CHE SUCCEDE
AI
NOSTRI GIOVANI?
di Giuseppe Savagnone*
Una serie impressionante di episodi di violenza, verificatisi
in questi giorni, ci costringe a interrogarci su quello che sta accadendo ai
nostri giovani. Quello più grave – e che ha avuto più spazio sui mezzi di
comunicazione – è l’assassinio di un ragazzo di 21 anni ucciso a calci e
pugni, nella notte tra il 5 e il 6 settembre, a Colleferro, in provincia di
Roma. Si chiamava Willy Monteiro Duarte ed era nato nella Capitale da una
famiglia di Capo Verde. Willy, che faceva il cameriere, era intervenuto in una
discussione per difendere un amico. I responsabili, arrestati con l’accusa
di omicidio preterintenzionale, sono quattro ragazzi tra i 22 e i 26 anni, il
cui stile violento ere noto da tempo.
Violenza senza freni
Ha avuto un esito meno drammatico, ma pur sempre grave
(prognosi di due mesi), il pestaggio, la notte di Ferragosto, a Marina di
Pietrasanta, di un ragazzo quindicenne che, dopo esser stato scambiato
per il presunto responsabile di un’aggressione sessuale ai danni di una sua
coetanea, è stato preso a calci e pugni da un gruppo di giovani dai 14 ai 17
anni.
Poco prima, all’inizio di giugno, si erano verificate altre
due aggressioni, una nel quartiere Eur di Roma, nei confronti di un
ragazzino dodicenne, picchiato selvaggiamente da un gruppo di ragazzi più
grandi di lui, di età compresa tra i 17 e i 18 anni; l’altra a Latina,
dove un tredicenne era stato bloccato in pieno centro e riempito di botte
da un giovane di 16 anni.
Si situa in questo contesto di volenza senza freni – ma
stavolta la vittima è un anziano – l’ultimo episodio, in cui, a Vicenza, un
ultrasettantenne è stato mandato all’ospedale, col femore rotto, da un giovane
di 25 anni che stava malmenando la propria fidanzata e che egli aveva cercato
di fermare, ricevendone un pugno in faccia una scarica di calci.
Questi ragazzi vengono dalla scuola!
In un momento in cui, giustamente, gli sforzi del Paese sono
protesi a garantire la riapertura delle scuole, realizzando le condizioni
logistiche per il loro funzionamento, non può però non inquietarci l’elementare
considerazione che i protagonisti di queste tristi storie sono degli alunni o
degli ex alunni della nostra scuola. Che cosa ha trasmesso finora a questi
ragazzi? Ha avuto una reale incidenza su di essi e sui tanti altri di cui le
cronache non si occupano, ma che spesso vivono immersi nelle medesime logiche
di branco e nel medesimo clima di violenza irrazionale?
I mezzi e i fini
Da troppo tempo il nostro sistema di istruzione, forse
per timore di ricadere nel paternalismo del passato – quando in esso si
dava per scontata una scala di valori indiscutibile, espellendo o emarginando i
“ribelli” –, ha rinunziato a educare, ripiegando su una mera trasmissione di
saperi che è sicuramente indispensabile, ma non sufficiente ad accompagnare
l’auto-formazione delle nuove generazioni. Sempre più sofisticata nella ricerca
dei mezzi – lavagne elettroniche, computer, gemellaggi, viaggi all’estero –, la
scuola da tempo dà l’impressione di avere perduto di vista il problema dei
fini.
Una scuola che riflette la società
Ed è comprensibile, in una società dove l’estremo pluralismo
rende molto difficile al sistema d’istruzione pubblico – soprattutto a quello
statale – proporre un sistema condiviso di certezze e di valori. Solo che
i mezzi – incluso il sapere – possono dar luogo a esiti del tutto diversi, a
seconda degli scopi che chi li utilizza decide di perseguire. E se questi scopi
restano fuori dal momento formativo e affidati all’influenza che sui più
giovani esercitano i mille stimoli di una società dominata dall’individualismo
e dal consumismo, non c’è da stupirsi che alla fine anche studenti modello
possano essere tentati di dar fuoco a un barbone, come qualche anno fa è
accaduto, o, come avviene oggi, di massacrare un coetaneo.
La crisi della capacità educativa della famiglia…
Si potrà obiettare che a educare al senso della vita dovrebbe
provvedere già la famiglia. Ma l’esperienza di ogni giorno ci dice quanto sia
ormai ridotta l’influenza di quest’ultima in un contesto in cui ormai, fin da
giovanissimi, i figli acquistano un’estrema autonomia dai genitori e, esposti
come sono alla tempesta di messaggi provenienti dai social, più che ai modelli familiari
guardano a quelli forniti dagli influencer.
… e della Chiesa
Anche la Chiesa non sembra in grado di esercitare, oggi, una
funzione educativa paragonabile a quella del passato. Le statistiche ci parlano
di un allontanamento massiccio dei giovani dalla pratica religiosa e dalle
chiese. L’insofferenza nei confronti degli schemi consolidati del catechismo
porta la maggior parte di loro a fuggire, dopo la prima comunione o, al
massimo, dopo la cresima. L’insegnamento della religione nelle scuole già da
tempo ha mostrato la sua limitatissima efficacia culturale ed è peraltro sempre
più penalizzato, soprattutto al centro-nord, dalla crescita del numero dei non
avvalentesi. Restano i grandi eventi di massa – come le Giornate Mondiali della
Gioventù –, che però, pur avendo una loro funzione, non possono
sostituire una formazione duratura e capillare.
Una generazione di adulti che non sta lasciando nulla ai
figli
La violenza dei giovani è, alla luce di questo quadro, il
segnale allarmante di una crisi educativa che sta desertificando la nostra
società. Anche in questo ambito – che peraltro è quello decisivo – la nostra
generazione non sta lasciando nulla a quelle che la seguono. Perché alla fine
la responsabilità di questa crisi non sono i giovani, ma gli adulti.
L’emergenza educativa riguarda non i destinatari dell’educazione, ma gli
educatori.
E l’ansiosa attenzione di istituzioni e famiglie per la
riapertura delle scuole –concentrata su mascherine, banchi a rotelle, carenza
di professori – , rischia di essere un alibi per mascherare la nostra
incapacità di ritrovare quelle più fondamentali condizioni dell’impresa
educativa che sono gli orizzonti di senso della vita individuale e
comunitaria.
Un’occasione di riaprire il discorso: l’educazione civica
Potrebbe essere un’occasione per riaprire un confronto su di
essi, almeno per quanto riguarda la sfera pubblica, l’avvio, quest’anno,
dell’insegnamento di Educazione civica, che per la prima volta avrà un proprio
voto, e a cui saranno dedicate almeno 33 ore all’anno. Dovrebbe essere questo
lo spazio per una formazione alla cittadinanza responsabile, di cui da troppi
anni si sente la mancanza. E qui certamente alcuni valori condivisi dovrebbero
emergere dalla lettura onesta della nostra Costituzione.
Ma ancora una volta l’esperienza ci dice che i programmi sono
come gli spartiti musicali: restano sulla carta finché non vengono eseguiti. E
ogni esecuzione è una interpretazione, che varia profondamente a seconda
dell’orchestra che la realizza. È il fattore umano ad essere decisivo. E tale
sarà anche nell’assegnare un ruolo e un significato alla nuova disciplina.
La condizione peggiore
In ogni caso, non bisogna aspettarsi solo da essa il miracolo
di una nuova stagione educativa che estirpi alle radici il seme della violenza
dal terreno della nostra gioventù. Tutti devono dare il loro contributo. Un
passaggio decisivo sarebbe una nuova alleanza fra le tradizionali comunità
educanti – la famiglia, la scuola, la Chiesa. Ma questo sarà possibile solo se
si prenderà coscienza del problema. Di fronte alla violenza dei giovani, la
gente si indigna: «Dove siamo arrivati!» ; «Ai miei tempi…». Non si è disposti
ad accettare che questa violenza nasce da un vuoto di senso a cui gli adulti
sembrano essersi abituati, mentre i giovani reagiscono ad esso manifestando il
loro malessere a pugni e a calci. Indigniamoci pure. Ma, se rifletteremo, ci
renderemo conto che la condizione peggiore non è la loro.
*Pastorale Cultura Diocesi
di Palermo
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