Tradizionalmente associati alle donne, in realtà i disturbi alimentari colpiscono anche la popolazione maschile.
Il fenomeno è rimasto a lungo in ombra, ma oggi un quarto delle diagnosi riguarda ragazzi
Disordini alimentari: l’attenzione va tenuta alta. Secondo dati del Ministero della Salute, infatti, in Italia circa tre milioni di persone sono affette da disturbi dell’alimentazione e se di vera e propria problematica sociale si tratta, va sottolineato che l’età di insorgenza dei disordini si sta abbassando sempre più, con bambini di circa dieci anni già da tenere sotto controllo, tuttavia gli adulti non sono immuni al problema. Secondo alcune stime, poco più del 95% delle persone colpite sono donne, ma l’anoressia maschile è in crescita e si manifesta da minoranza silenziosa, delineando nuovi contorni della malattia.
Secondo Laura Ciccolini, psicoterapeuta e direttore della Federazione italiana disturbi alimentari, che riunisce associazioni senza scopo di lucro attive in gran parte del territorio nazionale, costituite da psicoterapeuti, medici, nutrizio- nisti e psichiatri con esperienza in ambito di ricerca, prevenzione, formazione e cura dei disturbi alimentari, l’anoressia maschile non è un fenomeno relativamente recente, ma il frutto di un cambiamento sociale: «Fino a vent’anni fa la percentuale tra maschi e femmine sull’anoressia vedeva un divario abbastanza forte, di circa un uomo ogni dieci donne, ma negli ultimi anni si arriva anche a un uomo ogni quattro donne, per cui la percentuale conosciuta di uomini che si ammalano di disturbi alimentari è aumentata, ma ci sono alcuni aspetti da considerare: per i disturbi alimentari è sempre difficile chiedere aiuto o entrare nei centri di cura. Poi c’è una questione diagnostica: i manuali sono sempre stati costruiti sulle donne, per cui talvolta la diagnosi può diventare più complessa e rimandata a disturbi fisici. L’ultimo aspetto da considerare è che oggi anche per gli uomini è cambiato il mondo, con un corpo diventato oggetto di cura e una più complessa costruzione dell’identità, oltre alla frequente distorsione della propria immagine corporea, scarse relazioni sociali, isolamento progressivo e allenamenti sempre più stressanti, fino ad arrivare all’utilizzo di anabolizzanti o sostanze dopanti ».
Stefano Tavilla, presidente dell’associazione Mi nutro di vita, non vede una reale distinzione, se non nei numeri, tra anoressia maschile e femminile, ma tende a guardare alla problematica nella sua globa-lità, anche riguardo ai possibili approcci con cui affrontarla: «Sono malattie che vanno affrontate soggettivamente, sia nel caso di bambini che di persone adulte. Non c’è un percorso identificato con il sesso o l’età. Il percorso è personale, da affrontare in maniera multidisciplinare, ma chiaramente è importante che chi è malato trovi la forza per chiedere aiuto e arrivare ai centri. In questo senso è importante l’ambito familiare e le possibilità di cura, ma la riuscita della cura non ha un arco temporale certificato. Prima si interviene e più è facile, ma non c’è una regola».
I fenomeni correlati al culto del corpo sono l’ortoressia, ovvero l’ossessione per il mangiare sano, e la vigoressia, cioè la mania di un corpo perfetto e disegnato, entrambi figli sì di tormenti interiori, ma anche estremizzati dalle potenzialità di diffusione contemporanea, ad esempio attraverso gruppi e pagine social, in cui è facile veder transitare messaggi sbagliati: «Il ministero della Salute – spiega Tavilla – dice che circa tre milioni di persone in Italia soffrono di queste malattie; ogni persona è collegata almeno ad un familiare, o un amico. Ecco, quel dato raddoppia il numero delle persone che in qualche modo sono coinvolte, perché la famiglia è sempre coinvolta. Sei milioni di persone sono il 10% della popolazione italiana e di fronte a questi numeri credo sia giunto momento che si parli di più di disturbi del comportamento alimentare, in modo da attivare livelli di cura sempre più adeguati e reparti dedicati».
Di fondo, comunque, resta presente una dispercezione corporea, ovvero un vedersi in modo diverso da quella che poi è la realtà, come conferma la psichiatra e psicoterapeuta
Laura Dalla Ragione, direttore Rete disturbi comportamento alimentare dell’Umbria e presidente della Società italiana riabilitazione disturbi del comportamento alimentare e del peso: «Dal punto di vista psicologico rimane simile sia nell’uomo che nella donna un deficit dell’autostima, una ricerca di perfezionismo estrema, un controllo sul cibo e sulle forme corporee. È interessante però notare come la diffusione nell’uomo di comportamenti o abitudini finalizzati al perseguimento di un fisico asciutto e muscoloso non susciti nella maggior parte delle persone la sensazione di trovarsi a che fare con persone affette da un disturbo dell’alimentazione: se il corpo dell’anoressica provoca un forte impatto, lo stesso non accade per il corpo di un culturista, nell’accezione comune ritenuto normale. Ciò ha un’inevitabile ripercussione sul processo interno che conduce a essere consapevoli di avere un problema e a trovare il coraggio di chiedere aiuto», soprattutto in una società con cambiamenti socio-antropologici strutturali come la nostra, in cui il corpo diventa spesso «teatro di conflitti e rappresentazioni », commenta Dalla Ragione.
Rappresentazioni che possono portare inconsapevolmente ad aumentare anche i fattori di rischio: secondo una ricerca di fine 2017 pubblicata da Annales médico-psychologiques sono diversi i casi in cui si segnala una pratica eccessiva di sport. Dati confermati dalla ricerca del Karolinska Institut di Stoccolma, pubblicata sul Clinical journal of sport medicine, nella quale, spiega Dalla Ragione: «Sono stati coinvolti 223 atleti olimpici svedesi tra il 2012 e il 2014: circa il 10% degli intervistati ha ammesso di soffrire di disordini alimentari, mentre il 38,5% ha dichiarato di avere avuto problemi legati all’alimentazione nei tre mesi precedenti allo studio». Dati che, come spiega ancora la psicoterapeuta, fanno pensare che il rischio anoressia sarebbe molto alto negli atleti, sottoposti a costanti pressioni, allenamenti intensivi e ricerca di una forma fisica perfetta, modificando talvolta anche le abitudini alimentari, fino a stravolgerle. Per quanto riguardo la cura? «Non ci sono differenze di trattamento – conclude Dalla Ragione –, le cure sono integrate e multidisciplinari, con livelli di intensità differenti: ambu-latoriali se il disturbo è all’inizio, residenziali se la patologia è più radicata e grave. Generalmente i gruppi di terapia comprendono maschi e femmine proprio perché al di la della fenomenologia del disturbo, si lavora sul nucleo più profondo, che è appunto la dispercezione corporea. L’équipe è formata da psicologi, nutrizionisti, psicomotricisti e si lavora contemporaneamente su tre piani: psicologico, nutrizionale e dell’immagine. La difficoltà principale è convincere il paziente a curarsi, perché il disturbo spesso non è consapevole, quindi molto lavoro si fa sulla motivazione».
Nessun commento:
Posta un commento