Chi ha vissuto l’esperienza
della violenza gratuita e insensata, come quella che a Manduria ha portato alla
morte di Antonio Stano, chiede uno scatto di dignità alle famiglie: «Ai ragazzi servono modelli» Anche gli
educatori in campo dopo gli ultimi episodi di violenza. Bernardo
(Fatebenefratelli): «Fenomeno in
crescita, ecco come intervenire»
Maria Luisa Lavarone, la
mamma di Arturo, accoltellato a Napoli nel 2017 da 4 suoi coetanei: «Ammettere
le colpe dei propri figli è il primo passo»
di VIVIANA DALOISO
La violenza dei piccoli, la sconfortante inadeguatezza dei
grandi. In mezzo, il vuoto. Di dialogo, di ascolto, di senso. L’hanno vissuto
nella propria carne, l’orrore di Manduria, Maria Luisa Iavarone e Paolo
Picchio. Lei mamma coraggio di Arturo, il giovane accoltellato per le vie di
Napoli da una baby gang nel dicembre del 2017; lui papà di Carolina, la ragazza
che nel 2013 è arrivata a togliersi la vita per colpa dei bulli. Devastati,
pieni di rabbia, questi genitori sono in campo, ogni giorno, accanto agli
adolescenti e alle loro famiglie nel deserto dell’emergenza educativa.
Tutto il
contrario di quelli descritti dai fatti di cronaca degli ultimi giorni: «I
nostri figli hanno sbagliato, ma qui ci sono solo bar» si è giustificata una
mamma degli aguzzini che hanno rovinato al vita di Antonio Stano. «È vero, gli
ho detto di buttare via il telefono per proteggerlo, ma non sapevo di quei
video» gli fa eco uno dei papà degli stupratori di Viterbo. E ieri la donna di
Lodi che entra a scuola e aggredisce la vicepreside, colpevole d’aver sospeso
la figlia per motivi di condotta. Cosa succede, prima che ai ragazzi, agli
adulti? «Il male che dovrebbe immediatamente richiamare l’attenzione sistemica
di tutte le agenzie educative: famiglie, scuola, istituzioni» spiega Iavarone.
È un fiume in piena, divisa tra l’impegno costante nelle scuole con
l’associazione Artur (Adulti responsabili per un territorio unito contro il
rischio), fondata dopo l’aggressione a suo figlio, e un processo snervante, per
cui uno degli aggressori di Arturo è già libero di scorrazzare per il
quartiere, un altro si avvia al patteggiamento. Come se nulla fosse successo.
«La verità è che di fronte a questi fatti non si può più stare fermi.
E voglio proprio cominciare dai genitori, dalla mancanza di
uno sguardo sui propri figli». Il ricordo corre al giorno che è scesa in strada
per percorrere i 150 metri che separano la sua casa da quella della madre di
uno di quei bulli: «Volevo parlarle, la porta è rimasta chiusa. Ripenso a lei
tutte le volte che vedo genitori incapaci di riconoscere le colpe dei propri
figli, perché riconoscerle significa anche ammettere che come adulti ne siamo
responsabili». Li chiama «alibi», Maria Luisa Iavarone: «È ciò con cui ci
sentiamo tutti “coperti”, al sicuro. Come quello di non avere le password per
guardare dentro ai loro telefonini. La password che ci manca in realtà è quella
delle relazioni». Lo sguardo si allarga alla scuola, l’altro tasto dolente
dell’emergenza educativa: «Otteniamo il ripristino dell’ora di educazione
civica, e questa è una buona notizia, ma buttiamo via la Storia dalla maturità
e diciamo ai nostri ragazzi che di storia, di storie, in fondo non c’è più
bisogno. Così li lasciamo appiattiti sul
presente delle chat, incapaci di proiettarsi in avanti o indietro e quindi anche nel-l’altro, del tutto insensibili». In una parola, disumani. «E ancora: togliamo la possibilità di mettere le note, di fatto azzerando quel poco di autorità rimasta agli insegnanti – continua Iavarone –. Questa settimana, a Napoli, è toccato a due ragazzi: accoltellati, per strada, da baby bulli. E io dico basta, dico che non possiamo più accettare questa deriva e che serve una rete, tra le agenzie educative, per invertire la rotta».
presente delle chat, incapaci di proiettarsi in avanti o indietro e quindi anche nel-l’altro, del tutto insensibili». In una parola, disumani. «E ancora: togliamo la possibilità di mettere le note, di fatto azzerando quel poco di autorità rimasta agli insegnanti – continua Iavarone –. Questa settimana, a Napoli, è toccato a due ragazzi: accoltellati, per strada, da baby bulli. E io dico basta, dico che non possiamo più accettare questa deriva e che serve una rete, tra le agenzie educative, per invertire la rotta».
È lo stesso appello che lancia Paolo Picchio. La legge sul
cyberbullismo – per cui ha lottato in prima linea dopo la morte di sua figlia,
ad appena 16 anni, e che ha visto approvare dalla tribuna del Parlamento giusto
due anni fa – non basta. Se ne è accorto tutte le volte che nell’ultimo anno ha
incontrato i ragazzi, nelle scuole: «Più di 35mila, e penso a quelli che quando
parlo scoppiano a piangere perché capiscono cosa vuol dire, che 'le parole
fanno più male delle botte', come diceva la mia Carolina ». Nel messaggio
devastante che la ragazza ha lasciato ai suoi persecutori («mi sembra di
rivederli, in questi ragazzi di Manduria, spietati e del tutto incoscienti»
dice) lui ha trovato la forza per urlare il suo 'non ci sto'. «Ma siamo troppo
pochi. Agli incontri che organizziamo con la nostra Fondazione i genitori
mancano sempre. Non hanno ancora capito, quello che sta accadendo ai propri
figli. E che bisogna tornare ad educarli». A Fondazione Carolina «Le famiglie
hanno dato prova di incapacità a controllare ed educare i giovani». Sono
sconfortanti le parole messe nero su bianco dal gip del Tribunale di Taranto,
Rita Romano, nell’ordinanza con cui ha deciso che i due maggiorenni coinvolti
nell’indagine sulle violenze compiute ai danni di Antonio Stano, il 66enne di
Manduria morto il 23 aprile, dovranno restare in carcere, condividendo appieno
il gravissimo quadro accusatorio della Procura (anche in relazione al reato di
tortura) e confermando la decisione adottata dal gip minorile, che ha mandato
in carcere anche i sei minorenni corresponsabili dei fatti. Intanto il quadro
delle persecuzioni si arricchisce di particolari sempre più agghiaccianti:
Antonio Stano «era braccato dai suoi aguzzini», era vittima di un «trattamento
inumano e degradante», era «terrorizzato, dileggiato, insultato anche con – in prima linea anche nell’istituzione dell’Osservatorio
internazionale sul cyberbullismo voluto da Papa Francesco – la chiamano con
sconforto la “pastorale della salamella”: «Ci rendiamo conto che per far
partecipare gli adulti dobbiamo sempre organizzare qualche evento più
strutturato, che comprenda un aperitivo, un’occasione di convivialità» spiega
l’educatore dell’associazione Pepita onlus, Ivano Zoppi. Come se mettersi in
discussione nell’educazione dei propri figli, sedendosi ad ascoltare e basta,
fosse già un’onta o un’ammissione di colpa.
Il gruppo di esperti (15 tra
psicologi ed educatori), che supporta Fondazione Carolina, è intervenuto nelle
scuole tutte le volte che si sono verificati episodi come quello di Manduria:
«Da Lecce a Varese fino a Lodi, nel caso di un suicidio avvenuto recentemente,
abbiamo toccato con mano la solitudine dei docenti, la mancanza di tempo e di
fondi per dare continuità ai progetti educativi pur meritoriamente sputi, spinto in uno stato di confusione e disorientamento »
che lo costringeva «ad invocare aiuto per la paura e l’esasperazione di fronte
ai continui attacchi subiti». Di più: i video dei pestaggi che giravano su
YouTube e sulle chat degli indagati e dei loro amici, ha evidenziato il giudice
Romano, «erano divenuti merce di scambio tra i diversi giovani». Il tutto nel
silenzio e nell’indifferenza generale, o addirittura con la complicità degli
adulti: è il caso dello zio di uno degli aggressori, che avrebbe tentato di
proteggere il nipote chiedendo di non fare il suo nome. O della madre di uno
studente, che avvertita dalla professoressa di quanto stava accadendo (la
docente aveva visionato i video) avrebbe detto che il marito aveva messo in
punizione il figlio. Anche dalla scuola, d’altronde, non sarebbe mai partita
alcuna segnalazione ai Servizi sociali. messi in atto per accompagnare i ragazzi nel disagio»
continua Zoppi. Risultato: «Il ragazzo, che è sempre lo stesso coi suoi
problemi e la sua richiesta di modelli, passa attraverso la scuola, la società
sportiva, persino l’oratorio, senza che su di lui ci sia un patto di
corresponsabilità educativa». E il più fragile diventa bullo, o vittima, che è
lo stesso fallimento dal punto di vista educativo.
Sul nodo di un “patto” da rimettere in moto a cominciare
dalla famiglia fino alla scuola e più su, alle istituzioni e allo Stato,
insiste anche l’esperto di bullismo Luca Bernardo, direttore della Casa
pediatrica Fatebenefratelli Sacco di Milano (l’unica struttura accreditata in
Italia per la presa in cura del fenomeno) e responsabile del Coordinamento
nazionale cyberbullismo presso il ministero dell’Istruzione. Oltre 1.200 i
ragazzi presi in carico nel suo centro ogni anno, «nel 2019 drammaticamente in
crescita – spiega –.
Il nostro lavoro non a caso è quello di ricucire le relazioni
che in ogni fenomeno di bullismo, sia ne caso di chi lo subisce che di chi lo
agisce, sono compromesse ».
Al centro del percorso di ricostruzione dei ragazzi
ci sono proprio i genitori: «Penso a quelli di due dei ragazzi responsabili
della morte di Carolina – racconta –. Hanno trascorso qui la loro messa in
prova, che è durata due anni e mezzo su disposizione della Procura di Torino.
Ogni giorno trascorso al centro lo hanno passato accompagnati dalle loro mamme
e dai loro papà. Alla fine hanno preso coscienza di quello che hanno fatto».
Educazione, rieducazione, «si può e si deve rimettere la questione in cima
all’agenda del Paese».
Se si arriva a picchiare un insegnante è perchè non ha saputo insegnare. Gli adoplescenti è difficile recuperlarli ma i genitori vanno rieducati. Basta osservarli all'uscita delle scuole ! Disctribuzione gratuita di vizi e capricci...
RispondiEliminaQuesto è il nostro tempo ! lasciamolo scorrere se è senza valori si esaurirà da solo !