Se la scuola è «viralizzata»
riscopra i diritti pedagogici
Osservare l’allievo,
motivarlo, valorizzare le sue potenzialità, aiutarlo nelle difficoltà,
personalizzare l’offerta formativa: ecco cosa è importante riuscire a garantire
di Fulvio De Giorgi *
Nel corso dell’Ottocento,
quando i Paesi occidentali si sono progressivamente dotati di sistemi
scolastici pubblici (con modelli diversi di protagonismo statale o di
decentramento), la Scuola ha assunto una sua religiosità civile, quasi come una
Chiesa sui generis, con cadenze simili: banchi di scuola/banchi di chiesa;
cattedra dell’insegnante/cattedra del vescovo; calendario scolastico/calendario
liturgico; orario scolastico/liturgia delle ore; campanella/ campane. In
contesti laicistici questa analogia fu giocata come alternativa ostile; nei
contesti popolari di base, meno ideologizzati, come sussidiarietà reciproca di
due grandi agenzie educative. E in effetti proprio la comune missione educativa
(ancorché diversamente caratterizzata) dava sia alla Scuola sia alla Chiesa un
presupposto comune di civiltà: l’umanesimo plenario, la dignitas humana, il
servizio all’umanità e alla sua crescita. Insomma la centralità dell’essere
umano in carne ed ossa: mente e corpo, natura e spirito. La pandemia ha
determinato uno stato di eccezionalità che ha comportato, per la Chiesa, una
pastorale d’emergenza. E così pure, per la Scuola, si è resa necessaria una
didattica d’emergenza. Una pastorale virtuale e una didattica virtuale. Con una
non banale differenza: la Chiesa si è prevalentemente affidata alla televisione
(i riti officiati dal Papa; la preghiera promossa dalla Cei e dai media di
ispirazione cristiana; altri momenti di preghiera diocesani, ma diffusi da
Tv2000 o da altre emittenti); la scuola si è finora prevalentemente affidata al
web (che ha possibilità interattive). Così la Chiesa ha raggiunto (quasi) tutti
i suoi fedeli che avessero voluto partecipare; la scuola ha raggiunto un 80%
dei suoi studenti. Sembra tanto l’80%. In realtà significa che un quinto, il
20%, presumibilmente il più emarginato socialmente e geograficamente, cioè
quella 'periferia digitale' che non ha computer o non ha connessione, è rimasto
escluso. E così la Repubblica, come ormai capita negli ultimi decenni di
neoliberismo imperante (perfino in campo educativo e scolastico), non ha
eliminato, ma rafforzato, gli ostacoli di ordine economico e sociale che,
limitando l’eguaglianza, impediscono un pieno e paritario sviluppo della
persona umana. Il 16 aprile la ministra Azzolina ha annunciato un’alleanza
potenziata Rai-Ministero e un palinsesto ad hoc. Si possono concedere le
attenuanti della sorpresa e dell’urgenza: ma è strano che – pur citando molto
Alberto Manzi – si sia fatto ricorso così in ritardo alla televisione, che
arriva in pressoché tutte le case. È il caso di dire, comunque, ... non è mai
troppo tardi!
In ogni caso, il 17 aprile,
nella sua omelia nella Messa quotidiana a Santa Marta, papa Francesco ha ben
chiarito che le modalità liturgiche a distanza, attraverso i mezzi di
comunicazione sociale, sono un’emergenza legata «al momento difficile» e cioè una
via «per uscire dal tunnel, non per rimanere così». E questo perché la Chiesa è
«familiarità concreta». E, con uno dei suoi neologismi, Francesco ha concluso
che non si può « viralizzare » la Chiesa. Una Chiesa tutta virtualizzata è una
chiesa viralizzata: col- pita nel suo organismo. Ma – potremmo dire – lo stesso
vale per la scuola: una scuola tutta virtualizzata è una scuola viralizzata:
colpita nel suo organismo. Insomma, le modalità virtuali dell’emergenza hanno
un carattere suppletivo e temporaneo, potranno anche rimanere poi in qualche
forma particolare, subordinata e sussidiaria (come avviene nei corsi
universitari): ma la scuola è comunità in presenza, è familiarità concreta, è
didattica a km zero. I nsomma, se non vogliamo perdere il timbro umano e il
fondamento umanistico di queste agenzie educative, non possiamo immaginare una
permanente 'crisi della presenza' (che è sinonimo di lutto). Diverso,
ovviamente, è il livello universitario, nel quale il web può servire per forme
di humanitarian higher education, naturalmente con precise garanzie di qualità
(e fatte salve le necessità laboratoriali o le specificità della formazione di
educatori). Peraltro la pandemia ha rappresentato, in negativo, la rivincita
brutale della corporeità naturale sul cyber-mondo artificiale e, in positivo,
ci ha fatto apprezzare l’importanza e il dono del contatto umano diretto, del
vissuto sociale concreto, a fronte della innaturale chiusura prolungata in
residenzialità coatte che psicologicamente ci pesano come arresti domiciliari.
Insomma è l’evidenza globale della necessità e superiorità dell’umanesimo
plenario nella vita normale.
Per rimanere in ambito
scolastico, bisogna rifuggire dagli opposti estremismi dei luddisti didattici e
dei pasdaran fanatici della tecnologia: né digital-fobia né digital-mania. Ma
non si possono confondere i mezzi con i fini, né la forma con i contenuti.
Certo, sappiamo ormai tutti che – come ci ha insegnato, in anni lontani, il
grande Marshall McLuhan – il medium è il messaggio. Ma appunto: la forma, il
'come' è sostanza. Io posso utilizzare la lavagna di ardesia o la LIM, ma quale
sarà la 'forma' della mia azione didattica? I dispositivi che uso sono
importanti e non sono tutti uguali (perché offrono possibilità diverse), ben
vengano perciò dispositivi migliori. Ma, alla fine, resta il loro carattere
strumentale. E la capacità del docente si misura soprattutto sulla sua
preparazione e sulla qualità della sua didattica.
Vi è il diritto
all’istruzione. Nessuno oggi lo nega. Ma vi sono – in una prospettiva
umanistica universale – anche 'diritti pedagogici', che molti di fatto negano o
perfino ignorano (analizzare il perché di questa ignoranza e dell’analfabetismo
pedagogico, ancora tanto diffuso, ci porterebbe molto lontano). Non basta
'cosa' l’allievo impara, è importante 'come' lo impara. Se lo impara in una
maniera mnemonica, astratta, passiva, come risultato di una fredda e apodittica
trasmissione di nozioni, viene depauperato di un vissuto educativo importante
che è un suo diritto: un diritto 'pedagogico'! E per rendere reale tale
diritto, l’insegnante deve avere la possibilità di osservare direttamente
l’allievo, di renderlo attivo nei processi di apprendimento, di motivarlo
scoprendo e valorizzando le sue potenzialità o sostenendolo nelle sue difficoltà,
di portarlo all’acquisizione di capacità cooperative e competenze sociali, di
personalizzare l’offerta formativa, di suscitare e affinare il senso critico
attraverso il dialogo. Se questi diritti pedagogici vengono riconosciuti, si
usi pure tutta la strumentazione tecnologica utile a realizzarli. Certo la
relazione umana, in presenza, non ne potrà mai uscire mortificata. I nfine, un
ultimo punto importante. Si parla di riaprire le scuole cercando di garantire
il 'distanziamento di sicurezza' tra gli alunni. Se si devono studiare
accorgimenti (scaglionamenti, turnazioni, ecc.) è perché nei nostri edifici
scolastici e nelle nostre aule viene spesso negato al singolo allievo il suo
spazio didattico. È difficile, anzi impossibile, immaginare una didattica
attiva in aule densamente o anche mediamente affollate. Questa è la frontiera
qualitativa della scuola di domani: pochi alunni per classe. La necessità, in
questo caso, potrà condurci a soluzioni migliori.
*Pedagogista,
Università di Modena e Reggio Emilia
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