AIUTO! UN IMMIGRATO. CI INFETTERÀ !
di MAURIZIO AMBROSINI
Il
nesso tra immigrazione e pericolo Covid-19 sta agitando la scena
politico-mediatica, oltre che le vacanze degli italiani, assumendo varie
sembianze inquietanti: gli sbarchi, anzitutto, ma anche i rientri dall’estero,
i focolai di infezioni nei centri di accoglienza, nonché le fughe dagli
obblighi di quarantena. Spiace che non solo politici in cerca di facili
consensi, ma anche analisti qualificati partecipino alla “caccia agli untori”,
mediante usi spericolati dei dati e associazioni improprie tra fenomeni sociali
(persone che si muovono attraverso i confini) e aspetti politici (il colore del
governo in carica).
L’idea
che gli immigrati (poveri) portino malattie è una delle leggende nere più
ricorrenti e inossidabili. Chi ha un po’ di memoria potrebbe ricordare, per
limitarci agli ultimi anni, i tentativi di bloccare l’accoglienza dei profughi
a causa dell’epidemia di Ebola in alcuni Paesi africani, oppure l’allarme per
la presunta diffusione della Tbc tra le forze dell’ordine che presidiavano gli
sbarchi.
Voci
infondate, eppure di grande impatto mediatico. In realtà, molte
volte gli esperti della Simm, Società italiana di medicina delle
migrazioni, hanno ricordato che l’immigrazione è un processo selettivo: partono
i più attrezzati, anche dal punto di vista sanitario. Le famiglie non investono
su persone malate, che difficilmente potranno diventare “soggetti produttivi”
in grado di generare rimesse economiche da mandare in patria.
È
vero, invece, che l’attuale pandemia si propaga anche grazie agli spostamenti
delle persone. Tutte però, non solo quelle approssimativamente definite come
“migranti”. Che sono pochissime, rispetto al volume complessivo della mobilità
umana attraverso i confini: secondo Eurostat (2019), a fronte di 2,4 milioni
d’ingressi attribuibili a ragioni d’immigrazione, gli attraversamenti delle
frontiere esterne della Ue sono stati circa 400 milioni, considerando soltanto
il traffico aereo. Suona paradossale che mentre si lamenta il drastico calo
degli arrivi per turismo, s’invochi una chiusura senza appello nei confronti
degli sbarchi di profughi.
In
Italia si può entrare liberamente da Spagna, Regno Unito, Australia, nonostante
l’aumento dei contagi. Si può entrare persino dagli Stati Uniti, per ragioni di
lavoro o di studio.
Quanto
ai contagi nei centri di accoglienza, come nel caso di
Casier, nel Trevigiano, una lettura appena più attenta dei fatti
dovrebbe far comprendere che il virus si propaga laddove non si effettuano
controlli tempestivi, non si separano le persone malate dalle altre, non si
attrezzano spazi idonei per le quarantene: laddove insomma la gestione è
carente. Il sovraffollamento a sua volta deriva dalla dismissione delle
strutture esistenti a seguito di precise scelte politiche e dalla lentezza e
confusione degli smistamenti, a cui concorre la consueta resistenza di tante
amministrazioni locali.
L’evocazione-invocazione dell’Esercito e il ricorso
alle naviquarantena, in luogo di una gestione più razionale dei necessari
controlli, non fanno che alimentare paure e chiusure.
La
distorsione ideologica di certe analisi si rivela però soprattutto quando si
pretende di collegare l’incremento degli arrivi via mare a un “lassismo”
italiano.
L’accusa
non regge per almeno tre motivi.
Primo:
la crescita è rilevante in percentuale, rispetto ai livelli minimi toccati nel
2019 (11.439), ma lontanissima dai quasi 200mila sbarchi del 2016.
L’emergenza
non è nei numeri, ma nella mente di chi guarda con occhio prevenuto, e nei
ritardi di chi dovrebbe assicurare un’accoglienza dignitosa.
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