Dal Vangelo secondo Marco
Mc 7, 31-37
31Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. 32Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. 33Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; 34guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». 35E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. 36E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano 37e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Al tempo di Gesù, si credeva che la santità fosse inversamente
proporzionale alla distanza da Gerusalemme. La Giudea poteva ancora salvarsi,
ma la Galilea e la Decapoli, oltre la Samaria, zone di confine, abitate da
popolazioni miste, erano decisamente perdute.
La Decapoli: dieci città a maggioranza pagana che Roma aveva voluto
autonome dall’amministrazione ebrea, nella cinica politica del dividi et
impera. I pii israeliti, per scendere a Gerusalemme, passavano oltre il
Giordano, sulla strada che attraversava i territori pagani, ma senza mai
entrare nelle città considerate perse.
Gesù, invece, inizia la sua predicazione proprio da lì, dalle tribù di
Zabulon e Neftali, le prime a cadere sotto gli Assiri, seicento anni prima. Perché
egli è venuto per i malati, non per giusti.
Non fugge gli impuri e li condanna, come fanno i Perushim, i
farisei. Li salva.
La guarigione del Vangelo di oggi, fa esclamare alla folla: ha
fatto bene ogni cosa, ha fatto vedere i ciechi, ha fatto udire i sordi!
Solo chi non si aspetta la salvezza sa gioire così tanto quando si
scopre salvato!
Solo chi vive del giudizio altrui e della condanna, sa cosa significa
scoprirsi improvvisamente accolto e amato.
È condotto da amici, il sordo/balbuziente. Sono sempre altri a condurci a Cristo, a parlarci di lui, a
indicarcelo.
La Chiesa, a volte incoerente e fragile, è la compagnia di coloro che
conducono a Cristo.
È questa la funzione della Chiesa, a questo “serve” la Chiesa: a
rendere testimonianza al Maestro.
Ma, lo sappiamo, ci vuole umiltà per farsi condurre.
Il nostro mondo ha fatto dell’arroganza uno stile di vita: trovo molte
persone che sanno tutto, che pontificano, che giudicano, specialmente le cose
concernenti la fede, ma che non sanno davvero mettersi in discussione.
Del vangelo sappiamo già tutto: ci siamo sorbiti quattro anni di
catechesi, cosa c’è altro da imparare?
Nulla, perché la fede è anzitutto incontro. E dopo l’incontro, l’amore
spinge alla conoscenza.
Ma per incontrare occorre muoversi, uscire dalle proprie presunte
certezze acquisite.
Siamo sordi all’invito della Parola. Sordi a quanto il Signore vuole
farci capire.
Gesù porta il sordo/balbuziente in un luogo riservato.
In mezzo al caos quotidiano e alla folla non riusciamo davvero ad
ascoltare.
La ricerca di fede avviene personalmente, cuore a cuore, in un
atteggiamento reale di accoglienza. Dio ci parla ma, per accoglierlo, occorre
zittirci. Lo allontana dal villaggio, lo porta in disparte.
Nel vangelo di Marco, spesso, la folla ha un ruolo ambiguo e negativo.
Influenza il pensiero, irrigidisce, costringe. Come accade oggi: siamo tutti
affascinati da papa Francesco, ma solo nelle cose che ci confermano (o così
pensiamo) nel nostro porci in maniera critica nei confronti della Chiesa.
Pensiamo col pensiero degli altri.
Perciò, per incontrare veramente Dio, abbiamo necessità di isolarci, di
rientrare in noi stessi.
Gesù compie dei gesti di guarigione: sospira, tocca la lingua del
malato.
Allora si pensava che la saliva contenesse il fiato, Gesù intende
trasmettere il proprio spirito all’uomo, e vi riesce.
La nostra vita di fede ha bisogno di segni, di concretezza, di sacramenti.
La fede scoperta è vissuta e celebrata, fatta di gesti in cui
riconosciamo l’opera del Signore per noi, per l’umanità. Ma, e accade, se siamo
guariti è per annunciare agli altri la nostra guarigione profonda.
In Marco, però, Gesù impone il silenzio. Perché?
Gli esegeti ci suggeriscono che, forse, Gesù non voleva essere
scambiato per un guaritore qualunque. La guarigione è sempre segno ed
esplicitazione di qualcosa di profondo.
Aggiungo io, birichino, che se dietro Marco c’è Pietro, allora forse ci
vuole dire di non professare il messianismo di Gesù se prima non si è passati
attraverso la croce.
Abbiamo bisogno di cristiani guariti, di annunciatori di speranza, di
credenti riconciliati.
Credibili. Noi che abbiamo udito le meraviglie di Dio possiamo
proclamare come la folla: ha fatto bene ogni cosa.
È per questo che Isaia, il grande e tenero Isaia, spalanca gli occhi
davanti a un popolo rassegnato, sfiancato da settant’anni di prigionia a
Babilonia, ormai convinto che Dio non ci sia più, e sogna. Sogna un ritorno,
una terra in cui la sofferenza non esiste più e l’abbondanza delle acque che
riempie i cuori.
Un sogno che è anche quello di Dio e che si avvererà per Israele con il
ritorno a Gerusalemme e, per noi, con la venuta del Regno.
Questa salvezza, questa buona notizia, questo gioioso annuncio,
ammonisce Giacomo, deve essere visibile sin d’ora nelle nostre comunità.
Se l’asfalto del conformismo ha appiattito l’attenzione al povero e
allo straniero, Giacomo ci richiama con forza alle nostre responsabilità di
salvati.
La Chiesa, che è il popolo di chi è stato sanato dalle proprie ferite
con l’olio della consolazione di Gesù, imita lo stesso gesto verso l’umanità
fatta a pezzi e ferita dall’odio e dal peccato.
Noi siamo il volto di Dio per il fratello perduto.
p. Paolo Curtaz
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