Comprenderle per non restare disorientati
È indispensabile segnalare,
sia pure in modo sommario, alcuni cambi di paradigma socio-culturale.
Il primo riguarda lo stesso concetto di cultura che non ha più
l’originaria accezione intellettuale illuministica di aristocrazia delle
arti, scienze e pensiero, ma ha assunto caratteri antropologici
trasversali a tutti i settori del pensare e agire umano, recuperando
l’antica categoria di paideia e humanitas, i due termini che indicavano
nella classicità la cultura (vocabolo allora ignoto se non per
l’“agri-cultura”). Per questo il perimetro del concetto è molto ampio e
coinvolge, ad esempio, la cultura industriale, contadina, di massa,
femminile, giovanile e così via.
Essa si esprime, poi, oltre
che nelle civiltà nazionali e continentali, anche in linguaggi comuni e
universali, veri e propri nuovi “esperanto”, come la musica, lo sport,
la moda, i media. Conseguenza evidente è nel fenomeno del
multiculturalismo, che è però un concetto statico di pura e semplice
coesistenza tra etnie e civiltà differenti: più significativo è quando
diventa interculturalità, categoria più dinamica che suppone
un’interazione forte con cui le identità entrano in dialogo, sia pure
faticoso, tra loro.
Questo incontro è favorito dall’urbanesimo sempre più dominante. Al
dato positivo dell’osmosi tra le culture si associano alcuni corollari
problematici tra loro antitetici. Da un lato, il sincretismo o il
“politeismo dei valori” che incrina i canoni identitari e gli stessi
codici etici personali; d’altro lato, la reazione dei fondamentalismi,
dei nazionalismi, dei sovranismi, dei populismi, dei localismi (tant’è
vero che ora si parla di “glocalizzazione” che sta minando l’ancora
dominante globalizzazione).
L’erosione delle identità
culturali, morali e spirituali e la stessa fragilità dei nuovi modelli
etico-sociali e politici, la mutevolezza e l’accelerazione dei fenomeni,
la loro fluidità quasi aeriforme (codificata ormai nella simbologia
della “liquidità” prospettata da Bauman) incidono evidentemente anche
sull’antropologia.
Il tema è ovviamente
complesso e ammette molteplici analisi ed esiti. Indichiamo solo il
fenomeno dell’io frammentato, legato al primato delle emozioni, a ciò
che è più immediato e gratificante, all’accumulo lineare di cose più che
all’approfondimento dei significati. La società, infatti, cerca di
soddisfare tutti i bisogni ma spegne i grandi desideri ed elude i
progetti a più largo respiro, creando così uno stato di frustrazione e
soprattutto la sfiducia in un futuro.
La vita personale è sazia
di consumi eppur vuota, stinta e talora persino spiritualmente estinta.
Fiorisce, così, il narcisismo, ossia l’autoreferenzialità che ha vari
emblemi simbolici come il selfie, la cuffia auricolare, o anche il
“branco” omologato, la discoteca o l’esteriorità corporea.
Ma si ha anche la deriva
antitetica del rigetto radicale espresso attraverso la protesta fine a
se stessa, il bullismo, la violenza verbale sulle bacheche informatiche o
l’indifferenza generalizzata ma anche con la caduta nelle
tossicodipendenze o con gli stessi suicidi in giovane età. Si configura, quindi, un nuovo fenotipo di società.
Per tentare
un’esemplificazione significativa – rimandando per il resto alla
sterminata documentazione sociologica elaborata in modo continuo –
proponiamo una sintesi attraverso una battuta del filosofo Paul Ricoeur:
«Viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde
l’atrofia dei fini». Domina, infatti, il primato dello strumento rispetto al significato, soprattutto se ultimo e globale.
Pensiamo alla prevalenza
della tecnica (la cosiddetta “tecnocrazia”) sulla scienza; oppure al
dominio della finanza sull’economia; all’aumento di capitale più che
all’investimento produttivo e lavorativo; all’eccesso di
specializzazione e all’assenza di sintesi, in tutti i campi del sapere,
compresa la teologia; alla mera gestione dello Stato rispetto alla vera
progettualità politica; alla strumentazione virtuale della comunicazione
che sostituisce l’incontro personale; alla riduzione dei rapporti alla
mera sessualità che emargina e alla fine elide l’eros e l’amore;
all’eccesso religioso devozionale che intisichisce anziché alimentare la
fede autentica e così via.
Un altro esempio “sociale”
(ma nel senso di social) che anticipa il discorso più specifico, che
svolgeremo successivamente, è quello espresso da un asserto da tempo
formalizzato: «Non ci sono fatti, ma solo interpretazioni», asserto che
coinvolge un tema fondamentale come quello di verità (e anche di “natura
umana”).
Il filosofo Maurizio
Ferraris, studiandone gli esiti sociali nel saggio Postverità e altri
enigmi (Il Mulino 2017), commentava: «Frase potente e promettente questa
sul primato dell’interpretazione, perché offre in premio la più bella
delle illusioni: quella di avere sempre ragione, indipendentemente da
qualunque smentita».
Si pensi al fatto che ora i
politici più potenti impugnano senza esitazione le loro interpretazioni
e postverità come strumenti di governo, le fanno proliferare così da
renderle apparentemente “vere”. Ferraris concludeva: «Che cosa potrà mai
essere un mondo o anche semplicemente una democrazia in cui si accetti
la regola che non ci sono fatti ma solo interpretazioni?».
Soprattutto quando queste
fake news sono frutto di una manovra ingannatrice ramificata lungo le
arterie virtuali della rete informatica? Infine affrontiamo solo con
un’evocazione la questione religiosa. La “secolarità” è un valore tipico
del cristianesimo sulla base dell’assioma evangelico «Rendete a Cesare
ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», ma anche della stessa
Incarnazione che non cancella la sarx per una gnosi spiritualistica.
Proprio per questo ogni
teocrazia o ierocrazia non è cristiana, come non lo è il fondamentalismo
sacrale, nonostante le ricorrenti tentazioni in tal senso. C’è,
però, anche un “secolarismo” o “secolarizzazione”, fenomeno ampiamente
studiato (si veda, ad esempio, l’imponente e famoso saggio L’età
secolare di Charles Taylor, del 2007) che si oppone nettamente a una
coesistenza e convivenza con la religione.
E questo avviene attraverso
vari percorsi: ne facciamo emergere due più sottili (la persecuzione
esplicita è, certo, più evidente ma è presente in ambiti circoscritti).
Il primo è il cosiddetto “apateismo”, cioè l’apatia religiosa e
l’indifferenza morale per le quali che Dio esista o meno è del tutto
irrilevante, così come nebbiose, intercambiabili e soggettive sono le
categorie etiche.
È ciò che è ben descritto
da papa Francesco nell’Evangelii gaudium: «Il primo posto è occupato da
ciò che è esteriore, immediato, visibile, veloce, superficiale,
provvisorio. Il reale cede posto all’apparenza... Si ha l’invasione di
tendenze appartenenti ad altre culture, economicamente sviluppate ma
eticamente indebolite» (n. 62).
Il pontefice introduce
anche il secondo percorso connettendolo al precedente: «Esso tende a
ridurre la fede e la Chiesa all’ambito privato e intimo; con la
negazione di ogni trascendenza ha prodotto una crescente deformazione
etica, un indebolimento del senso del peccato personale e sociale e un
progressivo aumento del relativismo, dando luogo a un disorientamento
generalizzato» (n. 64).
Concludendo è, però,
importante ribadire che l’attenzione ai cambi di paradigma
socio-culturali non dev’essere mai né un atto di mera esecrazione, né la
tentazione di ritirarsi in oasi sacrali, risalendo nostalgicamente a un
passato mitizzato.
Il mondo in cui ora viviamo
è ricco di fermenti e di sfide rivolte alla fede, ma è anche dotato di
grandi risorse umane e spirituali delle quali i giovani sono spesso
portatori: basti solo citare la solidarietà vissuta, il volontariato,
l’universalismo, l’anelito di libertà, la vittoria su molte malattie, il
progresso straordinario della scienza, l’autenticità testimoniale
richiesta dai giovani alle religioni e alla politica e così via. Ma
questo è un altro capitolo molto importante da scrivere in parallelo a
quello finora abbozzato.
Gianfranco Ravasi
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