Non c’è sviluppo
senza vita etica e
spirituale
-
Giuseppe Savagnone
È comprensibile
l’ondata di euforia che si è diffusa nel nostro Paese, alla notizia dei 208
miliardi in arrivo col Recovery found, il “fondo di recupero” varato dall’UE
per aiutare i suoi membri in difficoltà a causa del coronavirus. Non c’è
dubbio, infatti, che la decisione del Consiglio europeo è stata di fondamentale
importanza sia per l’Europa che per l’Italia.
Il riscatto
dell’Europa e un sospiro di sollevo per l’Italia
All’una ha
dato una credibilità che da tempo sembrava al lumicino, facendo prevalere
finalmente la logica del bene comune dell’Unione sugli interessi dei singoli
Stati. Al di là dell’aspetto strettamente economico, era in gioco il
significato simbolico di una prospettiva unitaria che non sarebbe
sopravvissuta, probabilmente, a un fallimento. La rabbia dei sovranisti
stranieri nei confronti dei loro governi, per i sacrifici richiesti ai
rispettivi Paesi, e l’imbarazzo di quelli italiani, per gli innegabili vantaggi
accordati al nostro, sono la migliore riprova che una volta tanto l’Europa ha
dimostrato di essere qualcosa di più che una società per azioni e di poter
superare gli egoismi nazionali.
Per l’Italia
è stato un sospiro di sollievo, di fronte alle fosche prospettive di crisi
economica e di caos sociale che la minacciavano. Ora le risorse per
fronteggiare gli effetti del coronavirus ci sono, o meglio, ci saranno – ma in
economia basta l’odore dei soldi a ristabilire la fiducia.
Il problema
delle scelte
Anche se
restano ancora poco chiari due punti essenziali, e cioè da chi e come saranno
gestite. Perché – come insistono a sottolineare gli osservatori più attenti e
avveduti – questa improvvisa disponibilità di mezzi pone forse più problemi di
quanti non ne risolva. Quando non si ha nulla c’è poco da scegliere. È quando
sopraggiunge un’improvvisa prosperità, capace di aprire alternative diverse,
che le decisioni diventano delicate e decisive.
L’Europa ha
avuto fiducia in noi. Non possiamo permetterci di deludere le sue ragionevoli
aspettative scialacquando il denaro che ci verrà dato per rispondere a esigenze
parziali e secondarie, invece che per affrontare finalmente i grandi problemi
che da sempre affliggono la nostra economia e (già da prima del coronavirus) la
fanno avanzare col rallentatore.
Un esempio
negativo del passato
Il pericolo
è reale. Ritorna alla mente l’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno, con
cui lo Stato, da 1950 al 1982, cercò con ingenti investimenti di colmare il
divario tra Nord e Sud, senza riuscire in realtà a rimuovere i problemi di
fondo del Meridione. Pur con qualche risultato significativo, i soldi, in gran
parte, andarono dispersi in mille rivoli, oppure furono inghiottiti dalla
corruzione e dalla mafia.
Per evitare
che qualcosa di simile possa accadere a livello nazionale (non si dimentichi
che corruzione e mafia oggi sono ben presenti anche al Nord), bisogna gestire i
miliardi del Recovery found con estremo rigore e avendo chiari gli obiettivi.
Per evitare un “assalto alla diligenza” che alla fine farebbe arricchire i
privati, specialmente i meno onesti, senza risolvere i problemi della comunità.
Pensare alle
riforme strutturali
Eccessivo
debito pubblico, inefficiente sistema fiscale, paralizzante elefantiasi
burocratica, sono solo alcuni esempi dei problemi da affrontare. Ma è tutto un
insieme di riforme strutturali che da troppo tempo vengono rimandate con
l’alibi di una permanente emergenza finanziaria. Ora l’emergenza è
temporaneamente finita. Ce la farà la nostra classe politica ad approfittare di
questo momento favorevole per gettare le basi di un futuro radicalmente
diverso?
Un
interrogativo inquietante che riguarda tutti
Dietro
questa domanda ce n’è però un’altra che purtroppo di solito rimane taciuta e
che riguarda non solo i partiti, di governo e di opposizione, chiamati a
gestire responsabilmente questo momento, ma tutti noi, gli italiani. Una
domanda che emerge prepotentemente dallo squallido episodio di corruzione e di
criminalità della caserma dei carabinieri di Piacenza e pone in questione
l’esistenza o meno dei valori necessari ad una convivenza civile degno di
questo nome.
Di fronte
alla gravità di quello che dal 2017 si è consumato nella caserma “Levante” –
non per colpa di un singolo, ma con la complicità di ben dieci “tutori
dell’ordine”, non si può più accettare il teorema della “mele marce”, invocato
recentemente per casi analoghi. La verità è che siamo davanti a una crisi
profonda che serpeggia nelle stesse realtà istituzionali. E a chi trovasse
esagerato questo giudizio, ricordiamo ciò che è stato scoperto a proposito del
funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, un altro baluardo,
ancora più prestigioso, del nostro sistema.
La crisi
etica
Il problema
non è solo di carattere funzionale: è di natura etica. Non si tratta solo di
dare maggiore trasparenza e rigore alle strutture, ma di restituire loro
un’anima che non hanno più perché non c’è più nelle persone. L’Italia vive da
tempo una fase di transizione che ha fatto venir meno troppo bruscamente
antichi valori tradizionali, senza portarne alla luce di nuovi in grado di fondare
una comunità civile. Mentre si è ampiamente affermata la coscienza dei diritti,
con la connessa rivendicazione delle corrispondenti libertà individuali, non ha
avuto eguale sviluppo il senso della responsabilità verso gli altri, condizione
per ogni forma di comunità.
I diritti
che hanno dissolto le comunità
Sono così
entrate in una crisi sempre più profonda ed evidente le tradizionali strutture
comunitarie, prima fra tutte la più basilare, la famiglia. Ma anche il senso
dell’appartenenza alla comunità politica – un tempo unilateralmente enfatizzato
con il culto della “Patria” – è del tutto evaporato, lasciando il posto allo
slogan “Prima gli italiani” che prescinde da ogni valore ideale e si fonda,
piuttosto, sulla difesa spasmodica della propria sicurezza e dei propri
interessi.
Non che i
diritti non siano necessari. Il problema è di come sono stati concepiti. Se
essi vengono pensati fin dall’origine in termini individualistici, invece che
alla luce delle relazioni comunitarie entro cui dovrebbero integrarsi,
diventano un’alternativa alle comunità, ne mettono i membri in conflitto, ne
dissolvono i legami. È questo, purtroppo, che è accaduto.
La missione
della Chiesa
Di questo
vuoto etico anche la Chiesa ha vissuto il contraccolpo sul piano spirituale che
le è proprio, senza riuscire ad elaborare alcuna vera strategia pastorale per
riproporre in modo convincente un’appartenenza ecclesiale coinvolgente,
soprattutto per i giovani. La recentissima lettera della presidenza della Cei
ai vescovi, per invitarli a pensare in modo creativo la ripresa autunnale della
vita ecclesiale, dopo il coronavirus, è apparsa così ad alcuni più un segno di
seria preoccupazione che non di propositività e di speranza, di fronte a una
crisi che la pandemia non ha certo creato, ma probabilmente solo evidenziato.
È urgente
trovare non solo un linguaggio, ma uno slancio nuovo, che sottragga la proposta
cristiana alla perversa alternativa fra un tradizionalismo ritualistico e un
attivismo di tipo sociale, entrambi inadeguati ad esprimere la grande carica
spirituale e rivoluzionaria del Vangelo. Solo riuscendo di nuovo a interpellare
la domanda di senso, oggi più drammatica che mai – soprattutto per i
giovani – la Chiesa potrà contribuire al radicale rinnovamento etico e
culturale di cui ha un disperato bisogno la nostra società.
Non c’è
sviluppo senza vita etica e spirituale
È in questo
quadro inquietante che si colloca il problema della ripresa. Se quanto detto
fin qui ha un senso, essa non può essere ridotta ai suoi termini puramente economici,
ma implica un risveglio etico e spirituale grazie a cui l’intero popolo
italiano dovrebbe sperimentare un salto di qualità e diventare protagonista di
una storia nuova. Probabilmente, senza di esso, anche i miliardi rischiano di
essere sprecati. Ma se anche con quei soldi riuscissimo a far crescere il Pil,
non sarebbe lo sviluppo di cui abbiamo veramente bisogno.
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