La storia sbagliata dei «24 cfu», una modesta proposta
di Roberto Carnero
Non c’è nulla che possa scoraggiare un giovane il quale voglia intraprendere una data professione più
dell’incertezza del percorso per accedervi. E negli ultimi anni non
sembra esserci un mestiere la cui strada sia più incerta di quello
dell’insegnante. Non tanto per il precariato fatto di supplenze, più o
meno lunghe, che da sempre costituisce spesso l’inevitabile gavetta per
poi entrare finalmente in ruolo: perché negli ultimi anni, con i
pensionamenti che ci sono stati e ci saranno, le cattedre vacanti sono
tutt’altro che scarse; la necessità di docenti di sostegno, poi, ha reso
disponibili ulteriori posti.
Il problema riguarda invece un aspetto che potrebbe essere molto
semplice: l’iter formativo, e burocratico, per diventare insegnanti. Il
Governo Gentiloni aveva emanato i decreti attuativi della cosiddetta
legge sulla “buona scuola” (107/2015), che tutta buona alla fine non si è
rivelata. Tra le altre cose si stabiliva che, per accedere al percorso
finalizzato a diventare insegnanti, il “Fit” (formazione iniziale e
tirocinio), i laureati nelle diverse materie dovessero avere ottenuto,
all’interno del proprio piano di studi, 24 crediti formativi
universitari (Cfu), corrispondenti grosso modo a quattro vecchi esami
“annuali”, in psicologia, pedagogia, antropologia e didattica
disciplinare.
Di per sé
era buona l’idea di inserire queste competenze come obbligatorie per
andare a svolgere un lavoro, quello dell’insegnante, sempre più
complesso e delicato per i tanti risvolti non solo culturali, ma anche
psicologici e sociali che esso comporta nella scuola di oggi.
Peccato però che quella richiesta avesse valore retroattivo: si
applicava, cioè, anche a chi si era già laureato prima dell’entrata in
vigore del provvedimento. Così molti laureati (magari anche da diversi
anni) interessati all’insegnamento si sono dovuti iscrivere di nuovo
all’università per sostenere quegli esami che mancavano loro per poter
accedere al concorso. Gli atenei, a loro volta, hanno attivato questi
“corsi d’emergenza”, vista la pressante domanda in vista del bando
concorsuale dato per imminente. Essendomi trovato a insegnare Didattica
dell’italiano in un grande ateneo del Nord, posso testimoniare
direttamente la frustrazione, e talora anche la rabbia, di laureati
giovani e meno giovani, che magari già insegnavano da anni come
supplenti, costretti a tornare sui banchi per ottenere quei crediti
mancanti. Mi sono sempre chiesto come mai i sindacati non abbiamo fatto
le barricate su una cosa simile.
Ora circolano voci per cui il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti
sarebbe intenzionato a modificare la normativa, rendendo i 24 Cfu un
requisito “accessorio”, dunque non obbligatorio, per iscriversi al
concorso per insegnanti. Se ciò è vero, l’intenzione del ministro è
lodevole, poiché si andrebbe a correggere una stortura. Ma bisogna
pensare anche a un altro risvolto, diciamo così, di “pace sociale”. Che
cosa proverebbero coloro che con molta fatica (e sborsando anche i
quattrini delle tasse universitarie) negli ultimi mesi hanno fatto i
salti mortali per ottenere quei benedetti 24 Cfu? Avrebbero
l’impressione di aver fatto una fatica inutile e – sostanzialmente – di
essere stati presi in giro dallo Stato. Che il «Governo del cambiamento»
intenda cambiare ciò che non va, sta bene. Ma bisogna osservare che
quando si continuano a cambiare le carte in tavola, il gioco alla fine
rischia di risultare truccato.
Ci permettiamo perciò di suggerire una soluzione di compromesso, che
possa salvare capra e cavoli. Bene togliere il requisito, almeno per chi
si sia già laureato, dei 24 crediti aggiuntivi. Chi però li ha
sostenuti ha acquisito importanti competenze che ne aumentano la
professionalità. È, questo, un fatto innegabile.
Dunque che tale requisito, per quanto “accessorio”, venga adeguatamente
valorizzato in termini di punteggio, in modo che possa segnare, quanto
alla posizione in graduatoria, una differenza che oggettivamente c’è.
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