Dal buon uso della malattia al buon uso
dell’epidemia
di Giuseppe Savagnone
Mentre, in questi
giorni, seguiamo tutti con grande preoccupazione la diffusione dei contagi, il
bilancio dei morti e le conseguenze anche economiche dell’epidemia di
coronavirus, può sembrare strano e perfino inopportuno che si possa ipotizzare
un qualche risvolto positivo di questo disastro.
Eppure è un tema
ricorrente nella tradizione occidentale quello del “buon uso della malattia” e,
anche in questo caso, non si è mai trattato di minimizzare la portata
devastante dei malanni che ci colpiscono, ma solo di rivendicare la capacità
dell’essere umano di dare loro una interpretazione che li riscatti dalla loro
pura e semplice negatività e li rilegga in una prospettiva più profonda.
È stato così che
personaggi come Francesco d’Assisi e Ignazio di Loyola, per citare solo due
esempi famosi, hanno trovato nelle loro prolungate condizioni di infermità
un’occasione decisiva per dare una svolta radicale alla propria esistenza,
diventando i grandi uomini che noi consociamo.
Per fare questo,
però, non è necessario essere credenti in Dio, basta esserlo nell’uomo. Anche
se, per quello che mi riguarda, sono convinto che le due cose siano più
strettamente connesse tra loro di quanto solitamente si pensi.
Ora il tempo c’è …
Si potrà dire che,
comunque, questo sforzo di riflessione richiede tempo e calma interiore. Ma il
primo ormai abbonda. Per chi non è immediatamente convolto nei servizi medici e
amministrativi preposti alla battaglia contro l’epidemia, in questo momento non
resta molto da fare, se non attenersi rigorosamente alle indicazioni di
prudenza fornite dalle autorità civili e religiose.
Adesso che il
coronavirus ha fatto brutalmente irruzione nelle nostre vite, mandando a gambe
all’aria i nostri progetti e le nostre abitudini, adesso che ci ritroviamo
confinati nelle nostre abitazioni, separati dalle persone che frequentavamo e
spesso anche dalle occupazioni che ci assorbivano, non possiamo più dire a noi
stessi – come eravamo soliti fare – che non abbiamo il tempo per pensare e
farci qualche domanda.
Alle radici dell’impazienza
Se mai è la calma
interiore che difetta. Molti vivono questo regime di semi-reclusione e di
inattività con un’impazienza che spiega – anche se non giustifica – le
imprudenti trasgressioni registrate nei giorni scorsi. E si capisce: la nostra
società ci ha educati a pensare noi stessi in funzione di un “fare” che, anche
quando fosse fine a se stesso, ci permette di eludere il vuoto del nostro
essere.
Non per caso
all’origine della civiltà moderna troviamo l’idea di Hobbes, secondo cui non
c’è alcun fine che dia senso alla corsa frenetica degli esseri umani, se non
l’essere impegnati in questa stessa corsa. Perciò, egli ha scritto, essi
«devono trovare distrazione e ricreazione dai loro pensieri nella competizione,
o del gioco o degli affari. E gli uomini giustamente si dolgono come di una
grande afflizione del fatto di non sapere cosa fare».
“Otium” e “negotium”
Eppure forse proprio
le limitazioni imposte dal coronavirus potrebbero essere un’ occasione per
riscoprire quello che gli antichi sapevano, e cioè che per l’uomo quella che si
presenta a prima vista come un’inattività – loro parlavano di “otium” –
consente un ritorno a se stessi e un’apertura alla scoperta della realtà da cui
siamo spesso distolti perché presi dal lavoro e dagli affari (“negotium”). Dove
non è un caso che il secondo termine abbia una forma negativa che ne evidenzia
la subordinazione al primo.
Il capovolgimento
operato dalla nostra società, per cui «l’ozio è il padre dei vizi» e le persone
valgono non per quello che sono, ma per il lavoro che svolgono, da cui dipende
il loro prestigio e il loro guadagno, ha reso praticamente incomprensibile il “fermarsi” per ascoltare le voci della
vita e ristabilire il rapporto con se stessi e con gli altri. Sì, anche con
loro, perché l’esperienza ci dice quanto la nostra fretta di agire ci renda
incapaci di ascoltarci a vicenda e di
comunicare, anche quando si sta fisicamente vicini.
Liberi dall’armatura
Un buon uso
dell’epidemia di coronavirus potrebbe essere, allora, di non limitarsi a
“ingannare il tempo”, aspettando che questa pausa forzata finisca, ma di
lasciare che il vuoto di attività e di rapporti ci interpelli, senza
precipitarci a riempirlo a tutti i costi con altre cianfrusaglie psicologiche.
Diventerebbe possibile, così, che, spogliati dell’armatura costituita dal ruolo
sociale, dall’immagine professionale, dai riconoscimenti altrui, di cui il
nostro io si è da tanto tempo rivestito da dimenticarsi perfino di esistere,
vediamo timidamente emergere il nostro vero volto, con le sue ferite segrete,
con le sue paure nascoste, ma anche con la sua
unica e irripetibile dignità.
Il grido come preghiera
Proprio in questa
nudità dell’io potrebbe sbocciare – per il credente, ma anche per il non
credente – il miracolo di quel «grido» che per Lacan è la via
dell’umanizzazione dell’uomo e che un agnostico come il suo discepolo Recalcati
non esita a chiamare “preghiera”.
Mai forse come in
questa congiuntura le illusorie, trionfalistiche celebrazioni
dell’autosufficienza umana si sono rivelate quasi comiche. È bastato un
microscopico virus – e neanche troppo cattivo, a giudicare dal tasso di
mortalità – per scompaginare l’inaffondabile sistema neocapitalistico molto più
efficacemente di tutti gli elaborati attentati terroristici, incluso quello del
2001 contro le torri gemelle.
La vulnerabilità
della civiltà ha un concreto riscontro in quella del singolo, il quale in
questi giorni sperimenta in modo tangibile la sua fragilità, che il cristiano
chiama «creaturale». Da qui l’invocazione. «Il grido cerca nella solitudine
della notte una risposta nell’Altro» (Recalcati).
Non è la prova che
Dio esiste, ma lo è che non siamo noi.
Ma anche per il
credente la rinunzia a partecipare a messe e ad altre celebrazioni liturgiche
può essere un’occasione per riscoprire una preghiera faccia a faccia col suo
Dio. Troppo spesso le nostre parrocchie sono diventate stazioni di servizio – o
se si preferisce supermarket per garantire riti a richiesta. Ora è il momento
di quella preghiera fuori dal tempio richiede la capacità di restare soli,
nella propria stanza, con il silenzio di Dio.
L’utile e l’importante
In questa
prospettiva anche la corsa al guadagno e al successo, in cui la maggior parte
delle persone vede il proprio obiettivo principale, si rivelerebbe per quello
che è: un miraggio, un’illusione ottica. Perché, come dice nella sua spietata
analisi Hobbes, quello che si cerca di ottenere non è poi così importante, e
una volta raggiunto non ci interessa più. Ciò che conta è l’essere impegnati ad
ottenerlo. Se si riduce a questo, la vita è una corsa ad ostacoli, in cui ci si
lascia continuamente alle spalle quello vero cui poco prima si correva.
Corrisponde a questo
la tendenza diffusa a cercare l’utile come se fosse un fine in sé. Senza mai
rendersi conto che ciò che è utile ad altro non può essere veramente
importante, perché è solo un mezzo per qualcos’altro. Le cose importanti – la
verità, la giustizia, la bellezza – non “servono” a niente, devono essere
apprezzate per se stesse. E se invece siamo presi da tutt’altro, rischiamo di
ritrovarci, a cinquant’anni, a renderci conto che abbiamo sprecato la nostra
vita. Troppo spesso, nella civiltà del profitto, della concorrenza, del
successo mediatico, ce ne dimentichiamo.
La riscoperta della lettura
Forse, a questo
punto, il tempo rimasto libero potrebbe essere riempito da attività che più
immediatamente ci consentano di sperimentare le cose importanti. Le lettura di
un buon libro, per esempio. Oggi si preferiscono forme di comunicazione più
agili, come quelle che si effettuano grazie alla rete.
Ma su internet si
cerca quello che interessa senza indugiare. Si “naviga”, non si abita. Un libro
è una dimora dove si entra, all’inizio un po’ esitanti, da estranei, ma in cui
poi si può stare come a casa propria. Un post o una chat si usano, un libro si
gusta. Il distacco da un post o da uno scambio di chat, per passare ad altro, è
fisiologico; quando si finisce di leggere un libro che ci ha appassionato si
resta in qualche modo orfani.
Nella logica del
“fermarsi”, di cui prima si parlava, il ritorno ai libri può costituire una
occasione – anche se non l’unica (ci sono anche i film, la musica …) – per incontrare le cose che contano
(verità, bellezza) e di cui l’essere umano ha bisogno come dell’aria e del cibo
per respirare e crescere.
Il prezzo di essere umani al tempo del
coronavirus
L’importante, alla
fine, è che si sappia trovare, anche in questa contingenza sfavorevole, la
creatività per far nascere nella propria vita qualcosa di nuovo. Avvilirsi o
arrabbiarsi, imprecando contro l’avverso destino, è facile. Come è facile
lasciar scorrere le giornate senza dedicarsi a nulla, in un’apatia simile al
letargo invernale di certe specie animali. Ciò che è umano ha sempre un prezzo.
Ma da chi fosse disposto a pagarlo, il tempo del coronavirus potrebbe essere
ricordato non solo per ciò che ci ha tolto, ma anche per quello che ci ha dato.
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