di Massimo Recalcati
Le aggressioni oscene delle quali gli insegnanti sono sempre più spesso vittime, da parte dei loro alunni e delle famiglie che ne sostengono in modo arrogante le ragioni, lasciano senza parole e non dovrebbero essere sottovalutate. Si tratta di un vero e proprio oltraggio che colpisce al cuore la nostra vita collettiva.
Conosciamo lo sfondo antropologico in cui avvengono questi episodi: una alterazione della differenza simbolica tra le generazioni che ha comportato una frattura del patto educativo tra famiglie e insegnanti. I genitori anziché sostenere i rappresentanti del discorso educativo si schierano con i loro figli, lasciando gli insegnanti in una condizione di isolamento. Misconosciuti da uno Stato che non valorizza economicamente il loro lavoro, sovraccaricati di compiti educativi di fronte a famiglie sempre più disgregate e latitanti, gli insegnanti patiscono una condizione di umiliazione permanente.
Nel nostro tempo ogni atto decisionale nel campo dell’educazione dei figli rischia di essere guardato dalle famiglie come un sopruso illegittimo, mentre è considerata legittima l’aggressione violenta di genitori e figli verso gli insegnanti.
La vita di questi figli dovrebbe scorrere su di un’autostrada spianata, dove ogni ostacolo, ogni esperienza di frustrazione o di ingiustizia dovrebbe essere rimossa. È il sogno narcisistico dei genitori contemporanei: assicurare ai propri figli una vita facile di successo, risparmiare loro ogni angoscia. Se allora un insegnante osa mettersi di traverso ricordando che ogni percorso di formazione è fatto di prove da superare, viene travolto in varie forme: dalle denunce al Tar alla violenza fisica e verbale sino a una sorta di bullismo rovesciato, dove sono gli insegnanti a subire angherie di ogni genere.
In un tempo non lontano l’insegnante godeva di un prestigio sociale e di un’autorità educativa che costituivano un punto fermo per le famiglie e per la nostra vita collettiva. Prima del Sessantotto questo prestigio e questa autorità spesso sfociavano in un uso repressivo del potere a danno degli studenti. È stato necessario un lento ma fondamentale processo di liberazione critica della scuola da modelli pedagogici sterilmente autoritari. Ma oggi la scuola non è più un luogo di indottrinamento ideologico ed esercizio di un potere sadico. Non è più un dispositivo disciplinare che costringe le vite dei nostri figli ad adattarsi a pratiche pedagogiche coercitive. Nel nostro tempo la scuola è un luogo di resistenza all’incuria e alla logica produttivistica che ispira l’iperedonismo contemporaneo.
Se c’è un luogo che andrebbe custodito e difeso con tutta l’attenzione necessaria da ogni forma di prevaricazione, è il luogo della scuola. È lì che la vita dei nostri figli può allargare l’orizzonte del mondo, fare esperienza della forza della parola, dell’erotismo della conoscenza. La violenza brutale di cui gli insegnanti sono vittime non è solo quella di famiglie incivili, ma è anche quella più diffusa del discredito che li colpisce: penalizzati economicamente, denigrati come lavoratori privilegiati, declassati nel loro prestigio pubblico.
Dovremmo invece sempre ricordare che ogni rinascita collettiva inizia dalla scuola e dalla sua funzione. Quale? Quella di introdurre la vita dei nostri figli alla dimensione generativa della cultura. È questo il vero vaccino che abbiamo a disposizione per prevenire la dissipazione della vita dei nostri figli: consentire l’incontro con la dimensione erotica del sapere, con la cultura come desiderio di vita.
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