Quella scelta tra insegnare
e fare
l’impiegato
che si pone ogni mattina
di Cinzia Billa
La demotivazione degli insegnanti italiani è legata
allo stipendio? I dati internazionali smentiscono questo assunto. Il nodo è la
passione ideale
Archiviato il caso Fioramonti,
torno indietro a un articolo del Messaggero
di inizio dicembre su Ocse-Pisa e
demotivazione degli insegnanti italiani. L’articolo sosteneva che il motivo per
cui una larga percentuale di 15enni italiani del campione di indagine avrebbe
risposto “no” alla domanda se i propri docenti in classe si mostrassero
entusiasti e divertiti del loro lavoro, risiederebbe nel fatto che questi sono
precari e mal pagati. Non è chiaro allora il motivo per cui, come peraltro
riportato dallo stesso articolo, ancor più demotivati degli insegnanti italiani
vi siano, ad esempio, gli insegnanti della Germania che guadagnano quasi il
doppio. Quelli che paiono più motivati ai propri studenti sono i colleghi
dell’Albania e del Kosovo.
Ora, volendo tralasciare le molte differenze amministrativo-organizzative
che il sistema di istruzione tedesco presenta rispetto a quello italiano o a
quello dell’Albania, sembra interessante non lasciare passare questa stranezza:
è possibile che dove guadagnano di più, gli insegnanti sembrino meno entusiasti
del loro lavoro.
I dati, si sa, possiamo farli parlare come vogliamo.
Ma la stranezza, in questo caso, impone una domanda: cosa motiva veramente un
insegnante, così che i suoi alunni ne percepiscano l’entusiasmo per il lavoro
che fa?
Non è solo
lo stipendio o il posto fisso. Altrimenti non si spiega come non siano rari i
casi, tra gli insegnanti italiani, di precari con il minimo dello stipendio che
fanno “riaccendere” l’interesse di una classe. Perché sono più giovani, spiega
l’articolo già citato, ed è minore il gap
generazionale, per cui c’è maggiore empatia tra docente e discente. Forse.
Perché se così fosse, allora fare l’insegnante e fare il calciatore sarebbe
uguale: a 40 anni sei già fuori uso. Cioè l’esperienza non conta. Io ricordo
che al mio primo anno di insegnamento, quando avevo 29 anni, non ero così
capace di empatia. Anzi. Ero tesa come chi sa che ha molto da imparare sul
campo. E l’autorevolezza verso i miei studenti e le mie studentesse me la sono
dovuta sudare, sfida dopo sfida. L’esperienza conta, eccome.
Quando un insegnante appare motivato ai suoi
studenti? Quando ha il gusto di riscoprire la propria materia con loro fino al
punto di sfidarli dentro un lavoro di studio e scoperta, per una stima verso di
loro e il loro destino. Appare motivato l’insegnante che non molla lo studente,
che le studia tutte, che al suono della campana non scappa, che a ricreazione
alza gli occhi dal registro per chiedere a un giovane come sta, che lo
rimprovera e l’attimo dopo si riparte. Che non gli mette 7 o 4 senza dirgli
perché. Appare motivato l’insegnante che non ha la preoccupazione di apparire
motivato, ma che è “preso” da qualcosa (la materia) e da qualcuno (l’alunno, il
suo bene), anche a costo di essere talvolta poco empatico.
Cosa lo rende così? Non è lo stipendio. Questa è una
categoria che applichiamo quando guardiamo alla scuola e all’istruzione come a
un settore del pubblico impiego, ossia esito di una cultura che considera
insegnare come “avere il posto statale”. Equivoco per cui non si considera il
sistema di istruzione e formazione come il motore dello sviluppo del paese, la formazione iniziale dei docenti
è considerata una perdita di tempo e il carico burocratico che grava sugli
insegnanti tende a portare sullo sfondo l’essenziale del lavoro dell’insegnante
– educare insegnando –. Questo è un equivoco de-motivante in partenza. Perché
fa fuori la natura dell’insegnante.
Cosa lo motiva, allora? Una meta preziosa. Per cui
insegnare. Che significa, oggi, insegnare? Oggi più che mai significa imparare
e seguire. Lasciare spazio alle sfide sempre nuove e alle domande che ogni
giorno sorgono nell’affronto della disciplina con gli studenti, facendo insieme
a loro un cammino di conoscenza autentico, mai scontato, umile, possibilmente
chiedendo aiuto a un collega più bravo o che rischia lo stesso desiderio.
Muove e motiva me e gli studenti scoprire che posso
verificare se il pezzo di realtà che sto incontrando adesso ha un significato
che può riguardare me, con la mia attesa di bellezza, col mio bisogno di
scoprire la verità di me, ciò per cui sono al mondo, che mi fa dire “questo sì
e questo no”, che mi fa scoprire che io non sono il mio fallimento, ma il mio
ragionevole desiderio di compimento.
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