di Giuseppe Savagnone
L’Italia che i media ci raccontano, in
questi giorni, presenta due volti a prima vista molto diversi, che si
riferiscono, da un lato, ai presunti “successi” sul fronte dell’immigrazione,
dall’altro alle pessime notizie sulla recessione economica. Per quanto
riguarda la prima, l’ultimo episodio, quello della Sea Watch,
sembra confermare la validità della linea del governo. «Missione compiuta!», ha
twittato Salvini. È così, del resto, che hanno visto questa vicenda gli
italiani che, in numero sempre crescente, a Sud come a Nord, tra poveri come
tra i ricchi, si riconoscono nella “politica della fermezza” del nostro
ministro degli Interni.
L’affaire Diciotti.
Ne è una ulteriore prova il fatto che il
57% è solidale con lui nel respingere l’accusa del tribunale dei ministri di
aver violato la legge nel caso della nave Diciotti, quando a 117
persone che erano a bordo fu impedito, per ordine del ministro, di scendere a
terra.
L’intervento della magistratura è stato
sentito, dalla maggioranza dell’opinione pubblica, come un’indebita
intromissione nella politica, una «invasione di campo», come l’ha definita
l’interessato, perché pretende di valutare in termini giuridici una scelta
fatta da un uomo di governo nell’interesse del Paese.
Emblematico degli umori prevalenti può
essere il messaggio, pubblicato con grande evidenza su una pagina facebook:
«Salvini è il primo politico italiano ad essere indagato non per corruzione o
per mafia, ma per aver difeso i confini della nostra patria. Onore a Salvini!».
La recessione.
A turbare il clima di esultanza di 60
milioni di italiani per la vittoriosa campagna di difesa delle nostre frontiere
dall’invasione dei barbari che venivano a rubare il lavoro ai nostri ragazzi –
gli invasori sono stati bloccati, tutti e 47!, e costretti a lasciare l’Italia
– , sono arrivate le infauste notizie riguardanti l’andamento del Pil, in calo
per secondo trimestre consecutivo, e in modo più grave che in quello precedente
(-0,2, invece che -0,1).
Si tratta del peggiore risultato
trimestrale da cinque anni a questa parte, visto che, sotto i precedenti
governi, per quattordici trimestri si era registrata una sia pur timida
crescita.
Questo non ha impedito al vicepremier
Luigi Di Maio di addossare al passato le colpe della recessione: «I dati Istat
sul Pil testimoniano una cosa fondamentale: chi stava al governo prima di noi
ci ha mentito, non ci ha mai portato fuori dalla crisi».
Che fare della manovra economica?
Di chiunque sia la colpa, è certo che
viene messa in dubbio la previsione su cui era fondata la manovra economica per
il 2019, varata recentemente dal governo, nella quale il presupposto
fondamentale per coprire i costi del reddito di cittadinanza e delle pensioni a
quota cento era una crescita del Pil dell’1% (anche se già allora sia la Banca
d’Italia che il Fondo monetario internazionale avevano ritenuto questo tasso di
crescita troppo ottimistico, ridimensionandolo allo 0,6%).
Ora sappiamo che il 2018 lascia in
eredità al 2019 non solo la problematicità dei risultati positivi, ma anche la
necessità di “rimontare” questo -0,2%.
Peraltro, sia il premier Conte che il
vicepremier Salvini hanno insistito sul fatto che non bisogna preoccuparsi,
perché la ripresa è alle porte, come del resto aveva anticipato alcuni giorni
fa Di Maio: «Sta per arrivare un nuovo boom economico, come negli anni 60»,
aveva annunziato.
Anche se qualcuno, sommessamente, ha
fatto presente che da molti mesi questi risultati catastrofici erano stati
ampiamente previsti, già diverso tempo fa, da tutti gli enti competenti, in
Italia e a livello internazionale – Banca d’Italia, Istat, Ocse, Unione
Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale, –, che avevano
diffidato il nostro governo dal perseguire sulla strada che aveva intrapreso e
che tuttora difende.
Anche in questo caso, però, col pieno
sostegno degli italiani, che, stando ai sondaggi, appoggiano ancora
entusiasticamente – malgrado la recessione praticamente certa – la linea del
governo.
L’eclissi della ragione.
Si diceva prima che questi due temi di
attualità emergenti – le migrazioni e la recessione – sono a prima vista del
tutto eterogenei, anzi di segno opposto (un cosiddetto “successo”, una
sconfitta).
Qui vorrei avanzare l’ipotesi che, in
realtà, siano intimamente collegati da un fattore comune, che è l’eclisse della
razionalità nella sfera pubblica.
Dove non mi riferisco soltanto ai
rappresentanti del governo, ma a quella sempre più vasta platea di sostenitori
che gli ha dato e continua a dargli fiducia, legittimandone le scelte.
Le migrazioni: la sproporzione tra
propaganda e realtà.
Solo una rinunzia all’uso della ragione
può giustificare la passione con cui gli italiani hanno seguito e premiato
prima la campagna elettorale della Lega, poi l’azione del governo, univocamente
centrate sul problema dell’immigrazione.
In primo luogo perché sarebbe bastato un
minimo d’informazione per apprendere che il flusso migratorio già a partire dal
gennaio 2018 era bruscamente calato dell’80% e non costituiva più un’emergenza
già molti mesi prima che il governo gialloverde si formasse.
In secondo luogo, perché avere
concentrato tutte le energie su un falso problema ha distolto governanti e
governati da altri, molto più reali ed economicamente rilevanti, come la lotta
all’evasione fiscale (a cui anzi si è dato un segnale di incoraggiamento con la
«pace fiscale», eufemismo per indicare il vecchio strumento del condono).
Solo una rinunzia all’uso della ragione
può aver permesso di equiparare il fenomeno migratorio a una invasione,
minacciosa per il nostro benessere, enfatizzando il fatto che non tutti i
migranti fuggivano da guerre e persecuzioni, ma molti erano “migranti
economici”.
A parte la diminuzione drastica dei
numeri di chi arrivava, l’Italia è uno dei Paesi europei che ospita una minore
percentuale di stranieri.
E il presidente dell’Inps Tito Boeri (che
è anche un noto economista) ha dimostrato numeri alla mano che la loro
presenza, se non criminalizzata (come è stato fatto invece col Decreto
sicurezza) può essere resa una risorsa.
Solo una rinunzia alla ragione può far
accettare, senza un moto di indignata protesta, la reiterata affermazione di
Salvini che «la Libia è un posto sicuro» e che bisogna favorire il rimpatrio
dei migranti da parte della guardia costiera libica.
È l’Alto Commissariato dell’ONU per i
migranti a segnalare le condizioni disumane in cui sono trattenuti i migranti.
E sono state pubblicate sui giornali le foto che ritraggono le torture inflitte
nei lager libici a questi disgraziati («Meglio morire che tornare in Libia», ha
mormorato un naufrago).
La legge che vigila sulla politica e
lo Stato di diritto.
Solo la rinunzia all’uso della ragione
può aver spinto il 57% degli italiani a ritenere che la politica non debba
rispondere della violazione delle leggi e che un governante sia sottratto ad
esse in forza del proprio intento di operare nell’interesse pubblico.
Lo Stato di diritto è nato contro le
tirannidi – e si differenzia dalle moderne dittature – perché in esso il potere
(quali che siano i suoi intenti) ha limiti precisi nell’ordinamento giuridico,
del cui rispetto la magistratura (organo libero proprio perché indipendente dal
consenso popolare) è garante.
Economia e inettitudine.
E solo una rinunzia all’uso della ragione
avrebbe potuto indurre un Paese a ignorare – se non addirittura a sfidare
irrisoriamente – gli unanimi ammonimenti degli esperti, nazionali e
internazionali, circa i pericoli di recessione impliciti nella politica elettoralistica
che si stava seguendo, affidandosi alla volontà di «tirare dritto» di due
incompetenti come Di Maio (steward in uno stadio) e Salvini (nemmeno laureato),
freneticamente protesi a prolungare una campagna elettorale permanente (a
maggio ci sono le europee…).
Il rischio dell’imbarbarimento.
Il problema, allora, non è la recessione
economica. Essa è solo l’effetto di una malattia ben più grave. E questa
malattia colpisce le persone nella loro umanità, di cui la razionalità è un
elemento decisivo, perché da essa dipendono anche i fattori emotivi.
«Il sonno della ragione genera mostri»,
ha scritto Goya. Accecati dalle illusioni ottiche che i nostri governanti hanno
tutto l’interesse di alimentare, gli italiani si stanno imbarbarendo.
Lo si vede sui social, lo si sente nei
discorsi al bar e sull’autobus. Con l’alibi della lotta al “buonismo”,
rischiamo di legittimare un egoismo e un cinismo diffusi che erano estranei
alla nostra gente. Peraltro, andando incontro – come si sta vedendo – a esiti
che danneggiano anche i nostri interessi. È ora di svegliarsi, prima che sia
troppo tardi. E non solo per la nostra economia, ma per la nostra umanità.
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