- Più che distanti, stiamo imparando a vivere lontani, da
tutto e da tutti, rifugiati negli angoli delle nostre case per stare connessi
con il mondo, ma isolati gli uni dagli altri Noi esseri umani abbiamo
soprattutto bisogno di sperare di tornare a ridere con i nostri amici e amiche
in una notte stellata, sotto lo sguardo compiaciuto della luna
di DONATELLA PAGLIACCI
Siamo rimasti tutti – chi più chi meno – recintati entro le
nostre case, confinati negli spazi delle nostre vite, margini a volte troppo
stretti, per ospitare famiglie disabituate alla condivisione, altre volte
troppo larghi per la traversata della vita, che desideriamo o siamo costretti a
compiere anche in solitaria. Un virus di per sé dalle misure decisamente
piccole è divenuto d’un colpo un mostro che ha rastrellato via i nostri
affetti, senza lasciarci il tempo di un saluto, di un bacio e a volte nemmeno
di preparare un abito per comporre, decorosamente, gli umani resti dentro una
bara. Abbiamo trascorso giorni e, prima che ce ne potessimo accorgere,
sono diventati mesi, vissuti da tutti nell'attesa di conoscere l’inizio della
fine, cercandolo nelle parole rassicuranti della scienza o in quelle
confortanti degli uomini e donne di fede che si sono prodigati per sostenere,
incoraggiare, dare fiducia e rilanciare la parola più calda e più sensata di
cui avevamo e abbiamo ancora bisogno: speranza.
Sì, perché a dispetto di tutti i pronostici e le valutazioni
sul nostro tempo, noi esseri umani abbiamo soprattutto bisogno di questo, di
sperare. Sperare di tornare a ridere con i propri amici e amiche in una notte
stellata, sotto lo sguardo compiaciuto della luna, sperare di riprendere il
proprio lavoro, sperare che l’attività che abbiamo fatto nascere e nella quale
ci impegniamo ogni giorno possa continuare ad essere una delle nostre
soddisfazioni, anche quando non mancano le delusioni, sperare che il più noto,
che ci accompagna ricordandoci chi siamo, il nostro passato non ceda il posto
al meno conosciuto e che abbiamo imparato a temere, il futuro. Qualcuno si è
affrettato a ricordarci che il virus ha tagliato in due la nostra vita, tra un
prima e un dopo scandendo, a chiare lettere, che: “niente sarà più come prima”,
un monito che pare una minaccia, un oscuro presagio per il domani, che ormai ha
già, per tutti, il sapore della nostalgia. Ci mancano gli sforzi eroici per
rincorrere il tempo, che non riuscivamo mai veramente a vivere e le piccole
cose che temiamo, assaliti da un acre sapore di amarezza, di avere
definitivamente perduto, quegli attimi, a tratti insignificanti, che
occupavano, a volte affollandola di inutile, la nostra vita.
Tutto, durante il lockdown, è stato reinventato, ci si è
soffermati a pensare a cosa fare, a come riempire le nostre giornate, svuotate
del tutto pieno, che le caratterizzava prima, per evitare di sprofondare,
improvvisamente, nel loro tutto vuoto. Solo qualcuno, spostando la lente del
suo interesse da fuori a dentro, da sé all’altro si è accorto che il volto di
chi gli è sempre vissuto accanto era contornato di qualche ruga in più, quella
che non aveva avuto il tempo di scorgere prima, tra un ritorno a casa la sera
tardi e la partenza di fretta la mattina dopo. Qualcun altro si è reso anche
conto che non c’è nulla di scontato, nemmeno il male che può, da oggi a domani,
divenire pure peggio. Ma l’assenza della solita vita e delle solite cose,
avrebbe anche dovuto ricordarci che siamo figli, amanti, compagni, fratelli,
sorelle, padri e madri, cioè che l’amore è a tempo pieno e che, anche durante
una pandemia – e forse proprio in una fase emergenziale – l’amore non si
sospende, il desiderio e il bisogno d’amore non va in quarantena e l’altro
chiede, oggi come ieri, di essere amato riconosciuto, rispettato, accolto. Ci è
stato detto che il nostro modo di manifestare l’affettività, fatta di abbracci,
del calore che proviene da una carezza, dal modo con cui sfioriamo qualcuno che
amiamo veramente, dovevano essere sospesi, interrotti, ci è stato chiesto di
stare distanti da tutti, si potrebbe dire tranne che da se stessi, come se la
vicinanza custodisse il pericolo del contagio e la distanza fosse la misura per
proteggerci e tenerci al sicuro.
Ma in realtà più, che distanti, stiamo imparando a vivere
lontani, da tutto e da tutti, rifugiati negli angoli delle nostre case per
stare connessi con il mondo, ma isolati gli uni dagli altri, collegati
virtualmente, ma privati dell’intensità di uno sguardo, cedendo, ancora una
volta, alla tentazione di pensare la distanza come la forma neutra dello stare
nella relazione. Abbiamo il sospetto che, sulle note malinconiche o festose che
hanno risuonato sui balconi che contornano le vie deserte delle nostre città
durante questa pandemia, qualcuno abbia voluto e stia volendo, in realtà,
esercitarci a vivere nel timore, pensando che il male proviene sempre da fuori
e che, per preservare la nostra incolumità, dobbiamo di nuovo – se mai
li avessimo abbattuti – erigere dei muri, tra noi e gli altri,
barriere di protezione e di difesa, fatte di sospetto e di indifferenza,
quando non anche, di disgusto e di disprezzo. Ci pare che vi sia una
minaccia strisciante che si annida dentro e non fuori i recinti della
nostra vita, è il rischio di un prepotente ritorno di quell’ego
ipertrofico e dispotico che la riflessione dopo la Shoah aveva
cercato di ridimensionare e contenere. Legittimati dalla minaccia del
contagio, siamo dinanzi al pericolo di un io che torni, in altro modo e sostenuto
dalle potenti prestazioni della tecnologia, a fagocitare tutto, che ponga tutto
in funzione di sé; temiamo che le campagne sull’ambiente e l’appello alla
sostenibilità, che tanta luce hanno portato anche in ambito economico e con
forza ci avevano convinti a riposizionare lo sguardo anche sull’altro, oggi
possano essere definitivamente abbandonate. Costretti a percepire le nostre
abitazioni come porti sicuri contro i marosi del mondo, corriamo il pericolo di
restituire lo scettro nelle mani di chi, in nome della legittima difesa
dell’io, coltivi solo odio e indifferenza. I teorici
dell’individualismo, oggi mascherati da samaritani inaffidabili, potrebbero
riuscire a convincerci che la sola strada sia quella di tenere gli altri
lontani dalle nostre vite, il fatto è che quando veniamo isolati e senza il
senso del nostro essere comunità noi siamo solo più fragili, vulnerabili e
facilmente manipolabili. Accanto a ciò, temiamo che la sola apparente riduzione
della violenza, sia l’anticamera di un periodo pericolosamente dominato
dall’eterofobia, legittimata questa volta dall’idea che dobbiamo avere paura
degli altri, più che di noi stessi, dimenticando in tal modo la lezione del
grande Dottore della Chiesa, Agostino d’Ippona, che ci ricorda che la genesi del
male morale è sempre dentro il recinto del nostro essere e non fuori.
Desideriamo, in tal senso, rilanciare l’idea della giusta distanza (che abbiamo
espresso nel nostro recente volume
L’io nella distanza. Essere in relazione, oltre la
prossimità, Mimesis 2019), come la forma calda dell’essere insieme, il
modo di abitare lo spazio che separa me da te, evitando la riduzione dell’uno
all’altro, lo sconfinamento e l’impossessamento. Consapevoli di andare
controcorrente vorremmo riscoprire la ricchezza e la bellezza di un io che non
teme l’altro e che anzi si misura con lo sguardo del prossimo che ha anche il
volto di chi non conosciamo, un io che tiene l’altro a distanza ma solo per
potergli manifestare più rispetto, più accoglienza, più condivisione, più amore,
che lo tiene a distanza solo perché non intende ridurlo entro lo spazio finito
della propria sfera di dominio, per controllarlo e addomesticarlo, per renderlo
docile e mansueto, che attraverso l’essere a distanza diviene più capace di
ascolto, di sentire e riconoscere i suoi bisogni, che lo percepisce nella
verità del suo essere per ospitarlo entro lo spazio prezioso della propria
vita.
Saper stare alla giusta distanza dall’altro, che oggi
possiamo riscoprire – ma che non automaticamente dobbiamo illuderci di saper
praticare solo perché siamo rimasti tutti a casa – significa saper accogliere
senza fagocitare, amare senza invadere lo spazio vitale dell’altro, donargli un
sorriso, sapersi accorgere di dove abitano i suoi sogni ed incoraggiarlo, senza
sostituirsi a lui, a realizzare il suo bene nei modi e nelle forme del suo e
non del nostro desiderio.
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