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mercoledì 5 agosto 2020

DAGLI ALL'UNTORE!



AIUTO! UN IMMIGRATO. CI INFETTERÀ !

di MAURIZIO AMBROSINI

Il nesso tra immigrazione e pericolo Covid-19 sta agitando la scena politico-mediatica, oltre che le vacanze degli italiani, assumendo varie sembianze inquietanti: gli sbarchi, anzitutto, ma anche i rientri dall’estero, i focolai di infezioni nei centri di accoglienza, nonché le fughe dagli obblighi di quarantena. Spiace che non solo politici in cerca di facili consensi, ma anche analisti qualificati partecipino alla “caccia agli untori”, mediante usi spericolati dei dati e associazioni improprie tra fenomeni sociali (persone che si muovono attraverso i confini) e aspetti politici (il colore del governo in carica).
L’idea che gli immigrati (poveri) portino malattie è una delle leggende nere più ricorrenti e inossidabili. Chi ha un po’ di memoria potrebbe ricordare, per limitarci agli ultimi anni, i tentativi di bloccare l’accoglienza dei profughi a causa dell’epidemia di Ebola in alcuni Paesi africani, oppure l’allarme per la presunta diffusione della Tbc tra le forze dell’ordine che presidiavano gli sbarchi.
Voci infondate, eppure di grande impatto mediatico. In realtà, molte volte gli esperti della Simm, Società italiana di medicina delle migrazioni, hanno ricordato che l’immigrazione è un processo selettivo: partono i più attrezzati, anche dal punto di vista sanitario. Le famiglie non investono su persone malate, che difficilmente potranno diventare “soggetti produttivi” in grado di generare rimesse economiche da mandare in patria.
È vero, invece, che l’attuale pandemia si propaga anche grazie agli spostamenti delle persone. Tutte però, non solo quelle approssimativamente definite come “migranti”. Che sono pochissime, rispetto al volume complessivo della mobilità umana attraverso i confini: secondo Eurostat (2019), a fronte di 2,4 milioni d’ingressi attribuibili a ragioni d’immigrazione, gli attraversamenti delle frontiere esterne della Ue sono stati circa 400 milioni, considerando soltanto il traffico aereo. Suona paradossale che mentre si lamenta il drastico calo degli arrivi per turismo, s’invochi una chiusura senza appello nei confronti degli sbarchi di profughi.
In Italia si può entrare liberamente da Spagna, Regno Unito, Australia, nonostante l’aumento dei contagi. Si può entrare persino dagli Stati Uniti, per ragioni di lavoro o di studio.
Quanto ai contagi nei centri di accoglienza, come nel caso di Casier, nel Trevigiano, una lettura appena più attenta dei fatti dovrebbe far comprendere che il virus si propaga laddove non si effettuano controlli tempestivi, non si separano le persone malate dalle altre, non si attrezzano spazi idonei per le quarantene: laddove insomma la gestione è carente. Il sovraffollamento a sua volta deriva dalla dismissione delle strutture esistenti a seguito di precise scelte politiche e dalla lentezza e confusione degli smistamenti, a cui concorre la consueta resistenza di tante amministrazioni locali. 
L’evocazione-invocazione dell’Esercito e il ricorso alle naviquarantena, in luogo di una gestione più razionale dei necessari controlli, non fanno che alimentare paure e chiusure.
La distorsione ideologica di certe analisi si rivela però soprattutto quando si pretende di collegare l’incremento degli arrivi via mare a un “lassismo” italiano.
L’accusa non regge per almeno tre motivi.
Primo: la crescita è rilevante in percentuale, rispetto ai livelli minimi toccati nel 2019 (11.439), ma lontanissima dai quasi 200mila sbarchi del 2016. 
L’emergenza non è nei numeri, ma nella mente di chi guarda con occhio prevenuto, e nei ritardi di chi dovrebbe assicurare un’accoglienza dignitosa.





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