SALVARE IL "PENSIERO LENTO"
I test dimostrano una tendenziale incapacità degli studenti italiani a comprendere il significato di un testo scritto. I media digitali esprimono un’organizzazione sociale basata sull’accelerazione È questa logica che va disinnescata
di Pier Cesare Rivoltella*
Al tempo dei media digitali
si legge di più o si legge di meno? Leggere a schermo modifica il
nostro modo di comprendere i significati? E cambia il nostro modo di
scrivere? Sono alcune delle domande che genitori e insegnanti si
pongono per capire quali siano spazi e tempi corretti da lasciare ai
dispositivi a casa, a scuola, nel tempo libero. La ricerca suggerisce
che proprio la questione del tempo è determinante. Maryanne Wolf,
neuroscienziata che da anni studia il cervello che legge, ha osservato
che leggere a schermo finisce per inibire, a lungo andare, la lettura
profonda. Si corre via, alla ricerca di alcuni snodi del testo che
consentano di coglierne sinteticamente il senso senza prendersi il tempo
di pesarne ogni singola parte: il rischio è
che si comprometta la capacità di comprendere con esattezza il
significato di quel che si sta leggendo. Si legge, ma spesso senza
capire cosa: i risultati delle prove Invalsi da qualche anno dimostrano
proprio questo, ovvero una tendenziale incapacità degli studenti
italiani a comprendere il significato di un testo scritto.
C olpa degli schermi?
Probabilmente no. Ma di certo le condizioni in cui si legge svolgono
un ruolo determinante: si legge in mobilità, in metropolitana, nei tempi
morti, mentre si svolgono altre attività. I tempi della lettura sono
sempre compressi: si riesce a gettare uno sguardo sullo schermo, quasi
mai a prendersi il tempo necessario per leggere veramente. E lo schermo
digitale è perfettamente complementare rispetto a
queste abitudini di consumo: sempre disponibile, consente con un clic
di richiamare il testo e di scorrerlo con il movimento di un dito.
Qualche anno fa l’economista Daniel Kahneman ha distinto quelli che lui
chiama i pensieri veloci dai pensieri lenti. Sono veloci quei pensieri
che sorreggono le nostre decisioni in tempo reale: vale per tutte le
situazioni in cui siamo abituati a rispondere quasi istintivamente,
senza pensarci troppo, perché prendersi il tempo per pensare
comporterebbe di rendere vana la decisione. Al contrario i pensieri
lenti sorreggono le decisioni ponderate: valutiamo tutti gli elementi,
avanziamo delle ipotesi, le vagliamo mentalmente, arriviamo a una
decisione valutata con calma, sorretta da argomentazioni.
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ensieri veloci e pensieri lenti dovrebbero appartenere entrambe alla
nostra economia cognitiva: i primi servono in alcuni casi, i secondi in
altri. Di fatto, però, la velocità a cui siamo progressivamente sempre
più condannati, nella vita di tutti i giorni, a casa come nelle
organizzazioni, può comportare che tendiamo a ricorrere via via in modo
sempre più frequente soprattutto ai pensieri veloci. Lamberto Maffei, a
lungo direttore dell’Istituto di Neuroscienza del Cnr, ha osservato che
questo potrebbe comportare a lungo delle modificazioni nel nostro modo
di elaborare le informazioni, favorendo il lavoro del 'cervello basso' (la via ventrale) a svantaggio di quello del 'cervello alto' (la via dorsale): bravi nel problem solving
in tempo reale e a fronteggiare situazioni di emergenza, potremmo
perdere progressivamente la capacità di pianificare a lungo termine.
Il vero problema, dunque, non è il digitale, ma la velocità. Occorre
trovare il modo di rallentare perché solo rallentando è possibile
attivare i nostri pensieri lenti. La lettura, quella profonda, ha
bisogno di tempi distesi: il fatto che legga sulla pagina o sul mio
Kindle, da questo punto di vista, non comporta differenze.
Q
uanto alla scrittura, in maniera totalmente controintuitiva, i dati
dicono che si scrive decisamente di più oggi che rispetto a qualche
decennio fa. Ma certo questo dato quantitativo va interpretato: non si
scrivono più saggi, o più romanzi; spesso la scrittura è funzionale alla
comunicazione privata e professionale; si scrivono mail, si posta sui
social. Anche in questo caso, come in quello della lettura, il tempo è
un fattore determinante. La scrittura si
accorcia, si fa sintetica. Gli schermi digitali sono a questo riguardo
un fattore codeterminante: proprio perché si dispone di poco tempo, il
formato dello Short Message risulta assolutamente funzionale, ma a lungo
andare quel formato finisce per modificare la nostra attitudine alla
scrittura e così finiamo per essere sintetici sempre, anche quando non
servirebbe o forse sarebbe meglio non esserlo.
ndrea Lunsford, professoressa di inglese all’Università di Stanford, ha concepito una ricerca longitudinale (lo Stanford Study of Writing) che studia A
come si modifichino le pratiche di scrittura degli studenti in un arco
di cinque anni. E il dato è che negli ultimi anni è progressivamente
cresciuta la capacità dei partecipanti di scrivere testi sintetici,
perfettamente centrati sul loro obiettivo, capaci di raggiungere il
destinatario in maniera efficace. Ma si può dire che sia andata
modificandosi anche la pratica della scrittura.
Quando non esistevano i computer, al tempo della scrittura manuale,
l’organizzazione del testo si svolgeva sostanzialmente a priori. Questo
significa che avevo bisogno di pensare bene cosa volessi scrivere prima
di trasferirlo su carta: certo, le correzioni erano possibili, ma non
oltre un certo limite, quello imposto dallo spazio stesso della pagina.
Potremmo dire che quel tipo di scrittura assecondava, anzi richiedeva,
il pensiero lento. La scrittura digitale, invece, procede in modo
diverso. Butto giù una prima idea, quattro o cinque righe; la espando;
taglio la prima parte e la sposto in fondo al testo; aggiungo dei
titoletti; lavoro sulle conclusioni prima ancora di aver scritto il
resto del testo. Scrivo per accumulazione, in tempi successivi, anche
per pochi minuti alla volta.
L’organizzazione del testo è
assolutamente a posteriori: non mi serve avere ben chiaro in testa quel
che voglio dire insieme alla sua articolazione; intervengo dopo, sullo
schermo. Si tratta di una scrittura che è perfettamente coerente con il
pensiero veloce. E se mi abituo a scrivere a schermo, a lungo andare
divento incapace di farlo con carta e penna. Non è un problema di
manualità: sugli schermi digitali si può scrivere manualmente con delle
penne che riproducono perfettamente il carattere dinamico della
scrittura su carta. Il problema è cognitivo, di organizzazione mentale.
I
n alcuni contesti si discute anche se sia utile o meno proibire agli
studenti di seguire le lezioni universitarie in aula con l’ausilio del
computer: alcune ricerche hanno dimostrato che il computer da un lato
può favorire la distrazione, dall’altro che prendere appunti alla
tastiera, annotando parola per parola, può dare risultati diversi
nell’apprendimento.
Arriviamo così al cuore del problema. I media digitali sono espressione
(e supporto) di un’organizzazione sociale basata sulla velocità, anzi,
sull’accelerazione. Da questo punto di vista essi non rappresentano il
vero problema: è la logica dell’accelerazione che occorre disinnescare. E
tuttavia, come il caso della scrittura digitale dimostra, a lungo
andare leggere e scrivere digitale finisce per comportare delle
modificazioni nel nostro modo di costruire e decostruire i significati.
Chiudere i media digitali fuori dalle classi, come la Francia di Macron ha fatto, credo non serva.
Occorre piuttosto chiedersi come sia possibile, all’epoca dei pensieri
veloci, continuare a coltivare anche l’attitudine al pensiero lento. Il
nuovo non comporta il sacrificio del vecchio: la sfida è farli
coesistere. La Wolf dice che è come insegnare due lingue straniere a un
bambino piccolo: educare il cervello bilingue è la sfida di oggi e di
domani.
*Professore di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento Università Cattolica di Milano.
www.avvenire.it
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