di ROBERTO PRESILLA
Donatella Di Cesare sulla
'Lettura' del 1° luglio apre il supplemento domenicale del 'Corriere
della sera' con un’ampia carrellata sulle vicende filosofiche del
Novecento. Compito ingrato, che può suscitare più facilmente dissensi
che consensi.
Non
sorprende quindi che altri filosofi, affrontando lo stesso tema, possano
indicare altre priorità o tracciare vie diverse. Sarebbe difficile
tuttavia contestare l’importanza di Heidegger o Wittgenstein, anche se
sicuramente chi ha una formazione diversa legge in altro modo il senso
del lavoro svolto dal Tractatus alle Ricerche.
Se il nostro secolo filosofico comincia con la crisi del soggetto,
dominatore “da Descartes a Kant”, se i maestri sono Kierkegaard, Marx,
Nietzsche, Freud, se Heidegger e Benjamin sono centrali per capire il
Novecento, che ne è di Hegel? Il nome che manca, ma a cui si allude, è
quello del filosofo a cui molti di questi nomi sono collegati, come ha
sottolineato Karl Löwith.
In larga misura la filosofia a cui reagiscono Marx, Kierkegaard e
Nietzsche è proprio quella hegeliana: eppure sarebbe difficile pensare
che l’autore della Fenomenologia dello spirito
– quello a cui si deve l’idea oggi superata che la modernità cominci
con Descartes – parli del soggetto in modo ingenuo. Del resto la sua
filosofia ha avuto, tramite Kojève, influssi molto ampi anche su Lacan e
gli sviluppi della psicoanalisi. A Frege va meglio di Hegel, visto che
viene nominato, ma solo come “precursore” di Wittgenstein. La sua
“analisi logica” è in realtà la fine dell’analisi logica che ci hanno
insegnato a scuola: è una radicale divaricazione tra logica e
grammatica, su cui peraltro Wittgenstein insisterà a lungo. Ma ancora
più interessante è il suo punto di partenza. Frege non si occupa né di
soggetto né di politica: ci chiede “che cosa sono i numeri?”.
È una domanda metafisica, che nasce da una rivoluzione (anch’essa in
larga parte cominciata nel XIX secolo) culminata nei grandi risultati
logici e matematici del Novecento.
Se guardiamo con un po’ d’attenzione, è difficile identificare il
“secolo breve” solo con la tecnica distruttiva della bomba atomica o con
il dominio dei media. Entrambe le questioni vanno affiancate ai (o
meglio, inquadrate a partire dai) cambiamenti radicali avvenuti in
logica e matematica. La rivoluzione digitale da un lato alimenta,
dall’altro eccede sia il dominio dei media sia la crisi del soggetto.
Porta nuovi modi di mettere ordine (o
disordine) nella realtà ed è quindi un forte segnale di discontinuità.
Forse più forte di quanto lo siano i “maestri del sospetto”: si potrebbe
sostenere, infatti, che la loro critica secolarizzante non sia che il
movimento radicale ed estremo della modernità, il suo volto ipermoderno.
Di qui si scorgono due zone lasciate in ombra, su cui dirigere un
pochino di luce. La prima riguarda quanti hanno provato a prendere sul
serio la questione logica e matematica: oltre ai maestri del primo
Novecento, si pensi – per capirci – a Putnam, Davidson, Dummett (per non
parlare di Quine).
La loro riflessione conferma i limiti dell’ormai
abusato schematismo “continentale vs analitico”. Un’altra zona riguarda
quei pensatori (per chi vuole dei nomi: Girard, Taylor…) che hanno
provato a leggere la complessità della nostra epoca a partire
dall’intreccio tra sacro e secolarizzazione. Già, perché la fede,
definita da Di Cesare «salto rocambolesco nel non credibile» senza più
appigli (curioso che la definizione richiami un vecchio, vecchissimo
adagio), è un’altra grande figura del pensiero novecentesco. Una
figura che qualcuno pensa di liquidare come “assurdità per
definizione”, ma che invece ci permette di guardare con occhio
diverso la stessa vicenda moderna, ossessionata dal mito
dell’assoluto. La finitezza che oggi avvertiamo e che Di Cesare
giustamente sottolinea è certo un effetto della crisi della
modernità.
Ma non è contrapposizione alla fede, che ne è anzi da sempre
meditazione accorta, trasmessa mediante la testimonianza, che vive di
razionalità non assoluta, ma relativa al rapporto tra chi parla e chi
ascolta. Forse non è un caso che, mentre Foucault si spingeva «nei
sobborghi rimossi della follia», un suo amico e contemporaneo, De
Certeau, connetteva follia e mistica, svelando un’altra zona d’ombra. De
Certeau ha contrapposto l’esperto, integrato al corpo sociale a cui
vende un sapere (supposto) in cambio di autorità, al filosofo, che con
lo sguardo rivolto all’universale insinua il dubbio nei saperi
consolidati, identificando in Wittgenstein il filosofo che più
radicalmente ha criticato gli esperti (e anche i filosofi, se scelgono
di esser tali).
A ben guardare, più che a un secolo lunghissimo, la
filosofia del Novecento appartiene a un gioco lunghissimo. Che vale
ancora la pena di giocare.
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