veloci ed efficienti delle nostre. Nel primo caso fraintendiamo la novità degli apparati tecnologici e ne minimizziamo l’impatto, confondendoli con gli strumenti che, nello svolgimento della loro funzione, dipendono totalmente da noi. Nel secondo caso ci abbandoniamo a utopie o a distopie meglio rappresentate nei racconti di fantascienza che sperimentate nei laboratori di ricerca.

A ben vedere ciò che ci fuorvia è il linguaggio. In effetti, anche riguardo alle tecnologie, non abbiamo un altro linguaggio da utilizzare, all'infuori di quello che è applicato dagli esseri umani agli esseri umani stessi. Ecco perché, nel caso di certi dispositivi tecnologici, parliamo di “intelligenza”, sia pure “artificiale”. Si tratta di una tendenza all’antropomorfizzazione, ben nota agli studiosi, che è carica di conseguenze. Siamo spinti a omologare

l’essere umano, e più in generale l’essere vivente, alla macchina. E dunque finiamo per ritenere che anche i nostri comportamenti possano essere spiegati, ricostruiti e controllati sulla base delle stesse procedure secondo cui funzionano le macchine.

Si verifica un cortocircuito argomentativo. In mancanza di altre parole, per esprimere il funzionamento delle macchine, si usano inizialmente gli stessi termini usati nel caso degli esseri umani. Ma i processi degli apparati tecnologici possono essere spiegati e riprodotti, programmati e controllati. Quando dunque queste parole vengono di nuovo usate nel caso dell’essere umano, si verifica un effetto di retroazione. Ciò che prima serviva a noi, in un’accezione metaforica, a farci comprende- re il funzionamento delle macchine, adesso viene assunto in un senso letterale, ed è finalizzato a spiegare il nostro stesso comportamento.

Tutto questo non è nuovo. Si tratta del punto di arrivo di un progetto elaborato nel secondo dopoguerra. È il progetto della cibernetica elaborato da Norbert Wiener: una scienza unica che, sulla base di una determinata concezione del linguaggio, potesse unificare biologia e ingegneria, e dunque l’attività dell’organismo e quella della macchina, e controllare entrambe. Tale disegno ora è realtà: grazie agli sviluppi delle tecnologie digitali, ma anche a seguito di quella tendenza a omologare ogni differenza che si è ormai imposta oggi, in molti ambiti, nella mentalità comune.

Invece l’orizzonte umano è qualcosa di differente. L’essere umano “funziona” infatti, potremmo dire, in una maniera analogica, non già digi- tale. L’intelligenza è apertura di possibilità, è luogo di creatività, è occasione di scelte, non già una serie di procedure da applicare in sequenza. Al contrario della macchina l’essere umano può retroagire sulle regole che sta seguendo, modificarle, cambiare prospettiva: addirittura

farne a meno, far saltare il banco. Questo la macchina, anche la macchina dotata di “intelligenza artificiale”, non può farlo. Insomma: nel caso dell’essere umano è in gioco una riflessività dinamica, adattativa, critica; una macchina, pur capace d’interagire con il proprio ambiente, pur dotata di capacità di retroazione, ha bisogno di essere preventivamente indirizzata, cercando di prevedere gli scenari possibili.

Ecco perché il problema che oggi dobbiamo affrontare in ambito etico è quello della relazione, dell’interazione corretta tra uomo e macchina. Ma perché ci sia una corretta relazione anzitutto bisogna aver chiara la differenza fra i due ambiti. Bisogna capire che cosa significa che le macchine sono «agenti morali» e entro quali limiti lo sono. In questo senso occorre dare concrete indicazioni riguardo al modo in cui possiamo sviluppare un’etica delle macchine sulla base di ciò che propriamente caratterizza l’essere umano, e lui soltanto: il senso di responsabilità.

 www.avvenire.it



 

 

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