Aspettando il dopo-virus
Sulle pagine dell'Osservatore Romano l'intervista
al presidente della Pontificia accademia delle Scienze Sociali sul dopo
coronavirus, che includerà "nemici" importanti, a partire dal
neoliberismo, ma anche e soprattutto un'epoca migliore
di Marco Bellizi
Nel
“nuovo mondo” del dopovirus il nemico numero uno sarà il liberismo. E insieme
ad esso, almeno in Italia, la burocrazia, l'ostinazione nel rifiutare il
principio di sussidiarietà, la resistenza alle opportunità che la tecnologia ha
dimostrato di poter fornire. Nonostante questo compito impegnativo
all'orizzonte, secondo Stefano Zamagni, economista, presidente della Pontificia
accademia delle Scienze Sociali, il futuro comunque sarà migliore del passato.
L'Europa, per esempio, sarà più forte e i sovranismi, nell'immediato, saranno
costretti ad arretrare. Perché tutto questo accada, però, occorrono iniziative
tempestive, coraggiose e lungimiranti. In Italia, per esempio, servirebbe un
think tank, un gruppo di esperti politicamente indipendenti e
desiderosi di dare una mano al loro paese, in grado di elaborare nel termine di
poche settimane un vasto progetto con cui ripartire, quando si avvierà
finalmente la famosa “fase 2”.
Professor Zamagni, prima di tutto
mi permetta una domanda ineludibile: lei è favorevole alla riapertura in
Italia, in tempi brevi, delle attività produttive, anche correndo qualche
rischio, o preferisce attendere il via libera degli scienziati?
R. - Il
punto è delicato e richiede una risposta articolata. Circola uno studio recente
realizzato da un team di esperti dell'Università di Alicante, istituzione
piuttosto attendibile, secondo il quale in Italia e in Spagna il 24 aprile
sarà la data di un deciso cambio di rotta, in positivo, dell'epidemia. Se
questo è vero ha un senso riaprire. Altri studi però mostrano scenari
diversi. Ci sono pareri discordanti anche a livello scientifico: questo va
detto. I police makers, i governanti, sono costretti a basarsi su questi dati,
che non sono concordi. Purtroppo, negli anni passati, quando era possibile farlo,
gli istituti scientifici non sono stati messi nella condizione di effettuare
studi che adesso sarebbero preziosi. Bisogna dire con chiarezza, però, che non
si muore solo di virus: se entro due mesi la situazione non si risolvesse si
potrebbe cominciare a morire anche per denutrizione, per cattiva
alimentazione, per insufficiente assistenza sanitaria. I modi per riaprire
gradualmente ci sono. Occorre iniziare con le attività che producono valore
aggiunto: le partite di calcio, tanto per intendersi, non sono fra
queste. Fino ad ora, durante questa crisi, abbiamo solo redistribuito
valore, senza produrlo. E' chiaro che così non possiamo reggere. E qui devo
dire che le autorità italiane non hanno mostrato di voler valorizzare i tanti
organismi del cosiddetto “terzo settore” che potrebbero fare un mondo di bene.
Ho sottoscritto, assieme ad altri, un appello per avviare il servizio civile
universale. Ci sono 80000 giovani che in base agli ultimi bandi sono pronti a
lavorare gratuitamente per un anno. Lo stesso vale per molte fondazioni
sanitarie. Sarebbe un vero e proprio esercito pronto a scendere in campo.
Parliamo di circa 360 mila organizzazioni. Il problema è che ci sono alcuni
settori che sono contrari al principio di sussidiarietà. C'è troppo dogmatismo
e poca cultura. Prendiamo il tema della fragilità e della vulnerabilità, di cui
si parla molto in questi giorni. Sfugge una distinzione fra queste due
categorie. Noi in questi giorni siamo intervenuti a favore dei più fragili, di
chi si trova in condizione di bisogno. Ed era giusto farlo. Ma la vulnerabilità
è la condizione di chi, con una percentuale di probabilità superiore al 50 per
cento, entro un determinato lasso di tempo potrebbe trovarsi fra quelli che
oggi vengono definiti fragili.
In questi giorni abbiamo sentito
molti pareri, anche diversi, in merito agli effetti che il lockdown avrà
sull'economia italiana e su quella mondiale. Si può dire ormai, almeno a grandi
linee, quali saranno le principali emergenze che si dovranno affrontare
nell'immediato?
R. - In
primo luogo bisogna passare dal Welfare State alla Welfare Society: ammettere
anzitutto che la salute non è un bene privato ma pubblico. Questo virus ce lo
sta dimostrando chiaramente: se io mi ammalo finisco con il fare ammalare anche
gli altri. Diventa un problema comune. Poi occorre passare dal modello
della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” alla “convergenza scuola-lavoro”,
perchè i due mondi non sono alternativi. Nei progetti educativi bisogna
introdurre il termine “conazione” (conoscenza e azione). Il sapere va usato in
senso trasformativo. Oggi le imprese hanno fame di conoscenza eppure non
riescono a impiegare chi la possiede. Naturalmente ciò comporta riscrivere
l'architettura filosofica che è alla base della scuola. E' lo stesso concetto
attorno al quale ruota il progetto educativo che il Papa ha inteso promuovere e
che verrà rilanciato nei prossimi mesi. Un altro punto fondamentale è quello
della deburocratizzazione. Nessuno ha l'onestà di dire che la burocrazia c'è
per colpa di tutti i partiti politici, e sottolineo tutti, che l'hanno
creata a colpi di leggi a partire dagli anni '80 del secolo scorso in poi (il
miracolo economico precedente si è potuto verificare proprio in assenza di
questo genere di ostacoli). La burocrazia la si tiene in vita in virtù di
quella che viene definita la rentseeking: non è altro che uno strumento per
mantenere o estrarre rendita. Ecco, bisogna far partire una lotta senza
quartiere contro le posizioni di rendita che si annidano nella burocrazia. Anche
perché per mantenere il burocrate, per giustificare il suo stipendio, l'unico
modo è fargli produrre carte su carte, in un processo autorigenerativo. Altro
punto fondamentale è quello del tasso di imprenditorialità, che in Italia è
calato molto: muoiono molte più imprese di quante ne nascano, e quando dicono
“muoiono” mi riferisco anche a quelle che passano di mano ad aziende francesi o
tedesche pur mantenendo il marchio formalmente invariato. C'è differenza fra
imprenditorialità e managerialità. In Italia ci sono tanti bravissimi manager,
abbiamo ottime e numerose business school. Il problema è che mentre il manager
ha bisogno di tecnica, l'imprenditore ha bisogno di cultura, di alta cultura. E
qui le nostre università hanno delle colpe, sfido chiunque a dimostrare il
contrario. Infine c'è la questione della “tassazione promozionale”, quella che
gli inglesi definiscono Optimal taxation theory: le tasse le deve pagare
soprattutto chi ha rendita, non chi produce valore. Se questo facesse parte di
un programma elettorale scommetto che la gente lo voterebbe in massa. Mi
piacerebbe sapere cosa hanno da dire su questo punto i grandi fautori della
meritocrazia...Se si fosse realmente meritocratici si dovrebbe essere
d’accordo. Ma bisogna intervenire subito. Serve un think tank composto da
esperti indipendenti, liberi da vincoli partitici, che abbiano a cuore le
sorti del paese e che nel termine di tre mesi siano in grado di elaborare un
progetto.
Cosa ci ha insegnato, ci sta
insegnando, questa pandemia, sotto il profilo dei rapporti economici e sociali?
R. - La
lezione principale è che il modello liberista è il nemico numero uno. Fino a
qualche tempo fa c'era chi ancora inneggiava al neoliberismo. O chi confondeva
il globalismo con la globalizzazione, quando naturalmente si tratta di cose
molte diverse. È sempre il vecchio concetto caro ad Adam Smith, secondo cui la
marea quando si alza solleva tanto le imbarcazioni grandi quanto quelle
piccole, la teoria secondo la quale in economia c'è sempre una mano invisibile che
aggiusta tutte le cose. C'è voluto il Papa con la Evangelii Gaudium a
fare presente che non è così. Oggi chi ancora sostiene le posizioni
neoliberiste o è un incompetente o lo fa in cattiva fede. La pandemia di questi
giorni somiglia tanto alla “distruzione creatrice” di cui parlava Joseph
Schumpeter nel 1912, quella che viene considerata la componente
fisiologica del capitalismo, la cui ontologia ruota attorno appunto al
principio darwiniano del far morire per ricreare. Secondo l'economista
austriaco, non c'è niente che si può fare per evitarlo. Il problema è che dalla
dimensione economica questo principio si è spostato a livello sociale. E i più
poveri, i più fragili, sono quelli che pagano. Lo vediamo in questi giorni,
anche a livello sanitario, con la drammatica scelta di chi curare. Questo
meccanismo va domato: la dimensione del creare deve prevalere su quella
distruttiva, in modo che la prima possa compensare gli effetti della seconda.
Ma sono certo che questo accadrà, perchè la gente sta aprendo gli occhi. Vede,
bisogna distinguere sempre fra capitalismo ed economia di mercato. Dire che
bisogna accettare il primo per salvare il secondo è una grande falsità.
Dovremmo cambiare anche i libri di economia in uso all'università, che finora
hanno insegnato questo. Poi naturalmente occorre continuare a lavorare anche
sull'eccessiva finanziarizzazione dell'economia, che del resto è già entrata in
crisi da tempo...
Didattica a distanza, smart
working, telelavoro, ecommerce: meno tempo sprecato, meno inquinamento,
maggiore efficienza. Sarà davvero questa l'eredità positiva che il virus
lascerà al mondo o fatalmente si tornerà indietro?
R. - Se
non fosse accaduto quello che è accaduto ci sarebbero voluti anni per
convincerci ad andare in questa direzione. Ora, se non altro, possiamo dire che
se dopo l'emergenza un'azienda non si adatta allo smartworking o al telelavoro
la colpa è solo sua: la tecnologia, come si è visto, c'è e funziona senza
particolari problemi. Purtroppo anche qui è ben presente la mentalità di cui si
parlava prima, quella della rendita di posizione, del timore di usare criteri
di valutazione diversi. Una trasformazione del genere farà cambiare anche i
meccanismi di contrattazione collettiva e le relazioni industriali. Anche il
mondo sindacale potrebbe venirne rinvigorito, a patto che i suoi esponenti ne
siano all'altezza. Si dovrà essere pagati non in base al tempo di lavoro, ma in
base ai progetti, imparare a valutare l'outcome, non l'output, il risultato
finale, non il mero prodotto quotidiano.
Al momento comunque rimangono
alcune note dolenti. O quanto meno alcune criticità. A suo parere come si sta
comportando l'Europa? E' davvero a un bivio, come osservano in molti? Come ne
uscirà?
R. - Ne
uscirà rafforzata. Anche i paesi più ricchi della comunità si renderanno conto
che occorre riscrivere i trattati, da quello di Maastricht a quello di Dublino.
Di fronte a situazioni come quelle che stiamo vivendo, occorre prendere
coscienza che non ci si può fermare all'unione monetaria ma occorre andare
avanti. Torna anche qui il concetto di vulnerabilità: a un certo punto l'Europa
si è sentita forte, meno fragile. Ma rimane al momento estremamente
vulnerabile. Credo però, come già sta accadendo in questi giorni, che gli
antieuropeisti e i sovranisti, inevitabilmente, verranno messi a tacere. Almeno
per qualche tempo. I nazionalisti pretendono di essere interpreti del
bene della nazione e degli interessi del popolo. La realtà ci dice invece che
la salvezza è nella cooperazione.
Questo a livello europeo. In scala mondiale alcuni
dei paesi più influenti o emergenti sono guidati però da leader che nel
passato si sono dimostrati un po' refrattari all'idea della cooperazione...
R.- In
effetti, a livello mondiale sono un po' meno ottimista. La colpa anche qui è
tutta occidentale. Siamo noi che abbiamo permesso che certi stati diventassero
dei giganti economici, potenti ma fondati su linee di sviluppo così lontane da
quelle proprie delle nostre democrazie e soprattutto così noncuranti dei
diritti umani...Bisogna cambiare registro. E per questo occorre un'Europa
forte. Le potenzialità per primeggiare ci sono, ci sarebbero tutte. Eppure
continuiamo ad azzannarci fra noi, a insistere su politiche di austerità che
tra l'altro non hanno alcun vantaggio scientificamente fondato.
Quanto l'economia civile,
l'economia verde, la microeconomia possono realmente costituire un'occasione
concreta di sviluppo?
R. -
L'economia civile è un paradigma teorico che viene rifiutato forse anche perché
nasce in ambienti cattolici. Le sue caratteristiche sono semplici: non esclude
nessuno dal mercato; afferma che il fine dell'agire economico è il bene comune,
non il bene totale; afferma che l'ordine sociale è il frutto dell'interazione
fra stato, mercato e società civile; non accetta il principio del “Noma”, dei
Non-overlapping magisteria (la teoria secondo qui scienza e religione avrebbero
aree di indagine diverse e non sovrapponibili, ndr). Quest'ultima è una teoria
antica. Se ne può trovare origine sin dal 1829, quando Richard
Whatley, arcivescovo anglicano e professore di economia a Oxford, affermava che
l'economia è una scienza neutrale che deve essere separata dall'etica e dalla
politica. Un concetto antico ma assolutamente inaccettabile.
Chi a suo parere può assumere la leadership nel
guidare questi processi innovativi?
R.-
Questo è un falso problema. È l'uso che dà il metodo, secondo l'epistemologia:
è una delle poche affermazioni di Kant sulle quali sono d'accordo. Prima di
cercare il leader devi creare le coscienze. A quel punto il leader verrà fuori.
Bisogna che la gente cambi, come dire, il mindset. Fece lo stesso anche Gesù,
in fondo, affidandosi agli analfabeti, Pietro per primo, ed esortandoli ad
andare in giro a convincere gli altri. Quando nelle persone inietti il
desiderio del cambiamento, si è già a buon punto.
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